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Compulsione psichica: performare

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Negli ultimi anni, appare esplosivo l'uso degli psicostimolanti legali o illegali. Che tipo di farmaco sono? E come mai, negli ultimi anni, gli psicostimolanti hanno soppiantato gli allucinogeni degli anni Sessanta e Settanta e l'eroina degli anni Ottanta e Novanta? Il soggetto nevrotico, moderno Dottor Jekyl, si trasforma in sociopatico, moderno Mister Hyde, usando cocaina, anfetamine, meta-anfetamina e altri stimolanti, legali o illegali. Secondo il New York Times, i manager americani usano farmaci legali per stare dietro agli impegni, gli stessi che vengono somministrati ai bambini con disturbi dell'attenzione. La ragione principale riguarda il lavoro, o meglio, la performance

Il termine lavoro, nei sistemi psicotici contemporanei, è vecchio, fuori moda. Queste persone performano attività stressanti e necessitano di carburante extra, come dicono in molti, per starci dentro, cioè rispondere agli impegni diurni e notturni della performance. Baristi, ristoratori, manager, animatori da discoteca, imprenditori, lavoratori sottoposti a turni frenetici: queste sono le categorie che fanno maggiore uso di psicostimolanti. Se l'alcol serve a dimenticare – droga per la memoria – gli psicostimolanti servono ad aumentare il livello di attenzione, stimola condotte maniacali. Che significa: diventare sociopatici. Oggi la performanceè tutto. 

 

Ma qual è l'origine di performance? Performare significa completare, totalizzare. C'è, nella performance, una componente totalitaria. Una saturazione della vita e del legame sociale. La prima esperienza è stata Pinochet: la prima forma di totalitarismo liberista. Ora però non c'è più neppure bisogno di Pinochet, il volto di Milton Friedman e dei suoi ragazzi di Chicago appare dietro la maschera del dittatore. Trump non necessita di colpi di Stato. Non c'è violenza fisica, solo induzione psicologica: metodi ipnotici, addestramento comportamentista.

Gli enunciati performativi non sono più imposti dall'alto, si installano dentro il soggetto, compulsioni che diventano parte del processo di psicotizzazione. Il soggetto non lavora più per vivere, vive per performare. Dal sistema totalitario classico a oggi, il performativoè mutato: riduce la libertà, come allora, ma senza coercizione fisica, ci fa credere che la libertà sia stare davanti a una slot, riempirsi-vomitare-riempirsi, cancella il tempo della riflessione, squarcia il cielo protettivo del legame, annienta l'intervallo. L'esplosione dell'uso, legale o illegale, degli psicostimolanti ha a che fare con il performativo di questi ultimi quindici anni. 

 

Albarran & Cabrera.


Si è persino pensato di somministrare psicostimolanti ai bambini, per renderli performativi a scuola. Una scuola che, a sua volta, riduce spazi d'intervallo e richiede prestazioni precoci, come in una gara. Gli spazi d'intervallo sono, a loro volta, spazi di prestazione sportiva. Negli anni Ottanta del secolo scorso, fu inventata una nuova diagnosi, un tempo sconosciuta, oggi diffusissima: ADHD. Significa disordine da deficit di attenzione e iperattività; diagnosi, a sua volta, psicotica. L'iperattività nei bambini è la conseguenza dell'assenza di spazi liberi. Per tirare due calci al pallone bisogna iscrivere il figlio a un club sportivo, per fare una gita in bici bisogna raggiungere un parco. Il deficit di attenzione è spesso il frutto di una confusione legata a diversi ritmi di apprendimento tra una generazione che studiava sui libri e una che apprende da internet. 

Molti bambini iperattivi non hanno deficit di attenzione; semplicemente non stanno dentro i tempi standard richiesti per l'attenzione classica, apprendono in modo diverso. Con l'ADHD, la società psichiatrica americana ha decretato la fine dell'infanzia; i bambini vanno trattati come adulti performanti fin dai primi momenti della vita. 

 

La teoria che giustifica la somministrazione di psicostimolanti ai bambini sostiene che questi abbiano, appunto, un effetto paradossale. La tesi è che, siccome questi bambini sono stressati dall'esposizione agli audiovisivi, a internet, siccome vanno a dormire troppo tardi, siccome la società è performante anche per loro; per mantenere l'attenzione siano costretti a essere iperattivi. Dunque: se viene richiesto loro di calmarsi, perdono attenzione, se viene richiesto loro di stare attenti, diventano iperattivi. Lo psicostimolante, secondo questo delirio scientifico, avrebbe l'effetto chimico di ridurre lo stress e aumentare la soglia dell'attenzione. Il metilfenidato – questo il nome della più nota tra queste droghe – renderebbe più performanti. Non è la società che va cambiata. Nei sistemi psicotici, la società è un dato: variabile indipendente. Però si può cambiare il sistema nervoso individuale a livello chimico. La nuova società performativa di quest'epoca psicotica addestra i bambini a essere all'altezza delle performance richieste dall'epoca. 

Oggi si trovano anche casi di soggetti che abusano insieme di alcol e di cocaina. Bevono per ridurre l'inibizione, poi sniffano cocaina; lo fanno con competenza, sono informati, leggono su internet come fare a ottenere i risultati sperati attraverso la chimica. Il doppio uso di sostanze è accompagnato, in molti casi, dal gioco d'azzardo.

 

Il libro Ludocrazia. Un lessico dell'azzardo di massa, recente pubblicazione, a cura di Marco Dotti, spiega in modo dettagliato questi meccanismi. Ludocrazia significa che il gioco d'azzardo, nei nuovi sistemi psicotici, non è più una scelta rara del soggetto, un rischio che accade di tanto in tanto. 

Il gioco d'azzardo è parte costitutiva dell'epoca psicotica, è compulsione portata al paradosso, si gioca per perdere, ci si impegna nella dissipazione. Tutti sanno che i poteri forti, compreso lo Stato, dominano il gioco d'azzardo. I meccanismi pubblicitari e di mantenimento delle performance dell'azzardo sono noti, Natasha Dow Schüll li ha descritti nel libro Architetture dell'azzardo, edito presso Luca Sossella. In Italia sono state fatte ricerche analoghe da Maresa Bartolo e Ilaria Mariani (Game Design, Pearson) e da Francesca Antonacci (Puer Ludens, Franco Angeli). L'Italia è il primo paese europeo e il terzo nel mondo per diffusione del gioco d'azzardo. Cosa sta accadendo? Più ancora del gesto sociopatico isolato, nel gioco d'azzardo abbiamo l'espressione sistematica dell'epoca psicotica. 

 

I luoghi dell'azzardo hanno sostituito la fabbrica. La fabbrica era il paradigma della società nevrotica. I lager erano il paradigma delle epoche psicotiche classiche. La sala da gioco è il paradigma della nuova epoca psicotica: lager volontari. Migliaia di persone, anziché recarsi a timbrare il cartellino, si riversano volontariamente nelle case dell'azzardo da mattina a sera; anziché prendere un salario, spendono tutto quel che possiedono; anziché produrre beni, producono devastazione. Le macchine slot si trovano nei bar, nei negozi, nei circoli ricreativi della sinistra, negli oratori, in una società dove le persone non lavorano per vivere, ma vivono per performare, ricattate da contratti a termine, che impediscono loro di protestare, dove il mobbingè pratica comune. 

 

I sistemi psicotici contemporanei non hanno nemmeno più bisogno delle masse, anzi, a differenza dell'epoca di Gustave Le Bon (1841-1931) e José Ortega y Gasset (1883-1955), oggi le masse tornano nella schiavitù volontariamente. Un gruppo ristretto di privilegiati vive sulle spalle di una massa di schiavi, senza diritti, dominati dalla compulsione. Questa è la nuova società psicotica, dove alla coercizione fisica è stata sostituita la compulsione psichica, alla repressione sociale, quella psicologica. La violenza è interiorizzata; riemerge come risposta negli atti estetici individuali, à la Breivick, con le sue gun-machine. Mentre Ned Ludd distruggeva le macchine, oggi le macchine distruggono noi.

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Pericolo, crimine e diritti

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Questa conversazione - tradotta da Giovanni Vezzani - è un estratto dal nuovo numero della rivista aut aut, di cui riportiamo la prefazione scritta da Mario Colucci e Pier Aldo Rovatti.

 

Questo fascicolo prosegue l’indagine sulla pericolosità avviata nel n. 370, mantenendone il titolo e ampliando i diversi percorsi collegati o collegabili a una questione che riteniamo attuale e decisiva. Il passaggio dall’individuo pericoloso alla società a rischio viene inizialmente sviluppato attraverso alcuni materiali: un’inedita conversazione che Michel Foucault tenne negli Stati Uniti nel 1983, la ricostruzione di Bernard Harcourt di come si è imposto il concetto di analisi attuariale e due interventi della scuola belga di criminologia a firma di Fabienne Brion e Christophe Adam. Ma il fascicolo apre anche una serie di altri fronti che vanno dal terreno giuridico e dal problema del carcere all’emergenza sociale e politica del “pericolo” immigrati, oggi molto dibattuto in Italia e in Europa, a quella della violenza sulle donne, indagata dalla prospettiva della psicoanalisi. Siamo una rivista che cerca di mettere alla prova ogni volta il pensiero critico: l’allargamento della questione a partire dal nodo storico e teorico della pratica psichiatrica si accompagna di conseguenza a un tentativo di approfondire ulteriormente il tema della pericolosità. La questione della pericolosità non va sfumando in quella del calcolo del rischio, all’opposto sembra intensificarsi come domanda teorica, certo non semplice, che dobbiamo continuare a rivolgere a noi stessi, dovunque operiamo: tale domanda dovrebbe mettere in gioco radicalmente le nozioni di normalità e anormalità, la loro tenuta e i loro confini, dato che non possiamo pensare di disfarci davvero delle categorie di pericolo e di pericolosità senza indagare gli effetti che esse hanno sulla nostra stessa idea di soggetto, cioè i pregiudizi e le relative forme di violenza che impugniamo quotidianamente contro le persone deboli e che tali pregiudizi continuano a innervare. Tutti quanti noi operiamo all’interno di una cultura asfittica nella quale dobbiamo immettere ossigeno critico, cioè, in breve, interrogarla. Questo fascicolo vorrebbe allora suggerire che il tema del pericolo, individuale e sociale, ha necessariamente un rimbalzo su quell’idea di “soggetto normale” che molto spesso consideriamo un’acquisizione comune e tranquillizzante.

 

Michel Foucault - Penso che vi siano due concetti principali in questa nozione di pericolo. Una – che può essere definita la concezione antica di pericolosità – credo sia radicata nel problema che chiamano monomania, monomania omicida.

 

Jonathan Simon - Un tipo di crimine mostruoso.

 

M.F. Ci sono mostri che hanno ucciso persone e sono incapaci di spiegare perché lo hanno fatto. Ed è molto interessante vederlo in Germania, in Inghilterra e in Francia e forse anche negli Stati Uniti, anche se non ne sono certo, poiché non conosco abbastanza questo genere di cose. In questi tre paesi, negli anni venti dell’Ottocento, si registrano casi di persone che hanno ucciso un bambino o i genitori o qualcun altro, per la strada, in casa, e sono incapaci di spiegare perché, di fornire ragioni. E così innanzitutto era un grattacapo per i giudici, e anche per i medici e gli psichiatri, poiché quando qualcuno ha un motivo per uccidere – interessi, gelosia, una lite sull’eredità ecc., questo genere di problemi familiari – allora si può dare un giudizio sull’azione commessa, capire l’operato e il motivo. Erano ragioni fondate o infondate, è stato per via dei suoi interessi… Farò un esempio ben preciso. Si tratta del caso di una donna che ha ucciso il suo bambino e lo ha cucinato.

 

J.S. Ah sì, è riportato qui. [Si tratta del caso Selestat, discusso da Foucault in vari articoli e seminari]

 

M.F. E la discussione era questa: se la donna fosse stata ridotta alla fame, allora avrebbe commesso il fatto per nutrirsi. E in tal caso sarebbe stata colpevole, poiché effettivamente lo aveva commesso. Ma se fosse stata ricca, allora non avrebbe avuto motivo di farlo, quindi si sarebbe potuto considerarla folle, una malata di mente. Poiché era assolutamente indigente, c’era il sospetto che l’azione fosse stata compiuta per “interesse” e fu considerata colpevole. Perciò gran parte di questo tipo di problema ruota intorno alla domanda se ci sia un motivo per cui uno ha agito così, e solo quando non si trova un motivo si dice che si tratta di un atto irragionevole. In questo genere di casi si è di fronte a un individuo che è pericoloso a sé e agli altri, non a causa delle circostanze o del contesto, ma perché costituisce un potenziale pericolo per la società senza alcuna ragione, e per il fatto stesso che egli non ha motivo di fare ciò che fa.

 

J.S. Allora persino in questa prima fase il problema principale non era la responsabilità?

 

M.F. Sì, era un problema. Ma poiché nel codice francese, nel codice napoleonico, si dice che uno è responsabile per ciò che ha fatto se era consapevole di ciò che stava facendo e se non era stato costretto a farlo, il dilemma sorgeva quando non era possibile addurre spiegazioni: non è questo il segno che non si era del tutto consapevoli di ciò che si stava facendo? Oppure non era il segno di una qualche compulsione o corruzione che spinge a fare ciò che si fa? Ritengo che qui si abbia l’esempio di un individuo che è pericoloso di per sé per una qualche misteriosa ragione psicologica.

E dall’altra parte penso che dietro la nozione di pericolosità si celi qualcosa di completamente diverso, che è la scoperta del fatto che nella nostra società vi sono irregolarità statistiche per quanto riguarda l’esecuzione dei delitti. Quindi proprio come in una città c’è un certo tasso di vittime di incidenti stradali, allo stesso modo c’è un tasso costante, permanente di crimini. Perciò il crimine diventa un pericolo perenne nella società: può accadere precisamente come uno scontro fatale, come un incidente. E credo che l’intreccio di questa idea di pericolo psicologico, scoperto tramite quei casi patologici, e la scoperta di dati statistici, irregolarità statistiche, all’incrocio di queste nozioni si ritrovi l’idea di pericolo con le sue ambiguità.

 

 

J.S. E in epoca moderna non deve trattarsi necessariamente di un crimine mostruoso?

 

M.F. No, assolutamente no. Ma naturalmente questa nozione psichiatrica di pericolosità – attraverso il problema dell’irregolarità statistica del crimine –, questa nozione di dangerosité psicologica, psichiatrica è divenuta sempre più familiare, mentre essa è sempre meno correlata a un qualche tipo di mostruosità. E questo pétit délit, questo reato minore, o infrazione, è stato l’esemplificazione; è stato a quel livello che si poteva trovare l’articolazione tra la dangerosité psicologica e la nozione di pericolo sociale, o dangerosité statistica, perché è piuttosto evidente che quei grandi mostri non emergono molto spesso. Ma lo sappiamo per certo attraverso le statistiche, giacché attraverso lo studio statistico del crimine e della delinquenza che iniziò in Francia nel 1826 (e penso in altri paesi nella stessa epoca) si sapeva molto bene che i ladruncoli o le aggressioni sessuali e altre cose del genere erano [incomprensibile]. E, per ragioni del tutto evidenti, anche nei casi di piccola criminalità la récidive, la recidiva, era molto frequente, anzitutto per via del fatto che per quei reati minori le persone andavano in prigione uno o due anni e poi venivano rilasciate e ricominciavano, mentre ovviamente non c’era recidiva per i grandi crimini perché si veniva giustiziati.

 

J.S.È molto interessante.

 

M.F. Per cui quelle persone… almeno in Europa, in Francia, il problema della recidiva iniziò a essere molto acuto negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento. Per esempio si scoprì che per le aggressioni sessuali questo tipo di crimine era reiterato. Sono sempre le stesse persone a fare le stesse cose nelle stesse circostanze.

 

J.S. Ma ciò aveva anche un fondamento politico o di classe, nel senso che si concentrava sulle azioni illegali di…?

 

M.F. Di certo era correlato alla coscienza di classe, e l’idea che ci fossero alcune classi che erano pericolose e così via, sì, è sicuramente importante. Ma c’è un elemento che credo potrebbe essere indagato un po’ più a fondo. Si tratta del problema della delinquenza nelle classi più elevate. Le ho accennato alla questione della ferrovia, c’era anche il problema dei grandi negozi, i magasins, all’epoca non ancora supermercati. Lei sa che in Europa è stato intorno agli anni sessanta dell’Ottocento che si sono diffusi questi enormi negozi come Macy’s, e in Francia abbiamo La Belle Jardinière e Le Bon Marché e così via. Zola ha scritto un libro su di essi, qualcosa di abbastanza innovativo per l’epoca. Au bonheur des damesè un romanzo scritto da Zola su questi grandi magazzini che sono una vera novità sociale. Quindi in quei grandi negozi, in quei grandi magazzini, le donne borghesi iniziarono a praticare il taccheggio. Ci furono molti casi, e per la prima volta si scoprì che rubare era un comportamento rintracciabile tanto nella borghesia quanto nelle classi più umili. E ciò vale anche per il problema dei crimini sessuali. Perciò il problema della dangerosité non è così lampante come uno potrebbe pensare, non riguarda il fatto che le persone delle classi meno abbienti sono di per sé pericolose; certamente c’è questa idea ma c’è anche il problema posto dalla delinquenza borghese.

 

J.S. Ma, almeno nella mia esperienza di come oggi viene trattato in America quello che chiamiamo un criminale col colletto bianco (cioè un borghese, specialmente con riferimento al crimine in ambito economico e aziendale), non viene trattato dai tribunali come una persona pericolosa, anche se provoca una violenza, nel senso di lesioni a un lavoratore o a un consumatore che acquista un prodotto che è stato intenzionalmente immesso sul mercato nonostante fosse pericoloso. Come persone, i criminali col colletto bianco non sono pericolosi. Ed è anche il caso, per esempio, delle persone malate di mente, che in questo paese – e forse in Europa in generale – sono state trattate come assai più pericolose di quanto studi successivi non abbiano dimostrato. Un ambito in cui ciò emerge, in questo paese, è che se le persone vengono dichiarate non colpevoli per infermità mentale, o se sono sottoposte a ricovero coatto, non possono uscire fintantoché non dimostrano di non essere pericolose. Si sono fatti numerosi studi in base a cui, per esempio, la Corte suprema ha deciso di ordinare il rilascio di migliaia di persone malate di mente che erano detenute in manicomi criminali. Si è detto: dovete sottoporle a ricovero coatto o lasciarle andare. Queste persone, poi, sono state seguite da studiosi di scienze sociali e hanno mostrato tassi molto bassi di criminalità, molto inferiori alle previsioni. Quindi non sono più pericolose, eppure si è continuato a presumere che lo fossero.

 

M.F. Certo. Questa è una delle cose che reputo più interessanti in questa storia, cioè che in effetti i folli sono meno pericolosi rispetto alle altre persone perché…

 

J.S. Perché hanno difficoltà a muoversi liberamente.

 

M.F. Perché il loro è un problema psicologico. La ragione per cui hanno altro da fare che commettere crimini. In ogni modo, vorrei tornare sulla questione della delinquenza e della criminalità dei colletti bianchi. Quando negli anni sessanta dell’Ottocento i giudici scoprirono la frequenza con cui avvenivano i taccheggi, furono naturalmente molto imbarazzati, per lo stesso motivo che le ho citato a proposito del caso della donna che aveva mangiato suo figlio: il problema era perché mai una persona ricca, a cui non manca nulla, che può pagare e così via, nonostante tutto ruba? Perciò i giudici furono costretti a costruire una categoria psichiatrica che aveva un duplice vantaggio: per fornire una spiegazione o una categorizzazione di questo fatto inventarono il concetto di “cleptomania”, proprio come in precedenza si era fatto ricorso alla monomania omicida per le persone che uccidevano senza un movente. E tramite questa categoria poterono tenere fuori dai tribunali quelle donne, perché erano affette da una sindrome psichiatrica che era la cleptomania.

 

J.S. Ma se in Europa a quell’epoca si veniva riconosciuti come non responsabili perché affetti, per esempio, da cleptomania, ciò comportava che si veniva posti sotto il controllo dello Stato in un manicomio, oppure si veniva rispediti a casa per essere accuditi?

 

M.F. In Francia, nei codici napoleonici, in Europa, abbiamo quello che chiamiamo l’articolo 64, che afferma che non c’è nessun reato se l’atto è stato compiuto da qualcuno che non aveva il controllo di sé, o perché in stato di demenza o perché costretto a compierlo.

 

J.S. Noi diciamo la stessa cosa, ma poi li rinchiudiamo.

 

M.F. Sì, ma prima penso che cerchiate di ricostruire le circostanze del reato, no?

 

J.S. Sì.

 

M.F. Il reato è stato compiuto, ma l’uomo non ne è responsabile. Ciò che è più interessante in tribunale da noi è che il reato non esiste

 

J.S. Una volta che si è accertata l’infermità mentale non si continua?

 

M.F. Se durante l’instruction, l’indagine preliminare, una perizia psichiatrica dimostra che durante l’atto il criminale era in un état de démence, in uno stato di follia, allora tutto si ferma. Con un provvedimento di carattere amministrativo, si decide che il paziente (perché ora è divenuto un paziente) venga rinchiuso in un ospedale psichiatrico e i medici, i dottori, decidono quanto tempo deve rimanere e così via. Ma la giustizia non ha più nulla a che fare con lui. È finita: il reato non è esistito. È estremamente interessante, come può notare, perché dal punto di vista teorico ciò implica che il reato non costituisce di per sé un atto: il reato costituisce una certa relazione tra un atto e un’intenzione.

 

J.S. Noi ci siamo allontanati da questa visione, penso alla fine del XIX secolo.

M.F. Non avete mai avuto questa nozione di inesistenza del reato?

J.S. No, non quella nozione. ...

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Conversazione con Jonathan Simon

Prima di essere io. Cosa ci rende propriamente umani?

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Che non siamo padroni in casa nostra e che l’effetto della nostra volontà, delle decisioni, della nostra agency sulle direzioni che la vita prende è qualcosa di parziale, tutto ciò è forse una delle più importanti lezioni che la psicoanalisi ha dato alla cultura moderna. Celebre quel passo in cui Freud dice che la psicoanalisi è il terzo grande colpo che il genere umano subisce al cuore del proprio narcisismo e sistema di credenze, dopo la rivoluzione copernicana e l’evoluzionismo di Darwin. È chiaro, tuttavia, che il sapere psicoanalitico sull’inconscio non potrà mai diventare un’acquisizione della cultura, pena l’inceppamento della macchina, del lavoro della civiltà. La civiltà si fonda sul discorso del Padrone, un tipo di logica che ha un solo e unico interesse, secondo Lacan: “che la cosa funzioni”; la psicoanalisi ha invece la sua causa in ciò che non funziona.

 

Formazioni e istituzioni umane sono dunque dell’ordine del necessario. Far parte del consorzio umano significa rappresentarsi nella e alla civiltà in forma riconoscibile, dirsi, vedersi, percepirsi secondo i canoni e i significanti dell’Altro. In psicoanalisi questa ‘forma riconoscibile’ prende il nome di io. L’io è un costrutto immaginario e simbolico, si costituisce cioè nel dominio dell’immagine (l’immagine del corpo proprio e dell’altro) e del significante (il nome proprio, in primis). Dire “io sono, io faccio, io dico, io penso…” significa rappresentare quella cosa che si è, che si fa, che si dice, che si pensa; se la dico, non la sono, creo una distanza dall’evento che accade, dalla cosa. 

 

L’io è quella funzione di sintesi che ci rende propriamente umani, dove con “umani” qui intendiamo esseri viventi assoggettati a un Altro, a un discorso, con cui entriamo in un rapporto di desiderio (io desidero l’Altro e il suo discorso, l’Altro e il suo discorso desiderano me). Io sono questo, e non tutto il resto, amo questa cosa, questa persona, questo stile e non quegli altri; questo sì, quello no. Nel mondo e nel flusso dell’esperienza, l’operazione dell’io consiste nel ritagliare pezzi di esperienza, che diventa esperienza per me, a me rivolta, soggettivata. Ma prima che si dia questa formazione, prima cioè che l’essere vivente passi attraverso la strettoia del riconoscimento, acconsentendo alla propria rappresentazione simbolica e immaginaria, prima insomma di essere un io, che cos’è il vivente?

Si apre con una tale domanda questo splendido saggio di Franco Lolli, Prima di essere io. Il vivente, il linguaggio, la soggettivazione (Orthothes, Napoli 2017).

 

Louise Bourgeois, Maman

 

“Da dove vengono i bambini?” è la domanda del bambino-filosofo, dice Lolli. Indagine psicoanalitica sulle origini dell’umano, animale affetto dal linguaggio, il testo di Lolli si costituisce come una minuziosa analisi di un incontro, l’incontro tra quello che Jacques Lacan ha definito “il vivente”, cioè una vita incontaminata, non umanizzata, e il linguaggio, la logica della presenza-assenza che il significante introduce col suo avvento. 

Il vivente, dal canto suo, è già da sempre gettato nel linguaggio e nel discorso dell’Altro, già da sempre circondato e parlato da esseri umani suoi prossimi che costituiscono il suo Altro sociale, familiare, culturale; è già da sempre in relazione. Ed è proprio a quello che Freud, nel suo Progetto di una psicologia, definiva “complesso del prossimo (Nebenmensch)” che Lolli dedica principalmente le sue attenzioni. Cosa avviene nello spazio e nel tempo dell’incontro tra il neonato e il suo prossimo (generalmente la madre) e che ne è del prima di questo incontro, prima cioè della produzione di un soggetto e di un oggetto e della loro relazione? Che ne è della baraonda di immagini, di suoni, del flusso indifferenziato che circonda il vivente prima del suo riconoscimento, prima dell’individuazione di unità discrete, differenti in sé dal resto del mondo, che potranno perciò essere riconosciute, valorizzate, accettate?

 

Come avviene che a partire da quello che Jacques-Alain Miller definisce “l’oggetto chiacchiera del desiderio” – il discorso dell’Altro in cui è preso l’infans– possa sorgere una “risposta dal reale”? Di che natura è, quali forme, quali possibilità ha l’incontro tra un organismo vivente che sembra predisposto a “risuonare”, a sintonizzarsi al suono dell’Altro, e questo stesso Altro, che al principio si presenta come esperienza di soddisfazione, piacere, calore, suono, ritmo? Come si passa, insomma, dalla preistoria alla storia del soggetto?

 

Oggetto di indagine di questo coraggioso studio sono dunque le origini; origini della vita, dell’uomo, della coscienza, dell’alienazione. Perché definire “coraggioso” il lavoro di Lolli? La questione delle origini, come sappiamo, è cardine dei due discorsi che fanno parte della preistoria della psicoanalisi e con i quali l’invenzione freudiana da sempre si confronta: scienza e filosofia. In un suo scritto del 1955, Lacan parla di “una questione pipistrello: da esaminare alla luce del giorno”. In quegli anni, alle tecniche e ai saperi “psi” veniva chiesto di palesare il proprio statuto scientifico e dimostrare la propria efficacia ai fini del riconoscimento da parte del sistema sanitario. Rispetto a tale domanda, la psicoanalisi ha sempre invocato uno “statuto speciale”, una “extraterritorialità” rispetto al rigore scientifico, rifuggendo qualunque presa di posizione davanti alla domanda di riconoscimento. Non filosofica perché ancorata a una clinica del godimento implicato nel sintomo, non scientifica perché ogni caso clinico porta in sé una reinvenzione parziale della pratica, secondo Jacques Lacan la psicoanalisi rispondeva alle richieste che venivano dal mondo accademico come il pipistrello protagonista della favola di Esopo, che si camuffa da uccello per non essere ammazzato da una donnola che odia i topi, dopodiché si camuffa da topo per non essere ammazzato da una seconda donnola, che odia invece gli uccelli.

 

È in questo senso allora che vorrei definire coraggioso il lavoro di Franco Lolli, che nella sua difficile indagine – tutta psicoanalitica perché clinica – sulle origini dell’incontro tra significante e vivente, non perde mai di vista, come suoi interlocutori, da una parte il problema neuroscientifico della scrittura delle tracce di esperienza nell’apparato neuronico, dall’altra la speculazione filosofica sul concetto di “vita”. La questione forse più insistente dell’intero libro, ripetuta più e più volte soprattutto nella prima parte, domanda proprio che tipo di vita sia una vita al di qua della sua cattura, della sua alienazione al mondo umano, al mondo dei significanti e delle rappresentazioni. Si può dire umana una vita gravemente disabile? Che statuto hanno un corpo e una vita senza soggetto, senza conducente, senza io? Che cos’è, di chi è quella carne prima del gioco di rifrazioni attraverso cui il corpo, propriamente detto, si costituisce in un’immagine unificante e compatta, identificazione immaginaria primordiale, base più o meno sicura di un io e del suo rapporto con altri? 

 

È nel campo aperto da tali questioni che si presenta il personaggio di Liliana, “essere umano speciale”. Liliana è una donna di poco più di cinquant’anni affetta da una grave forma di disabilità intellettiva di origine organica; “così simile e, al contempo, diversa, familiare ed estranea, tanto intima quanto distante. L’incontro con lei è stato, ed è, un incontro perturbante, spaesante, impossibile da ricondurre agli abituali schemi relazionali, indicativo di possibilità esistenziali che si fatica a pensare umane” (p. 23). Liliana è un essere ibrido: alla vista appare simile all’essere umano, ma a quell’altra vista che è il riconoscimento appare invece simile all’animale. Un grande interrogativo rimosso s’impone epistemologicamente: se Liliana è così irriconoscibile all’occhio umano vuol forse dire che appartiene al campo dell’animale, che non se ne è mai emancipata? Dovremmo dunque pensare, secondo una cattiva logica evolutiva, che Liliana non merita l’attributo di “umano” dal momento che non ne esercita tutta la tecnica, la competenza, l’abilità e il lavoro? Trovarsi totalmente fuori dal discorso, dal legame sociale, dallo scambio, dal riconoscimento, fa di Liliana qualcosa di impossibile?

 

Emozionanti le pagine in cui Lolli si confronta con coraggio con questi spinosi e pericolosissimi interrogativi, attraverso i quali aleggia lo spettro dell’eugenia: “una considerazione di ordine etico mi convince, allora, a superare l’indugio che il rigore epistemologico comporta: supporre un umano dietro il vivente gravemente lesionato è una scommessa che intende volutamente ignorare il difetto logico dal quale prende le mosse il ragionamento, una sfida necessaria a scongiurare la segregazione del minorato in una riserva subumana”. Non c’è bisogno, d’altronde, di appellarsi a chissà quali ideali umanistici per progettare una tale supposizione; “del resto, una supposizione altrettanto ingiustificata è all’origine dell’azione interpretativa della madre, la quale, come noto, in una sorta di delirio da accudimento, attribuisce ad ogni gesto insignificante del proprio cucciolo un valore simbolico-comunicativo che strapperà quel gesto dall’insensatezza primordiale” (p. 44).

 

Tutto il lavoro di Lolli punterà dunque a dimostrare come non soltanto qualunque essere umano, ma persino qualunque animale domestico – cioè entrato in contatto col significante – non possa, a rigore, essere pensato come “fuori”. La condizione di Liliana non è che una delle possibili risultanti di un incontro e di un meccanismo che avviene sempre e comunque. Qualunque vita, anche quella vegetale, risponde e si muove secondo ritmi e alternanze – in primis piacere-dispiacere. L’omeostasi è un continuo negoziamento e movimento tra un + e un –, che come spiega bene Lacan nel seminario II, costituisce “la cellula elementare del simbolico”. Seguendo Lacan fin nel suo ultimo insegnamento, la radice del registro simbolico, a lungo supposto essere prerogativa dell’umano, viene rintracciata da Lolli in un reale primordiale. Ciò che intendiamo per riconoscimento, discorso, cultura non sono che “elucubrazioni di sapere” che muovono da un fondo comune (un comune non ontologizzabile, direbbe Jorge Aléman) che Jacques Lacan, con uno dei suoi più bei neologismi, ha chiamato moterialité, la materialità delle parole (mot). L’umano inteso come ordine discorsivo e riconoscimento delle forme, inteso come vita riconosciuta e riconoscente, origina da un fondo disumano, impasto informe tra reale e simbolico, ciò che sempre Lacan chiamava lalangue.

 

Liliana ci appare allora in tutta la sua ricchezza – che altro non è che il rovescio della sua povertà, come nota bene Federico Leoni nella sua bella prefazione. E con un movimento al contempo delirante, politico ed estremamente creativo, facciamo nostra la ricchezza di Liliana, assegnandole un posto, il posto del non-realizzato, dell’informe, del non previsto. Ritrovare così in Liliana “una fotografia della fenomenologia originaria del vivente” e costruire, grazie a lei, uno studio di tale portata, credo possa essere inteso e appreso come un altro colpo al narcisismo umano.

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Un altro colpo al narcisismo umano

La battaglia delle parole

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Accade spesso che qualcuno mi chieda perché scrivo libri per ragazzi. Difficile trovare una risposta per qualcosa che non è precisamente frutto di una decisione. Fra l’altro, non mi sono mai pensata come “scrittrice” e continuo a non pensarmi come tale. Sulla carta d’identità, alla voce professione ho riportato editore. Non mi è mai capitato di utilizzare per me stessa la definizione di “scrittrice”. E non per scelta: semplicemente quando accade di dovermi definire, non ci penso.

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L'enigma Lacan (guidatore spericolato)

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Il film celeberrimo di Orson Welles Citizen Kane (Quarto potere) si snocciola come una ricostruzione biografica. Un giornalista deve ricostruire la vita del magnate della stampa e tycoon Charles Foster Kane, giusto dopo la sua morte. Il giornalista compone una sorta di puzzle intervistando varie persone che hanno condiviso parte della vita di Kane. Le molteplici testimonianze vengono a comporre un’immagine sfaccettata del personaggio, ma il giornalista vuole capire soprattutto perché prima di morire Kane abbia pronunciato la parola rosebud. Chi o che cosa era questo Rosebud? Questo significante sembra indicare un pezzo mancante nel puzzle.

 

Rosebud letteralmente significa bocciolo di rosa, ma viene usato anche come bocca di rosa, una bocca con labbra delicate e rosee. Come orifizio con mucosa, il termine evoca anche le piccole e grandi labbra della vagina. Rosebud sembra insomma riferirsi a una donna, ma è anche significante di qualcosa che in francese si chiama béance, ciò che resta aperto come una vena tagliata o una bocca socchiusa. Il giornalista non scoprirà nulla, la rivelazione finale – un MacGuffin come si dice nel cinema – è riservata allo spettatore, una rivelazione che però lascia aperta la domanda sul significato ultimo di quel significante pronunciato sull’orlo della morte.

 

Mi sono ricordato del film di Welles dopo aver letto Vita con Lacan (La vie avec Lacan) di Catherine Millot (Raffaello Cortina editore). Costei, psicoanalista e scrittrice, negli anni ‘70 fu amante, allieva e compagna di Lacan. Tra loro c’erano 43 anni di differenza, e l’autrice nota che oggi scrive questo libro avendo l’età che aveva Lacan quando lei l’aveva conosciuto, attorno ai 72 anni. Questa di Millot è una testimonianza sulla sua esperienza personale con Lacan. Che si aggiunge a varie altre testimonianze, pubblicate nel corso degli anni da parenti amici allievi o analizzanti di Lacan, da prospettive tra loro diverse, a cui bisogna aggiungere la lunga biografia di Lacan scritta da Elisabeth Roudinesco. Abbondano aneddoti anche gustosi, altri più o meno immaginari, sul personaggio Lacan. Dobbiamo mettere queste testimonianze una accanto all’altra, un po’ come fece il giornalista di Citizen Kane, se vogliamo costruire il puzzle Lacan. Ma ci resta un rosebud a cui dare risposta? Penso di sì. Insomma, per me c’è un enigma Lacan.

 

Vari amici, che stimo, mi hanno detto che questo libretto secondo loro non vale granché. Mi chiedo che cosa abbia potuto motivare questo giudizio severo. Un libro-testimonianza deve il suo interesse non al fatto che sia scritto più o meno bene, che sia più o meno profondo, ma al fatto che testimoni appunto, che ci informi su aspetti a noi ignoti di una vita. Certi lacaniani aborriscono gli scritti biografici su Lacan in genere, “sono solo pettegolezzi” dicono, ma in fondo ogni storiografia è una forma di pettegolezzo. E la stessa analisi appare in qualche modo un pettegolezzo su se stessi, un tradurre in parola qualcosa di intimo e inconfessabile. Forse alcuni vorrebbero che di Lacan si scrivessero non biografie ma agiografie. Le biografie serie comportano sempre un alone di demistificazione, e posso capire che chi vota a Lacan una forma di culto della personalità non possa accettarle.

 

A me interessano invece anche i “pettegolezzi” su Lacan perché, come la psicoanalisi insegna, le teorie psicoanalitiche non sono il prodotto di menti disincarnate, ma di soggetti particolari con la loro storia, il loro inconscio, le loro ferite. D’altro canto è vero che ogni biografia fa appello al nostro voyeurismo. Al limite, ci saremmo aspettati che Millot ci parlasse anche dei suoi rapporti sessuali con Lacan, o dei suoi rapporti con la moglie di Lacan Sylvia, perché no? Ma più ne sappiamo di uomini e donne eminenti, più un tarlo, simile a Rosebud, ci assilla: resta sempre qualcosa che ci sfugge, una sorta di buco. Insomma, chi era veramente Lacan?

 

Di Lacan colpisce un comportamento che i suoi più intimi mettono in evidenza: il suo modo di guidare l’auto. Correva oltre i limiti di velocità, non dava la precedenza, passava col rosso, prendeva anche la corsia d’emergenza pur di superare un ingorgo, insomma metteva a repentaglio la vita propria e di chi gli stava accanto. Anche se un altro guidava, di fronte a semafori rossi si spazientiva subito e talvolta usciva dall’auto. Questo anarchismo automobilistico sorprende perché Lacan è stato, tra tutti gli psicoanalisti, quello che ha dato più peso al ruolo della legge nell’inconscio e nel destino individuale. Per Lacan, come per S. Paolo, la legge non è un ostacolo posto al nostro desiderio, è anzi la condizione del desiderio stesso, ciò che lo costituisce e lo sferra. Ora, come vedere il fatto che il teorico della legge non tenesse in alcun conto la legge più banale, il codice stradale? Cogliamo qui una discrasia tra la teoria e la vita?

 

La trasgressione, appunto. Non credo sia un caso che Lacan sia venuto in rotta di collisione con l’International Psychoanalytic Association – l’organizzazione ufficiale e più antica degli psicoanalisti – non per il contenuto del suo insegnamento, ma per ragioni direi fiscali: il fatto che facesse sedute a tempo variabile (e non a tempo fisso, di solito 45 minuti, come fanno gli analisti ortodossi) e che queste sedute fossero di solito troppo corte. Non c’è nulla di male in sé nell’ideare una nuova tecnica analitica, nel fare sedute corte, ma trovo significativo che la rottura sia avvenuta perché Lacan non rispettava il codice del setting analitico. Ritroviamo questo suo rapporto problematico con “le regole” in molti altri comportamenti, in particolare nel fatto che abbia preso Catherine Millot come sua amante quando era ancora sua analizzante e allieva. 

Lo stesso Lacan racconta quando incontrò il famoso psicoanalista austriaco Ernst Kris al congresso psicoanalitico di Marienbad nel 1936 (“La direzione della cura”, Scritti). Il giovane Lacan gli disse di voler andare poi alle Olimpiadi di Berlino, che si tenevano allora. Il punto è che queste dovevano essere le Olimpiadi di Hitler… E Kris, ebreo, gli disse in francese “Cela ne se fait pas!”, “Questo non si fa!” Lacan ci andò lo stesso. 

 

 

Appunto, cela ne se fait pas. Non si passa col rosso, non si va a letto con le pazienti, non si fanno sedute eccessivamente corte, si deve dare la precedenza in strada… E dico questo non per gettare l’anatema su Lacan, tutt’altro. Piuttosto per dire che Lacan era un dandy.

Nessun biografo o testimone di Lacan, a quanto io ne sappia, ha presentato Lacan come un dandy. Forse perché i grandi dandies – Baudelaire, Oscar Wilde, Raymond Roussel, ecc. – non ci appaiono eticamente corretti. Essi si escludevano dai valori e dai gusti della massa, vantando la loro libertà rispetto alle regole che valgono per la gente comune, ovvero per i mediocri. Ora, sembra che la fascinosa arroganza del dandy non possa conciliarsi con la psicoanalisi, che è pur sempre, lo si riconosca o meno, un’attività di cura, di aiuto, un servizio alla persona. Può essere il dandy un filantropo, o semplicemente un medico? Millot sottolinea come Lacan facesse sentire la gente comune a proprio agio, come sapesse interloquire bene con gli psicotici; insomma, sapeva aiutare. E poi, quando si ha quel fascino misterioso che oggi chiamiamo carisma, si riesce ad aiutare meglio il prossimo che quando non lo si ha. 

 

Il dandy, dunque, si sente libero. Ora, si dà il caso che Lacan abbia sempre disdegnato di predicare la libertà, cosa che lo separa nettamente da Sartre, il filosofo della sconfinata libertà dell’essere umano.

 

Quando una giornalista televisiva gli chiese qualcosa sulla libertà, Lacan si mise a ridere e alla fine disse “Io non parlo mai di libertà”. Non ne parlava, ma la praticava, anche a costo di rompersi l’osso del collo.

Millot accenna all’allievo di Lacan Giacomo Contri, traduttore degli Ecrits, e qui lei commette un errore. Dice che Lacan era esasperato dal fatto che Contri avesse chiamato Comunione e Liberazione la sua scuola di Milano. In realtà Contri aveva chiamato il suo gruppo Scuola freudiana (di cui io stesso feci parte per qualche anno), ma era anche membro del movimento Comunione e Liberazione che noi italiani conosciamo bene. Di fatto Lacan rimproverava a Contri la sua adesione all’integralismo cattolico. In un incontro a Milano con gli allievi di Contri, disse che i due significanti “comunione” e “liberazione” erano profondamente estranei al suo insegnamento, che certamente non era catto-comunista. In particolare, l’analista non è mai libero: “Non si può dire che il mio discorso vi prometta una liberazione da alcunché, perché si tratta, al contrario, di incollarsi alla sofferenza delle persone…” (Lacan in Italia/En Italie Lacan, La Salamandra, 1978, p. 122). 

 

Scrive Millot: “A un transessuale che rivendicava la sua qualità di donna, non smise di ricordare durante il colloquio il fatto che era un uomo, che lo volesse o no, e che nessuna operazione ne avrebbe fatto una donna” (p. 42). Ecco una posizione che oggi apparirebbe retrograda, che il movimento LGBT contesterebbe. Oggi prevale la concezione per cui il proprio genderè qualcosa che ci si assegna, non qualcosa che si è oggettivamente. Ma appunto, egli non compiaceva l’ideologia liberal secondo cui si deve essere liberi di essere quello che si vuole, con l’aiuto anche della chirurgia e della tecnologia. La retorica della liberazione, che all’epoca andava per la maggiore sia a sinistra che a destra – “è proibito proibire”, la teologia della Liberazione, ecc. – gli era del tutto estranea.

In effetti, all’epoca altre teorie si contrapposero a Lacan rivendicando, sulla scia del ’68, una liberazione incondizionata: era il caso dell’apoteosi orgasmica di Wilhelm Reich, o delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, o della critica liberatoria da parte di Jean Baudrillard… Rispetto a queste filosofie di esaltazione della libertà del desiderio, il pensiero di Lacan appare un dolente richiamo al determinismo in cui l’essere umano è preso.

 

Eppure Lacan si sentiva libero da ogni regola. Quindi, il suo pessimismo sulla libertà era solo una faccia della medaglia, l’altra era quella di una liberazione direi in extremis che nasce proprio da una sorta di sottomissione inaugurale. Lo si può così accostare ad Antigone – su cui tenne bellissimi seminari – l’eroina che si ribella alla legge della città per seguire la propria legge, la legge del proprio desiderio. 

Perché le trasgressioni di Lacan erano contro le leggi di Creonte – dalle sedute standard dell’IPA fino ai semafori rossi – per affermare un’altra legge, quella del desiderio. “Ci si sente colpevoli – diceva – quando si cede sul proprio desiderio”. Egli non voleva cedere sul proprio desiderio. “Per lui, non c’erano piccoli desideri, la minima voglia era già sufficiente” dice Millot (p. 69), comprese le voglie delle persone che amava, voglie che doveva soddisfare subito, senza mai rimandare all’indomani ciò che poteva essere fatto immediatamente.

 

Non a caso in gioventù fu amico di surrealisti, tra i quali Dalì, anche se Millot preferisce definirlo “dadaista”. E forse non a caso sposò la ex moglie di Georges Bataille, che possiamo considerare il massimo filosofo libertario. È proprio negando teoricamente la libertà umana, come fece Lutero (De servo arbitrio), che la si deve praticare, in modo ingenuamente disperato. 

Lacan voleva sempre godere di tutto: delle donne, del danaro, del sapere, del pensare. Insomma, di Lacan non si può dire affatto che fosse saggio – in barba al pregiudizio secondo lui l’analista deve essere un campione di saggezza. Lacan esprimeva piuttosto una straordinaria vitalità, una passione quasi futurista per il movimento, gli sport, la velocità, i viaggi. Una vitalità quasi infantile, che Lacan stesso riconosceva quando diceva che aveva l’età mentale di un bambino di cinque anni. In fondo, quel che alla fine decide tra chi è semplicemente intelligente, anche molto intelligente, e il genio è proprio la vitalità, l’energia. Lacan non aveva bisogno di amfetamine, come Sartre che ne prese a bizzeffe, per essere sempre un po’ su di giri. E in effetti, come Erik Porge, potremmo interpretare il titolo del libretto di Millot come “Con Lacan, la vita”.

 

Questa vitalità si esprimeva anche nell’opposto del movimento: Lacan passava lunghe ore assorto, silenzioso, immobile. Questo vuoto immoto che faceva attorno a sé, in casa, assorbito dalle sue riflessioni, esprime in realtà la vitalità del suo pensare, che, frustato dall’urgenza di una soluzione forse impossibile, lo inchiodava. Un correre veloce per la vita che però si dirigeva dritto verso la morte, e non nel senso che ciascuno di noi deve morire. Dopo aver avuto la diagnosi di cancro all’intestino, Lacan rifiutò di curarsi. E alla figlia che gli chiedeva perché, rispose “Così, per capriccio”. Un’ombra di quasi-suicidio plana così su di lui; e gli stoici dicevano che il suicidio è uno dei pochi atti veramente liberi che l’essere umano possa permettersi.

 

Chi è molto vitale, non teme la morte. E Millot insiste sulla impavidità di Lacan. Una volta, mentre faceva una supervisione, dei ladri entrarono con le pistole puntate chiedendogli soldi; ma lui si rifiutò assolutamente di darglieli. Quando la morte gli si presentava davanti, non la fuggiva.

Come il dandy, pagava il prezzo di una solitudine di fondo. “Non c’era mai un ‘noi’, c’era lui, Lacan, e c’ero io che lo seguivo… D’altronde se a me il ‘noi’ non è mai stato congeniale, a Lacan era del tutto estraneo… La sua profonda solitudine, il suo apartismo [sentirsi “a parte” rispetto agli altri] rendevano il ‘noi’ qualcosa di fuori luogo” (p. 19). Il ‘noi’ è quella dimensione di comunione che, come abbiamo visto, rimproverava agli emuli di don Giussani. Perciò non credeva nel comunismo, e sono allergici a Lacan quelli che praticano l’analisi di gruppo. Freud si era occupato della dimensione del ‘noi’ in Psicologia delle folle e analisi dell’Io, in cui descrive ogni Mass, ogni collettivo, ogni ‘noi’, come qualcosa di essenzialmente fascista. Perché l’unità nel ‘noi’ presume sempre un Führer, un leader, una sorta di alienazione del desiderio in lui. Come ha potuto Lacan fondare allora una scuola quasi di massa di cui lui era il capo indiscusso? Il fatto che poco prima della sua morte l’abbia sciolta ci dice però che non era fatto per il potere sulle folle. “Aveva con l’esercizio del potere un rapporto che definirei minimalista” (p. 52). 

 

Qual era allora il rosebud di Lacan? Direi proprio averci detto che ogni esistenza singolare – anche la propria – gira attorno al mistero di una bocca socchiusa che si presenta come dolcissima. Egli era a un tempo Kane con il suo buco e il giornalista che lo cerca. Quell’enigma che Lacan è per noi, è il suo modo di girare attorno a quell’enigma che ogni essere umano, anche per se stesso, è. In fondo, ha indicato sempre un buco fondamentale che rompe la coerenza del soggetto-organismo. Una beanza – se mi si permette questo neologismo – nella teoria psicoanalitica, certo, anche nella propria teoria, che però a sua volta esprime una beanza fondamentale dell’essere umano. Come ci ricorda Millot, chiamò l’essere umano “il singolare”, separandolo dal particolare. Egli cercava una singolarità senza senso con cui ciascuno di noi deve confrontarsi. 

 

In fisica si chiama singolarità ogni fenomeno per cui le leggi della fisica normale cessano di valere, come nei buchi neri. Lacan pensava che il fondo di ciascuno è qualcosa di “impossibile” per il quale non valgono le nostre leggi e che lui chiamava il Reale, un buco nero che lo ha polarizzato negli ultimi anni.

Allora Lacan fu completamente assorbito, direi assillato, dai nodi borromei. Si tratta di un numero indefinito di anelli – minimo tre – allacciati in un certo modo che, se se ne taglia uno, tutti gli altri risultano liberi. 

 

Millot ci ricorda che gli spaghi per fare catene borromee avevano ormai invaso le due case di Lacan. Negli ultimi tempi, nei suoi seminari si limitava a disegnare sulla lavagna anelli e nodi sempre più complessi, in silenzio; quasi non parlava più.

Non discuto qui l’eventuale utilità dei nodi borromei nella pratica e nella teoria analitiche; ma certamente la passione di Lacan per essi erano il suo godimento e il suo sintomo. Bisogna psicoanalizzare anche la teoria psicoanalitica, e lo psicoanalista che la elabora. Evidentemente Lacan si interrogava: come mettere assieme il fatto che riusciamo a legare aspetti della nostra soggettività in modo da “chiuderci” felicemente, con il taglio, lo spezzarsi del nodo, che getta tutto nella baraonda della libertà? In quei nodi vedo il tentativo di una risposta a un paradosso fondamentale, quello dell’esistenza umana che la psicoanalisi non fa altro che ricalcare.

 

Attorno a questo paradosso, il vortice del modo di vivere e di pensare di Lacan. Questo vortice lo rende indigesto a molti, proprio perché non ci si può mai riposare in una definitiva consistenza della teoria. In questo vortice faceva girare insieme gran parte dello scibile, in una bulimia simile a quella speculativa di Hegel: psicoanalisi e opere letterarie, matematica e filosofia, logica arte e linguistica. Questo ciclone girava attorno a un occhio che egli chiamò Reale. Con questo qualcosa che manca al puzzle – e che in qualche modo ci libera pericolosamente da ogni legge – si è confrontato tutta la vita.

negli speciali in home: 
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Occhiello: 
Catherine Millot “Con Lacan, la vita"

Consumo. Possedere tanto, non possedere tutto

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Da alcuni decenni, le società occidentali vengono spesso definite «società dei consumi». Con ciò si intende sottolineare la notevole importanza che ha assunto al loro interno il mondo dei consumi. Un mondo che è stato in grado di generare una vera e propria “cultura dei consumi”, la quale si espande in continuazione su territori sociali sempre nuovi.

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Pedofilia

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Confesso di aver paura di scrivere o parlare di pedofilia – oggi, è come attraversare un campo minato. Il vespaio provocato dal romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete che desidera i bambini ma casto, mostra bene che la pedofilia tocca certi nostri nervi scoperti.

Siti in un’intervista (“Il caso Siti”, La Repubblica, 20 aprile 2017) si è sbagliato quando ha detto che desiderare i bambini senza farci nulla non è reato. Invece, si incrimina qualcuno anche solamente per aver visitato siti pedopornografici. Non solo gli atti pedofili, ma il desiderio pedofilo in sé oggi è criminalizzato. Come il decimo comandamento, il solo che proibisca un desiderio – dei beni altrui, compresa la donna altrui.

 

Anni fa una rivista di psicoanalisi mi chiese un intervento sulla pedofilia, e io scrissi un saggio in cui esaminavo alcuni casi di pedofilia presi dalla letteratura clinica. Con mia sorpresa il saggio fu rifiutato; il compianto amico Pietro Barcellona, membro della redazione, mi disse che quel mio scritto era apparso una lancia spezzata a favore dei pedofili. Caddi dalle nuvole. Il mio pezzo, almeno così credevo, era un’analisi scientifica, cioè distaccata, del mondo mentale pedofilico, senza una minima intenzione di apologia. Eppure, quel mio articolo è uno dei pochissimi, tra i tanti da me scritti, che nessuno abbia voluto pubblicare. In effetti, articoli anche di genere scientifico iniziavano con un anatema contro il flagello della pedofilia, con una denuncia di una quasi-cospirazione mondiale dei pedofili, ecc. Il mio saggio mancava di questo preambolo, forse perciò era apparso compiacente nei confronti della pedofilia.

 

Perciò tengo a informare prima di tutto il lettore di due cose: 1) non sono pedofilo; 2) ritengo giusto che la legge punisca l’adulto che indulga ad atti sessuali con bambini. Spero che, detto questo, io possa esprimere impunemente la mia idea.

Appunto, quel che mi sembra importante analizzare è proprio questa nostra esacerbata reattività quando si parla di pedofilia. Perché non è stato sempre così. Quando alla fine del XIX° secolo nacque la sessuologia medica, e Krafft-Ebing, Havelock Ellis e altri descrissero le perversioni – oggi chiamate parafilie – la pedofilia vi svolgeva un ruolo alquanto marginale. I medici europei di allora erano ossessionati piuttosto dall’omosessualità e dalla masturbazione. L’omosessualità era descritta come la peggiore perversione, del resto era perseguita penalmente in molti paesi (ma – questo lo si ignora – non in Italia, paese sempre permissivo nei confronti degli omosessuali). Gli omosessuali erano perseguitati in modo triplice: come peccatori dalle chiese, come malati mentali dagli psichiatri, e come delinquenti dallo stato. Quanto alla masturbazione, specialmente quella infantile, veniva denunciata come causa di terribili disturbi mentali e sessuali. I medici di allora ricorrevano a strumenti inquietanti per combattere “la peste onanista”, come corsetti antimasturbatori, astucci da erezioni, macchinari per allargare le gambe delle bambine, manette per le mani, addirittura cauterizzazione della clitoride, e altri sistemi sado-medici. All’inverso, si parlava e si scriveva ben poco di pedofilia. In sintonia con una certa omertà della popolazione nei confronti dei pedofili, soprattutto di quelli ecclesiastici, fino a pochi decenni fa.

 

Mio padre, professore di filosofia nato nel 1916, aveva studiato a Napoli in scuole di barnabiti e gesuiti, cosa che aveva prodotto in lui un desiderio di sacerdozio. Eppure ogni tanto alludeva a preti chiaramente pedofili; mi disse che un nostro caro amico di famiglia, una persona molto fragile, da ragazzo aveva accettato una relazione con un prete pedofilo. Mi disse che anche lui era stato oggetto di attenzioni, che aveva respinto. Apparirà oggi stupefacente che poi lui stesso mi mandasse a 15 anni a studiare dai barnabiti, a Napoli, istituto Bianchi, per due anni. E là alcuni compagni mi indicarono a dito i due o tre monaci “pericolosi”, dai quali stare alla larga.

Una volta un barnabita che non avevo mai visto, un uomo magro sulla trentina, mi dette appuntamento per parlarmi; evidentemente era il sacerdote incaricato della consulenza spirituale dei giovani allievi, tutti maschi. La sera mi recai al Bianchi. Attraversai lunghi corridoi bui con grandi finestroni, senza incontrare anima viva; quindi giunsi nella camera di questo sacerdote, anch’essa alquanto spettrale. Mi fece sedere di fronte a sé, molto vicino, la sua bocca quasi mi alitava in faccia, e mi prese una mano. Ricordo le sue mani fredde, i suoi grandi occhiali, il volto ossuto, la voce felpata e vischiosa. Senza andare troppo per le lunghe, mi chiese se avevo avuto polluzioni, se mi toccavo… mentre mi guardava fisso negli occhi come a volermi trivellare l’anima. Capii che dovevo tagliare la corda, difatti, senza rispondere alle sue domande, trovai una scusa e me ne andai.

 

Non so se quel tutore spirituale volesse sedurmi sessualmente, ma considero la sua lubrica curiosità sulla mia aurorale vita sessuale come già di per sé un attentato pedofilo. Era evidente che godeva nello strappare il velo di pudore degli adolescenti, nel penetrare anche solo verbalmente la loro intimità. Fu così che trovai del tutto pertinente la tesi che, molti anni dopo, Michel Foucault espresse in La volontà di sapere: che il nostro moderno interesse per il sesso, lungi dall’essere una novità rivoluzionaria, eredita una lunga tradizione, non solo cattolica, di investigazione della libido, di confessioni balbettanti, di puntiglioso smascheramento delle nostre fragilità sessuali.

 

 

Come mostra il film Spotlight di Tom McCarthy, quando il giornale The Boston Globe lanciò un’inchiesta sui preti pedofili ruppe un muro del silenzio. Ma questo muro non era stato alzato solo dalle alte gerarchie cattoliche, era mantenuto e rafforzato dalle stesse famiglie, non diversamente da quel che accadeva nella Napoli degli anni ’50 e ’60. D’un tratto, qualcosa che tutti sapevano ma di cui non si poteva parlare in pubblico, e che andava accettato come fosse un dato di natura, come i freddi invernali e la canicola estiva, veniva immesso nel discorso pubblico come oggetto di denuncia. Un cambio di discorso. O, come si dice in filosofia della scienza, un cambio di paradigma.

 

Sin dalla seconda metà degli anni ‘80 il mondo anglo-americano, pur dominato dall'apologia reaganiano-thatcheriana dei valori familiari, fu scosso dalla campagna contro il child abuse. D'un tratto un'intera società alzò un velo sulla privacy propria e altrui, e si convinse che una quota ingente di famiglie – anche insospettabili – praticava correntemente l'incesto e la violenza sui figli piccoli. Questo ciclone ha fatto breccia nella pedagogia, nella critica letteraria, nella psichiatria, nel cinema, ecc. Vi ricordate che per molti anni in tanti film americani i protagonisti prima o poi evocavano violenze o molestie subìte nell'infanzia, a opera di parenti o vicini? Se qualche personaggio rivelava turbe psichiche, potevate essere certi che prima o poi spuntava qualche abuso sessuale patito nell’infanzia. La psichiatria si convinse del valore patogeno del trauma, e il trauma per lo più erano abusi sessuali. Non si contavano i biografi di scrittori, artisti, politici, musicisti, ecc., che ricostruivano qualche violenza, o gioco erotico, di cui le suddette celebrità sarebbero state oggetto da bambini, come esperienze cruciali della loro vita. In Italia si dice "i panni sporchi si lavano in famiglia", invece nel mondo anglo-americano si andavano e si vanno a cercare prima di tutto i panni sporchi delle famiglie per esibirli in pubblico. La denuncia della pedofilia fu all’inizio una denuncia degli scheletri negli armadi delle rispettabili famiglie middle class. Poi il faro dell’attenzione si è spostato sui preti e sul “potere pedofilo”.

 

Eppure questa ricerca del parente pedofilo aveva orli paranoidi. Ho vissuto spesso negli Stati Uniti negli anni ‘90, e mi resi conto che in tante famiglie dei miei amici erano state sporte denunce per pedofilia da parte di figli o nipoti nei confronti di genitori, zii o nonni. Una febbre querelante, dove era difficile separare il delirio dalla rimemorazione di eventi reali, sconvolse le famiglie statunitensi. Se un americano soffriva di qualche malessere spirituale, si lambiccava il cervello per ritrovare nella propria lontana memoria situazioni e atti incestuosi, e di solito li trovava, perché spesso è difficile stabilire una linea di demarcazione netta tra l’abbraccio affettuoso e quello eroticamente stimolante.

 

Ha colto qualcosa di questo il regista danese Thomas Vinterberg. Nel 1998 Vinterberg diresse un film, Festen, in cui a una festa di famiglia ricca uno dei figli denuncia drammaticamente il padre-padrone per aver abusato sessualmente di lui e della sorella, morta suicida, quando erano piccoli. Era chiaramente una critica in chiave “di sinistra” della pedofilia familista, dove il pedofilo coincideva non solo col padre, ma anche con “il capitalista”.

 

Fotogramma tratto da Festen (1998), T. Vinterberg.

 

Poi nel 2012 Vinterberg produce Jagten, “Caccia”, distribuito in Italia col titolo fuorviante Il sospetto; mentre si tratta propriamente di caccia, di caccia al pedofilo. Un giovane maestro di asilo in un villaggio danese viene accusato (noi spettatori sappiamo ingiustamente) di aver sedotto sessualmente una bambina sua allieva. Il villaggio non è garantista, per cui tutti sono convinti che il maestro sia un pedofilo e perseguitano lui e il figlio adolescente. Poi il maestro viene scagionato dal giudice, ma questo non basta: egli continua a essere oggetto di violenze e ostracismi. Col tempo, tutto sembra calmarsi, il risentimento pare archiviato. Ma un giorno, durante una partita di caccia con amici, qualcuno che non vediamo spara addosso al maestro, mancandolo. Insomma, “il villaggio” continua a vederlo come un pedofilo, anche se è stato prosciolto da ogni accusa. Quel che Vinterberg coglie è insomma un bisogno collettivo di avere un pedofilo da perseguitare. Un paradossale desiderio di pedofili. Siamo nella logica del capro espiatorio, su cui tanto si è scritto. Così, la psicosi della pedofilia si è diffusa anche nel mondo carcerario e tra la criminalità. I condannati per pedofilia non possono essere messi in cella con i detenuti “normali”, altrimenti verrebbero sicuramente uccisi. Mentre un compagno di cella che ha ucciso più persone viene accettato.

 

Nel film di Vinterberg si tratta di fiction, ma storie analoghe sono accadute realmente in molti paesi. In Italia avemmo il caso inquietante di Rignano Flaminio: in questa tranquilla cittadina a nord di Roma, nel 2007, quattro insegnanti, tutte donne, della scuola materna locale e un autore televisivo furono accusati di praticare orge sessuali con alcuni piccoli allievi. Molti media parlarono di loro come di “orchi”, anche se sin dal primo giorno non ho mai creduto in una storia così assurda: possibile che quattro maestre tutte pedofile si ritrovassero guarda caso nella stessa scuola e portassero fuori dell’edificio scolastico dei bambini senza che nessuno se ne accorgesse? Sembrava una storia di caccia alle streghe del Rinascimento (anche allora, contrariamente a quel che si pensa, l’Inquisizione perseguiva donne che venivano denunciate “dal basso”, attraverso la vox populi, come streghe). In seguito tutti gli accusati sono stati assolti e le accuse archiviate, ma non c’era bisogno di aspettare quelle sentenze per rendersi conto che si trattava di un delirio collettivo. Una persecuzione come quella delle streghe di Salem nel Massachusetts, nel 1692, potrebbe ripetersi anche domani, qui in Italia; e le “streghe” sarebbero ovviamente delle pedofile.

 

Come spiegare questo orrore per il pedofilo, ambiguo perché esprime il desiderio di averne uno da perseguitare? Alcuni sostengono che esso è il segno di una nostra maggiore sensibilità al mondo infantile, che insomma oggi i genitori sono molto più attenti nei confronti dei figli. Dovremmo rallegrarci del fatto che finalmente la nostra società si sia accorta di qualcosa che pur esiste da che mondo è mondo, e cioè che i bambini vengono picchiati, i padri vanno a letto con le figlie e i fratelli con le sorelline, e alcuni preti seducono ragazzi e ragazze.

Non a caso, si dice, nelle società industriali avanzate facciamo sempre meno figli: anziché disperdere le cure e l’eventuale patrimonio tra tanti figli, preferiamo concentrare cure ed eredità su uno o due figli. Viviamo in una società dove il bambino è sempre più importante, da qui la tendenza – soprattutto italiana – a permettergli tutto. La psicosi del pedofilo sarebbe solo un corollario della venerazione per quello che Freud chiamava “Sua Maestà il bambino”.

Ma qualcun altro non la pensa così.

 

Mi colpì un episodio, letto sui giornali qualche anno fa. In una cittadina inglese si diffuse l’idea che ci fosse in giro un pedofilo. Una banda di uomini alticci andò in giro per la città, di notte, con una maledetta voglia di picchiarne uno. Videro una porta con su scritto “Paediatrician” e presero la scritta per “Pedophile” – devastarono lo studio della pediatra. Ora, quel che mi colpisce non è solo l’idea assurda che un pedofilo possa mettere una targhetta qualificandosi come tale, ma anche che, in vino veritas, si sia punita una persona che cura i bambini, non che li violenta. È una specie di lapsus freudiano, che andrebbe interpretato.

 

Emerge insomma un’ambivalenza nei confronti del bambino che andrebbe esaminata con attenzione. Come ha mostrato bene lo storico Philippe Ariès nel libro Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza, 1981), l’infanzia non è sempre esistita; la “scoperta” dell’infanzia è un evento relativamente recente, che risale al XVI° secolo; prima i piccoli d’uomo erano visti altrimenti. Insomma, ogni epoca ha un diverso sentimento dell’infanzia, ogni società la tratta, la veste, la educa, la ama, la detesta in modi diversi. Dovremmo chiederci quale sia il nostro modo attuale.

 

 

Mi pare che oggi trattiamo l’infanzia in una maniera che parrebbe del tutto opposta a quella che l’angoscia del pedofilo farebbe supporre. Ovvero, aboliamo sempre più la differenza tra i bambini e noi, soprattutto per quel che riguarda la sessualità. Innanzitutto vestiamo i bambini sempre più come noi adulti. Il successo della Barbie – attraverso i giocattoli gli adulti plasmano la mente dei loro bambini – la dice lunga: si propone alle bambine come ideale non una bambola-bambina, ma una ragazza alta e magra, quasi anoressica, bionda, modello scandinavo, vestita sportivamente… La Barbie ha imposto alle bambine il paradigma della donna moderna. Quanto poi alle altre bambole alternative alla Barbie, come Bratz, mi sembra che esaltino la figura della adolescente sexy e alla moda che va in discoteca. E non dobbiamo più dare scappellotti ai nostri bambini, proprio perché non li diamo agli adulti.

 

Il sesso viene insegnato nelle scuole, ovvero vogliamo che i nostri bambini sappiano sulla sessualità e sulla nascita più o meno le stesse cose che sappiamo noi. Favole come la cicogna o i bambini sotto i cavoli sono derise e vituperate. Inoltre esponiamo sempre più i bambini a immagini sessuali, attraverso la televisione, i rotocalchi, i film; questo spiegherebbe tra l’altro la tendenza delle bambine occidentali ad anticipare sempre più la loro pubertà. L’esposizione a scene erotiche ha l’effetto, pare, di affrettare il primo ciclo estrale. Aggiungiamo che la verginità non è più considerata un valore, così che se una ragazza perde la verginità a tredici anni, i genitori ormai non se ne preoccupano più di tanto. Evidentemente la teoria di Freud – che ha svelato un segreto di Pulcinella, il fatto che i bambini abbiano impulsi sessuali, cosa che ogni madre e padre e baby sitter sa – è stata assorbita dalla nostra cultura, per cui non reprimiamo più atti sessuali tra bambini. Certo non proibiamo più la masturbazione. Insomma, la barriera tra il mondo infantile e quello adulto – che era enorme ancora nella mia infanzia, anni ’50 – è caduta. Assieme al femminismo, che ha realizzato un’ampia omologia tra uomini e donne, un tacito bambinismo ha omologato sempre più bambini e adulti. Come si spiega allora questo accanimento anti-pedofili? Non contraddice la nostra tendenza a secolarizzare l’infanzia, ovvero a de-sacralizzarla?

 

Probabilmente proprio questa caduta della barriera bambini/adulti ha riaperto un vasto campo di tentazioni in molti: siccome i bambini sono “come noi”, perché non avere giochi sessuali con loro? Ci sono impulsi pedofili in moltissime persone, anche se sono repressi dalla nostra etica sessuale. La secolarizzazione dell’infanzia fa affiorare questi impulsi, da qui il terrore di esternarli. L’orrore per i pedofili – per coloro che non resistono a questi impulsi – va allora letto come un orrore per la propria stessa pedofilia. Il pedofilo funziona allora come capro espiatorio su cui delegare il proprio interesse morboso per i bambini. Come nel film di Vinterberg o a Rignano Flaminio, si ha bisogno di un pedofilo, anche se inventato, per incarnare in un altro le proprie tentazioni. È l’eterno ritorno della lettera scarlatta di Hawthorne: il pastore che perseguita la donna peccatrice è proprio colui che l’ha resa peccatrice.

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Dalla "scoperta dell'infanzia" all'infanzia oggi

Manchester. Chi sono gli estremisti?

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Ancor una volta una strage. Manchester, ancora una volta il radicalismo colpisce nel nome di un dio distruttore, il volto coperto, la voce quasi soffocata. Un fatto politico, un fatto storico, un evento clinico: come pensa quel volto nascosto dal velo? Perché la clinica si occupa del radicalismo? Come si permettono gli psicoterapeuti, che dovrebbero stare chiusi nel mondo della patologia del soggetto, di occuparsi del sociale? Con quale diritto? Con quale competenza? Spesso gli stessi clinici, nonostante le riflessioni di Freud a partire dalla Grande Guerra, hanno sottovalutato le patologie individuali che portano ai disastri sociali, come accadde al Processo di Norimberga (1945-1946). 

Gustav Gilbert (1911-1977) e Douglas Kelley (1912-1958) ricevettero l’incarico di valutare le condizioni psicopatologiche di alcuni tra i più importanti gerarchi nazisti, tra costoro Hermann Goering. Usarono alcuni test diagnostici, in particolare il test delle macchie di Rorschach e il Test di Appercezione Tematica (TAT) di Murray. 

 

I risultati di queste somministrazioni negavano la presenza di psicopatologia in termini legali. Tuttavia Gilbert, al contrario di Kelley, concluse che molti dei processati avevano disordini di personalità sociopatica di tipo paranoide e narcisista, ma non si trattava, a quel tempo, di patologie legalmente definite.

Qual è la differenza tra costoro e quel volto coperto dal velo? Oppure si tratta di un fenomeno che, benché non identico, è in grande misura equivalente? A partire da fine secolo, e nei primi vent'anni di questo nuovo millennio, assistiamo a un risorgere massiccio di patologie collettive, che non trovano risposte valide nel campo della psicopatologia classica – tutta presa da categorie diagnostiche standardizzate, neurotrasmettitori e comportamenti individuali – e mostrano forme complesse, che neppure le categorie del politico, troppo riduttive per altre ragioni, sono in grado di gestire e analizzare a fondo. Non che la lettura politologica non serva, ma la politologia si ferma al paradigma dell’attore razionale, non ha strumenti per comprendere l’inconscio, che non si limita ad agire sul piano dell’individuo patologico, ma ha le sue manifestazioni più importanti in campo sociale e relazionale. L’inconscio si osserva solo “a posteriori”, a partire dagli effetti prodotti nel sociale, dai suoi disastri.

 

Per questa ragione si tratta di analizzare sistemi psicotici che emergono da esperienze relazionali che, a loro volta, producono psicopatologie invisibili all’occhio del clinico che dissocia l’individuo dall’ambiente.

Di recente ho partecipato a un seminario internazionale sul radicalismo tenutosi a Milano. I relatori, Micol Ascoli – psicoanalista e psichiatra al Refugee Therapy Centre di Londra – e Felipe Galvez – psicoterapeuta sistemico e docente presso l’Università di Santiago del Cile – hanno presentato casi clinici e interventi di gruppo in relazione a una forma particolare di radicalismo: i terroristi animalisti. 

Nell’era della globalizzazione, il clinico si domanda se, al di là delle differenze specifiche, ci sia un genus che accomuna il “discorso radicale” e le sue pratiche. Hanno qualcosa in comune islamisti, antiabortisti, neo-nazisti, animalisti antagonisti, fondamentalisti d’ogni tipo? Condividono una posizione sul mondo?

La risposta emersa dal seminario è sì; il radicalismo condivide un pattern essenziale di antagonismo che si fonda su principi assoluti e certezze apodittiche (che significa dimostrate senza bisogno di prove empiriche).

 

 

In questo senso – questo il paradosso dei sistemi psicotici – il radicalismo è universalista e globalizzato, non ammette differenze, anche se, in quasi tutti testi antagonisti, una delle finalità coscienti è la lotta dura “contro la globalizzazione”. Anzi, e qui entra in campo il fenomeno dell’inconscio sociale, il radicalismo non vede i particolari, oppure li considera pericolose espressioni del nemico, inclinazioni perverse. 

Al convegno di Milano, abbiamo discusso la valutazione clinica di militanti animalisti radicali, incarcerati per avere compiuto attentati terroristici contro i laboratori di sperimentazione sugli animali. Azioni che accomunano quei gesti a quelli degli antiabortisti nord-americani, che mettono bombe nelle cliniche dove si pratica l’interruzione di gravidanza.

Ciò che rende “speciali” questi soggetti è l’assenza di soggettivazione rilevata dalle interviste cliniche. Sono soggetti “privi di sé”, hanno sacrificato la soggettività alla causa. Nelle parole di Galvez, sono de-soggettivati. 

 

Durante l’intervista clinica, uno può apparire un bonario signore pacato, l’altro un giovane impetuoso, il terzo ostile e mutacico. Ciò che li accomuna è che loro, dentro l’intervista clinica, non ci sono, al più, come nel caso del signore bonario, c’è la rappresentazione di un falso sé nella maschera di un middle class man inglese. 

Ognuno di loro appare, dalle interviste cliniche, come appendice della causa. La causa è la dimora della loro essenza, fortezza inespugnabile, loro sono solo un principio attivo, così come la miccia è ciò che innesca l’esplosivo.

Di questi argomenti si sono occupati recentemente Gérard Haddad, Hamid Salmi e Åsne Seierstad; quest’ultima ha scritto la biografia del neo-nazista, Anders Breivik; i primi due hanno fatto riflessioni sul fondamentalismo islamista. Di loro ho scritto in doppiozero negli ultimi tempi. 

La più recente ricerca in questo campo è contenuta nel libro di Fethi Benslama: Un furioso desiderio di sacrificio, che conia un neologismo per identificare la forma islamista di questo radicalismo: “supermusulmano”. Haddad, Salmi, Benslama sono clinici, Seierstad è una biografa, ma il suo testo è illuminante per la clinica del radicalismo.

 

Benslama dichiara “di proporre una lettura dell'invenzione dell'islamismo” diversa da quella politologica “attualmente in voga”. Secondo Benslama, l'obiettivo fondamentale dell'islamismo “consiste nella creazione di una potenza ultrareligiosa che si riallacci al sacro arcaico e al dispendio sacrificale, pur avvalendosi della tecnologia moderna”; secondo quanto emerso dal seminario di Milano sul radicalismo, potremmo estendere questa considerazione anche alle altre forme. 

 

Il radicale ha la sensazione di vivere la realtà come un mondo falso, privo di verità. Un mondo in cui ogni fonte d’informazione è imbroglio, senza alcuna fessura o porosità, nello stesso tempo crea continuamente fonti d’informazione ideologica al fine di influenzare gli altri alla propria ideologia. 

La società radicale, alla quale si richiama il militante fondamentalista, sembra un insieme di mondi richiusi su se stessi, ontologicamente separati, zone di conforto più o meno tribali, ma dotate di prodotti globalizzati ad alta tecnologia, pronte a combattersi se entrano in collisione. Un noto militante radicale animalista proclama che un mondo sostenibile non dovrebbe avere più di 50 milioni di esseri umani. Che si dovrebbe fare degli altri oltre 6 miliardi? Che tipo di “soluzione finale” prospetta? Oggi, con i mezzi tecnici che conosciamo, costui non dovrebbe avere i problemi che ebbero Heyrdich e Eichmann a Wannsee. 

 

Invece, secondo il neo-nazista Breivik, il programma dovrebbe deportare tutti gli islamici dall’Europa e sterminare tutti gli europei da lui chiamati “marxisti culturali”. Alcuni militanti antagonisti, a loro volta, pensano che le dichiarazioni di Breivik non siano altro che programmi nascosti dei governi europei ai quali dare battaglia, un po’ come Don Chisciotte dava battaglia ai mulini a vento. Il supermusulmano è prima di tutto contro i suoi fratelli islamici che non praticano la religione in maniera rigorosa. Spesso i fondamentalisti religiosi sono convertiti di recente, ma non credono che il testo sacro possa essere letto in un contesto storico diverso da quello dell’epoca in cui fu scritto, come se il tempo fosse fermo.

Si tratta di modelli deliranti, che derivano dall’esigenza di una coerenza apodittica. La realtà là fuori non esiste, il mondo, per migliorare, deve andare sempre peggio, regredire. Dopo un lungo processo di civilizzazione, di intenerimento dell'animo umano, assistiamo a una regressione e a una fissazione sulla crudeltà, che diventa crudeltà mediatica, senza più traccia di tenerezza, né di rimorso. L'esempio della strage dei bambini ebrei presso la scuola Ozar-Hatorah, perpetrata da Mohammed Merah e da lui filmata con una telecamera fissata alla testa è paradigmatico del connubio tra nuove tecnologie e regressione psicotica. Tuttavia nel pronunciare il suo nome nuovamente, Mohammed Merah, noi lo identifichiamo, lo riconosciamo come soggetto responsabile, produciamo un rimorso, ricordiamo.

 

Il termine “dispendio sacrificale” usato da Benslama fa venire in mente Georges Bataille. Secondo Bataille, il sacrificio umano, presso alcuni mondi, è onore riservato alle dinastie reali, che sono anche divine. Bataille parla dei sacrifici aztechi. La società azteca è il paradossale opposto del moderno soggetto occidentale. 

Difficile da comprendere per noi, perché si tratta di qualcosa di “sovrumano”: nel sacrificio non c'è invidia, né vergogna, il suicidio è potenzialmente inesistente, non c'è neppure quel risentimento che conduce l'uomo all'assassinio, la coscienza è ordine collettivo e la morte rituale pubblico: il sacrificio del re, che è entità divina, è onore

 

Il capro, che viene sacrificato al posto dell’uomo, per salvare l’uomo dalla potenza distruttiva degli dei è astuzia (metis) che salva l’uomo e sacrifica l’animale. Questo scambio dell’uomo con l’animale, per il radicale, è la menzogna contro cui si batte. Come scrissero Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969) nella Dialettica dell’illuminismo, Ulisse, che si sottrae alla potenza degli dei, salva il “sé”, sottraendolo alla distruzione. In quel momento nasce il soggetto: per sottrazione.

 

I nuovi radicali denunciano questa astuzia, questa sottrazione del sé, intendono entrare nel tutto indistinto. Non c'è più la “mia” coscienza, non c'è più un “io” responsabile davanti alla comunità, a dio, alla società. C'è solo l'ordine collettivo al quale l'individuo è agglutinato, l'individuo, sulla Terra, è mero esemplare del collettivo, il sacrificio è l'unico tratto di distinzione, l'io diventa tale solo nell'altro mondo.

Se così fosse, saremmo di fronte a una “regressione” essenziale: il post-umano come equivalente tecnologico del pre-umano, la fine di quell'era, la più rapida di tutte, l'ultima, definita antropocene, l’era dell’ultimo uomo, che mai verrà sostituito con il superuomo, perché questo pagliaccio umano, saltando sul cavo, produrrà la sua caduta. Forse la poesia di Charlie Chaplin alla fine del Grande dittatore ci salverà.

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Perché la clinica si occupa di radicalismo

Il discorso interiore oggi

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Dell’ultimo libro di Nicole Janigro, Psicoanalisi. Un’eredità al futuro (Mimesis 2017), colpisce innanzi tutto il titolo, che colloca la psicoanalisi tra due poli temporali: il passato, ciò che è arrivato a noi del pensiero e della pratica analitica, e il futuro, ciò che potrà rappresentare per una civiltà che dà segni allarmanti di crisi, sfiducia, insicurezza e disumanizzazione. In effetti, basta leggere le prime pagine per capire che il ponte mancante è un presente dominato da un “traumatismo diffuso” – la “società psicotica” –, da un “terrore senza nome”, da un “dolore estremo” che non sembra trovare altro significato che provocando la sofferenza estrema all’altro.

Viene da pensare che sia per questa resa a una condizione di impotenza che l’importanza della dimensione psichica è “confutata” e l’ indagine del profondo ritenuta una “materia strana, che suscita perplessità e sospetto”.

 

La patologia, scrive Nicole Janigro, si annida oggi nel corpo: un discorso pubblico che volendo essere solo razionale finisce per farsi sopraffare dalle emozioni, pericolose per le nazioni e le famiglie; manifestazioni somatiche che riconoscono i limiti di ogni vita, la fragilità, l’esposizione alla malattia, al lutto, così come alla perdita di uno status lavorativo, in particolare per le donne che scelgono di avere figli. L’analisi, che potrebbe essere di aiuto per capire una realtà complessa, più di quanto siano riuscite a fare le tradizionali categorie interpretative storico-economico-sociologiche, diventa un lusso, mentre si diffondono terapie brevi e ricorso ai farmaci. Pur avendo sempre fatto fatica a passare dall’io al noi, a riconoscere nel disagio psichico del singolo i segni della storia collettiva, la psicoanalisi non può esimersi dalla responsabilità di adattare i suoi cardini di tempo e di denaro per rispondere alla domanda che viene dai nuovi paesaggi – campi profughi, favelas, ecc. – esterni alla stanza dove si incontrano paziente e analista.

 

La necessità di andare oltre la “segregazione di un rapporto duale” si era già posta nella breve intensa stagione dei movimenti antiautoritari e del femminismo degli anni Settanta. Pur senza abbandonare la pratica clinica, Elvio Fachinelli si impegnò allora per una psicoanalisi “senza fissa dimora”, capace di interrogare la politica e di spingerla “alle radici dell’umano”. Per incontrare Edipo – scriveva – bisogna trovarsi sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica: cioè il problema di “che cosa è l’uomo”. Il riferimento era in particolare a quei luoghi della socializzazione dove avviene un apprendimento precoce delle regole vigenti in una società – gli asili, i nidi di infanzia, la scuola primaria –, ma anche a “quell’asilo collettivo e sterminato costituito dai cortili, dalle strade, dalle periferie. Allora, come oggi, alla psicoanalisi si chiedeva di dare risposte, tamponare conflitti, chiudere vuoti e fratture della società industriale avanzata, anziché fare chiarezza sulle resistenze e le difficoltà che l’introduzione di qualunque tentativo liberatorio riguardante la formazione degli individui suscitava negli educatori e nei genitori.

Oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, tutto ciò che è stato considerato “non politico” si prende la sua rivincita– dal populismo, all’esplosione manifesta della violenza sessista, razzista, al “terrorismo senza nome” dei fondamentalismi religiosi.

 

Ma, a differenza degli anni Settanta, è venuta meno la speranza di una “rivoluzione” possibile. Se in quel passato il noi, la dimensione sociale e collettiva, era ancora preponderante rispetto all’io, tanto da poter pensare all’analisi come la continuazione della politica con altri mezzi, oggi è nella formazione dell’individuo e nella stanza dell’analisi che si può “captare la simultaneità del discorso interiore, il pensiero ficcato dentro, con il fuori”.

 

 

 

“In un’epoca che ansima perché non trova il tempo per la vita, che campa nell’orrore di ogni dipendenza (…) investire nella inafferrabilità di conversazioni speciali, così le chiamava Freud, assume di nuovo un significato controcorrente (…) Un setting che si affettivizza, mentre il mondo si disumanizza”.

 

Alla stanza dell’analisi, sospesa tra cielo e terra, dove Nicole Janigro dice di essere diventata grande, sono dedicate le pagine più appassionate e poetiche del libro: un luogo dove è possibile ritrovare un rapporto intimo, ininterrotto, con le parole, riportate a quel radicamento nel corpo e nell’azione che hanno nell’infanzia. Ma è anche il luogo dove la relazione tra analista e paziente, per quanto asimmetrica, o proprio perché tale, può tornare a essere, come lo è stato il legame originario di parziale co-identità con la madre, il dispositivo che “la natura ha trovato per la gestione del dolore”. Il riferimento è in questo caso a Elvio Fachinelli, all’analisi che troviamo nel libro Claustrofilia e poi nella Mente estatica, di quel rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna, desiderato e temuto come “gioia massima” dallo stesso Freud, che se ne sottrae cercando come segno di compromesso la figura del doppio: l’alter, il gemello.


Per una “conversazione” portata alle estreme regioni della vita psichica, ai confini col sogno, non è previsto che il terapeuta resti “impersonale”. L’empatia, il voler bene ai propri pazienti è “la condizione perché in loro torni il gusto di vivere e le cose trovino il loro sapore”. A farsi portatrici di affetti, emozioni, fantasie, aspetti indicibili della vita, più ancora che le parole sono le immagini, o meglio ancora il “pensare per immagini”. È il metodo che Jung, nel Libro rosso, ha sperimentato prima di tutto su se stesso, curandosi durante la fase della sua “malattia creativa”: “reminiscenza del passato e prefigurazione del futuro, che non possono essere dette, riescono tuttavia a essere conosciute e pensate in una rappresentazione di senso non verbale”.

 

Particolarmente intensa è la descrizione che Nicole Janigro fa del potere trasformativo dell’immagine e di quel “sognare con le mani” che è il “gioco della sabbia” nelle pratiche di alcuni terapeuti junghiani:

“L’immagine ci chiede ascolto, ci permette di passare dall’emozione alla narrazione, di diventare noi raccoglitori di immagini che nutrono, trasformano, trascendono. Ci rapisce, ci può offrire un rifugio in una fase di difficoltà, le possiamo chiedere sostegno quando prevale un senso di frantumazione, può costituire una base sulla quale poterci appoggiare.”

 

Nel momento in cui l’analisi –nel caso di Nicole Janigro, di Romano Madera e dell’associazione a cui hanno dato vita, Philo – diventa “pratica di esistenza” e di umanizzazione, attenta a restituire all’individuo la sua interezza – corpo e pensiero, coscienza e inconscio, ragione e sentimenti, ecc. – è chiaro che i confini del setting analitico tradizionale si allargano fino a toccare linguaggi, saperi che non sono mai stati estranei. “La storia della psicanalisi è anche storia della scrittura dei suoi casi”, a cominciare da Freud, per il quale vocazione letteraria e vocazione medica hanno continuato a darsi battaglia.

 

“Leggere romanzi per trovare risposte, per seguire i destini, per sapere come va a finire, per inseguire gli andirivieni temporali di un’esistenza (…) Ancora oggi la scrittura psicoanalitica si nutre dell’incontro con la letteratura.”

 

Sul rapporto tra psicoanalisi, arte, letteratura, è la riflessione di Elvio Fachinelli, citata da Nicole Janigro, che torna a sottolineare i limiti di un allargamento che rischia di sottrarre incisività al rapporto analitico: “Non più (o non soltanto…) disseminazione dell’analisi negli sconfinati territori della letteratura, dell’arte, della varia ‘umanità’; ma piuttosto curiosità, scrutinio retorico, interesse scientifico verso un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la ‘nobile sofistica’ di Protagora e Socrate.”

 

Pur guardando all’eredità del passato e al ruolo che la psicoanalisi potrebbe avere nel futuro, è tuttavia ancora al presente che si rivolge il libro, alla “vulnerabilità dell’uomo contemporaneo”, esposto più che in passato alla relazione, incalzato dalla fatica di vivere, dalla “dannazione” di un corpo sempre più sezionato in parti, inadeguato alla produttività richiesta. All’analisi, sembra di poter concludere, spetta il compito di una umanizzazione che è “accoglimento” capacità di “immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madri di creature ferite” (Fachinelli).

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La stanza dell'analisi e la società psicotica

Fanatismi al femminile

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In un’epoca fanatica di guerre e odi sembriamo non tollerare più neppure l’ambivalenza dei legami intimi e privati. “Non si fanno mai cattiverie che per il bene di qualcuno”, sostiene Lacan e poi aggiunge: “Salvo che si fallisce.” Dal punto di vista psicoanalitico la cattiveria è, dunque, un atto mancato. La versione femminile della cattiveria non fa eccezione: quando si è assolutamente certe di fare il bene dell’altro facilmente lo si danneggia. Il movente di Medea, come quello delle madri infanticide è precisamente salvare il figlio da un male, dalla follia – la stessa che le possiede – o da un pericolo, ad esempio un marito che avendo fatto del male a lei “non potrà che farne ai suoi figli”. L’assoluta e fanatica proprietà dei figli impedisce di pensare che essi hanno una storia diversa, separata, e quindi un altro destino.

La cattiveria è legata al fanatismo: si pensa di conoscere meglio dell’altro qual è il suo bene. Scrive Amos Oz: “Il fanatico si preoccupa assai di te. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso”.

 

La relazione tra fanatismo e femminilità è poco frequentata; più spesso quel tratto è declinato al maschile sotto la forma di terrorismo politico o di intransigenza religiosa. Credere di essere la sola a sapere infallibilmente qual è il bene del bambino è la forma del fanatismo materno.

Il fanatismo femminile è temibile e particolarmente occulto, strisciante, ammantato com’è di bontà e virtù: esso rovescia l’estrema cura in omicidio, la dedizione in distruzione, la troppa seduzione in assoggettamento. Joyce Carol Oates ha scritto una mirabile raccolta di racconti, La femmina della specie, in cui l’eccesso di virtù femminili porta a esiti nefasti: la sollecita cura dell'infermiera che diventa assassina per compiere un “atto di misericordia” verso i malati; o la donna che seduce un uomo – reso muto da una coltellata materna quindi impossibilitato a denunciarla – per fargli uccidere il padre di suo figlio che non la vuole più; o come la perversa "fedeltà" al padre nella figlia che, per troppo amore, diventa prostituta e tagliagole, all’insaputa del genitore. La Oates è una scrittrice ruvida, non cattura su corde consuete, conosce la sofferenza e la crudeltà della virtù femminile e non fa sconti. Racconta dell’attrazione femminile per l’arcaico e dell’inferno che possono essere i mondi popolati unicamente da donne.

 

 

Il corpo della bambina è uno dei luoghi privilegiati in cui, ad esempio, una madre può condurre la sua battaglia contro la matrigna: se il corpo della figlia è vissuto come una sua proprietà, la scelta di uno stile di abbigliamento o di un nuovo taglio di capelli della figlia può essere sentito dalla madre come un tradimento, soprattutto se il cambiamento della ragazza ricorda un tratto “ereditato” dalla matrigna. Camilla, una matrigna che ingenuamente ha osato tagliare di mezzo centimetro la frangia della figliastrina perché la bimba si lamentava che le dava fastidio agli occhi, è venuta a sapere che la madre ha portato l’episodio in tribunale. “Mamma se tu vuoi che io la odio, la odio”, dice il bambino alla madre parlando della matrigna, nel film Stepmother che, pur edulcorato e buonista, mostra, con questa battuta, quanto i bambini si possono rendere complici del fanatismo di una madre gelosa.

Il fanatismo femminile si annida nell’idea di perfezione, ed è un altro modo di declinare il godimento dell’Uno, dell’indifferenziato che presenta anche un lato totalitario: “un solo popolo, un solo leader, un solo pensiero; movimento verso l’Uno di cui la storia ha, in ogni occasione, confermato la forza di distruzione.”

 

Coraline è una bambina, protagonista di una favola cinematografica piuttosto apprezzata anche dagli adulti. Le bambine soprattutto sono attratte e spaventate da questa storia e domandano di rivederla spesso. Coraline ha undici anni e vive con i suoi indaffarati genitori in una casa sinistra, grande e sporca, dal frigo vuoto, con una madre sempre al computer, che non dà troppo retta alla figlia, che non cucina e un padre che cucina solo cose troppo sane e insipide. Il giardino che circonda la casa è desolato e piove sempre. Una notte, esplorando la casa, Coraline trova una porticina e un tunnel che la conduce in una casa identica ma impeccabilmente pulita e dal giardino ordinato, pieno di fiori colorati. Anche i genitori sono identici solo che la madre si interessa moltissimo alla bambina, cucina cose buonissime per la figlia e il padre compone canzoni per lei. Le due madri, uguali d’aspetto, si distinguono in una madre distratta dal lavoro e una madre perfetta, che si occupa solo di Coraline e della casa e che, come dichiara, vuole solo amarla ed esserne amata. La madre perfetta ha un unico inquietante dettaglio: degli strani bottoni al posto degli occhi che ne rivelano la disumanità. La manipolazione non tarda, infatti, a manifestarsi: non appena vede la bimba soddisfatta dall’essere rimpinzata di cibo e attenzioni, vuole cucirle dei bottoni al posto degli occhi, esattamente come i suoi, perché veda il mondo come lo vede lei. La resistenza ostinata di Coraline a non farsi cucire i bottoni fa sì che, nell’avanzare della storia, la coppia di genitori perfetti mostra pian piano la sua vera natura: crudele e persecutrice la madre, succube di lei il padre.

 

Fotogramma tratto da Coraline e la porta magica (2009). 

 

Come spiegare meglio ai bambini che la madre perfetta è pericolosissima? Il padre succube dice a Coraline “non voglio farti del male è la Madre che lo vuole”: anche lui è ostaggio della Madre impeccabile. Coraline è una favola che sostiene la madre imperfetta, impegnata in un lavoro e che non sta addosso alla figlia. Nel contempo, rivela il mostro invadente dietro la madre perfetta che si trasforma, alla fine del film, in una mano scheletrica, mortifera, che afferra la bambina la quale, dapprima ipnotizzata e soggiogata, non ne vuole più sapere della madre troppo devota. La mano della madre perfetta, con cui la figlia lotta alla fine del film, rappresenta la presa di quelle madri che non mollano le figlie, le controllano instancabilmente e non sanno separarsi da loro. Con uno stratagemma Coraline farà cadere la mano nel pozzo: le farà afferrare il vuoto in una sorta di una messa in scena, qui salvifica, del fantasma anoressico, in cui la ragazza si fa essa stessa vuoto, assenza del corpo, per non essere afferrata da una madre fanatica e divorante.

 

A volte la letteratura ha il dono di isolare i temi come in un laboratorio e di creare una finzione che non raramente è un distillato della loro verità. Il romanzo La pianista di Elfriede Jelinek racconta di una donna che la madre aveva fanaticamente e meticolosamente forgiato, fin da piccola, per farla divenire una pianista, sorvegliandola di continuo e smorzando ogni suo entusiasmo per ciò che era la vita all’infuori dello studio della musica, rendendola una donna fredda e dura. A quarant’anni vive ancora con la madre – il suo Uno –, è insegnante al Conservatorio di Vienna ed è corteggiata da un suo giovane allievo. Una magica sera i due musicisti si esibiscono insieme in una sintonia di mani e corpi. Qualcosa è accaduto tra loro con il medium della musica; al termine del concerto, lui accompagna per un tratto le due donne sperando di poter restare solo con la sua insegnante, ma la madre, come un amante geloso, li sorveglia da vicino e resta attaccata alla figlia. La pianista è attratta dal giovane e talentuoso studente, tuttavia al tempo stesso non vede l’ora che il ragazzo si dilegui per tornare a casa, rannicchiarsi nella sua poltrona preferita insieme alla madre nel loro salotto-utero, immutabile negli anni, e commentare insieme, solo loro due, il concerto appena terminato.

 

Questa brava figlia nel frattempo ha però sviluppato una perversione voyeuristica: segue nei boschi le coppiette e ne spia l’amore che non le è concesso provare. Una sera, essendo tornata un po’ troppo tardi da una di queste uscite, prevede che la madre “urlerà, farà una tremenda scenata di gelosia. Ci vorrà del tempo prima che si riconcili con lei. La figlia, dal canto suo, dovrà renderle una dozzina di servigi d’amore altamente specializzati [...]. Come potrebbe mai riuscire ad addormentarsi temendo di venir risvegliata subito dopo dalla figlia, che si issa sul letto matrimoniale per occupare la propria metà?”. Madre e figlia condividono oscenamente lo stesso letto. Quando, infine, la pianista si concederà allo studente innamorato, stilerà per lui delle regole di rapporto ispirate alla perversione sado-masochista che si è instaurata, a livello psichico, tra lei e la madre. Il ragazzo è l’occasione che il mondo le offre e che viene persa perché il giovane non è vissuto come incontro con l’alterità, ma portato dentro la perversione che le è familiare, assimilato a quella. Da parte sua, lui, che dapprima ha cercato nella donna un amore ideale, finisce per prestarsi al gioco, umiliandola in un’apoteosi di perversioni richieste dalla stessa insegnante, in una strabiliante performance da studente modello al termine della quale, però, abbandonerà la donna. A seguito di questa delusione, lei si ferirà con un coltello, vagando sanguinante e delirante per le strade di Vienna. 

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“Mamma se tu vuoi che io la odio, la odio”

Le parole terribili che si dicono ai bambini

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Giorni fa ero con mia figlia al supermercato e tra le file di scaffali abbiamo incontrato dei conoscenti. Marito e moglie sui sessantacinque anni. La signora si è chinata sorridente verso la bambina e le ha domandato: “Ti vende il babbo? Ti vuole vendere? Ti lascia qui?”. Senza ottenere risposta ha continuato a sorriderle, fissandola, per alcuni secondi. Poi si è tirata su, ha guardato me e ha detto “bellina che è”. Un attimo dopo non c'erano già più.

A quel punto ho guardato la piccola e l'ho vista immobile, gli occhi spalancati sulla schiena di quei due e muta. Ha aperto bocca solo per infilarci il dito. Ha ricambiato il mio sguardo per capire se fosse tutto a posto. Le ho detto qualcosa per tranquillizzarla, poi abbiamo ripreso velocemente il giro.

 

Ancora prima di arrivare alla cassa mi sono messo a pensare a tutte le cose orribili che si dicono ai bambini senza avere alcuna intenzione di farli soffrire, solo “per gioco”.

Come sempre, tutto si riduce alla scelte delle parole.

Credere che i bambini non ascoltino è stupido, e credere che non capiscano lo è ancora di più.

Lo scoprii per la prima volta qualche anno fa, quando non ero padre ed ero a fine turno, in libreria. Avevo un foglio arricciato sotto la mano sinistra, la destra sulla tastiera del computer e gli occhi sul monitor. Mi si avvicinò un bambino chiedendomi: “Cosa fai?”

Risposi stancamente “Carico le bolle”.
“Bello, allora sei un caricatore”.

Sorrisi. Fu molto istruttivo.

 

Ma, almeno in quello che vedo, le parole, e molte volte anche i gesti, nel pensare comune valgono zero quando si ha a che fare con loro. Perché, credo sia questo il ragionamento che ci nascondiamo, i bambini, appunto, sono bambini: non capiscono. E poi, che male possono fare le parole a un bambino? Stavamo solo scherzando. Più o meno ci si giustifica come fanno loro con noi quando sanno di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il bambino lo si percepisce come un essere imperfetto, come qualcosa di incompiuto e col quale crediamo di poterci permettere tutto.

 

Mr. Brainwash. 

 

Non che ci si debba mettere a fare l'analisi di ogni frase con cui gli si rivolgono gli adulti, ma ad ascoltarle per quel che sono, cioè parole con un significato preciso, alcune fanno proprio paura.

Limitandomi a parlare dell'esperienza diretta ho cercato di ricordare cose che erano state dette da conoscenti o estranei a mia figlia negli ultimi tempi.

Lei ha 3 anni, quindi è ancora piccola per riconoscere lo “scherzo” degli adulti.

E soprattutto per dubitare della loro parola.

 

Mi è tornata in mente così quella volte che l'hanno presa in braccio senza il suo volere. Si tratta di un'operazione accessibile agli anziani, come in quel caso, e se il bambino non supera i 15-20 chilogrammi l'anziano può permettersi di imbrigliarlo a sé senza particolare sforzo, per poi cullarlo e oscillarne il corpo mentre gli sussurra: “Ti butto di sotto, ora ti butto di sotto. Vuoi che ti lasci cadere? Ti lascio cadere? No, non ti lascio cadere.

Se fai la brava”.

 

Ho scoperto in seguito che certe frasi le utilizzano tutti, non soltanto gli anziani, come pensavo all'inizio. Dimestichezza con i bambini la si acquisisce soltanto frequentandoli. Il fatto che non sia obbligatorio farlo non implica però che qualsiasi metodo scelto vada bene. Vale così anche per i cani, se può essere d'aiuto.

Però, sembra strano, sono tutte parole volte a “proteggere” la creatura, a tenerla a sé. Con la conseguenza di farle conoscere la paura e il pericolo nel modo più traumatico possibile.

O così, o morte.

Spesso sono parole che si usano anche per accontentare le comodità dell'adulto che deve badare al bambino. Quindi è frequente sentir dire: “Lo vedi quello?” (solitamente l'identikit è di un adulto, sesso maschile, dall'aspetto poco rassicurante, agli occhi di chi parla). “Quello lì, se ti alzi dalla sedia, ti porta via. Quindi non ti muovere, hai capito?”

E l'estraneo indicato che vede gli occhi del bambino incrociare i suoi, ma senza aver colto l'ammonimento dell'adulto, non fa altro che scoprire i denti verso la creatura.

Per sorridere.

“Eccolo eh, ti ha vista. Fai la brava.”

 

Ci rivolgiamo ai bambini pensandoli come esseri “anormali”. Però siamo noi ad avere il controllo, finché restano bambini non ci sembrano pericolosi e quando non sono più innocui si possono regolare con maniere più decise. Specie quando non riescono in qualcosa per noi semplice. Mai capitato di sentirli apostrofati con un “vedi che non capisci?”.

Forse, mi sono detto, dipende dalla nostra percezione da adulti. E la percezione che possiamo avere di un estraneo che vediamo la prima volta è legata all'aspetto fisico. Sono trattamenti che democraticamente si riservano a tutti, figurarsi ai bambini di cui siamo certi di essere superiori in ogni aspetto. Non arrivano al metro, sono più bassi. Si rovesciano l'aranciata addosso, piangono in pubblico. Impossibile prenderli sul serio.

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Vedi che non capisci?

Simbolico

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Tutte le culture sociali, com’è noto, fanno uso di simboli e sviluppano dei più o meno articolati linguaggi simbolici. Ma per gli antropologi il simbolico è qualcosa di notevolmente differente. Si tratta infatti di una dimensione particolare della realtà sociale. La dimensione propria del mito, della magia e dell’irrazionale, la quale sembra possedere al suo interno una specie di forza primordiale che è difficile da comprendere e controllare per gli occidentali contemporanei.

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Recalcati, Renzi e PPP

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Nel mondo intellettuale italiano da tempo covava un risentimento diffuso nei confronti di Massimo Recalcati. “Troppo” successo non può essere perdonato. Almeno in Italia. Niente di nuovo, dunque, nell'attacco concertato di cui è stato vittima e che ha visto come protagonisti colleghi, i quali, per alimentare la loro scarsa potenza di fuoco, hanno chiesto il soccorso  dell'antico maestro di Recalcati, Jacques-Alain Miller, indiscusso punto di riferimento del lacanismo nel mondo. Perché il colpo inferto fosse durissimo sono stati utilizzati strumenti eticamente discutibili. Ad esempio, sono stati resi di dominio pubblico frammenti dell'analisi di Recalcati. Chi scrive non può che rinnovare la sua solidarietà all'amico.


Ma la questione che mi interessa sollevare è un'altra. Riguarda i “significanti” che in questa polemica sono stati utilizzati per far coagulare un rancore finora taciuto o comunicato solo indirettamente. Per un lacaniano, ricordiamolo, un significante non è un segno convenzionale apposto su di una cosa. Un significante è una potenza performativa, vale a dire un segno che produce degli effetti sensibili sui corpi, che li costituisce, li trasforma e può anche ditruggerli. Un soggetto, ha scritto Lacan, è un significante per un altro significante. Un “significante”, infatti, non è mai da solo. Esso si concatena sempre ad altri significanti, producendo una sorta di “ritornello” che s'installa nella nostra testa e che scambiamo per il nostro “io” che pensa. Siamo fatti di parole, dice il poeta, e ha ragione: non cessiamo mai di rispondere all'appello dell'Altro e anche quando restiamo in silenzio siamo parlati da una parola che ci appartiene solo a metà.

 

Massimo Recalcati


Ebbene, da una polemica nata nel seno delle scuole lacaniane ci si aspetterebbe che il “significante” decisivo sia il Nome del Padre, “Lacan”. Non si discute forse di un'eredità? Non si sollevano obiezioni nei confronti di chi millanterebbe quel nome? Eppure non è “Lacan” il significante che catalizza il risentimento contro Recalcati. “Lacan” è solo occasione, funge da detonatore. I significanti dell'odio sono altri due nomi propri, tutti interni alla storia politica e culturale italiana. Sono “Renzi” e “Pasolini” (li scrivo tra virgolette perché di quei nomi mi interessa non la verità ma solo l'effetto di senso che producono nel discorso).
Nella esilarante (involontariamente) intervista concessa al Fatto quotidiano, Miller dice che Recalcati avrebbe venduto la psicanalisi al potere, cioè al fantomatico “Renzi” paragonato “ad Alessandra, la zarina di Russia, sposa di Nicola II che per far guarire suo figlio malato di emofilia si affidò a Rasputin”. Si noti il fantastico delirio cosmico-storico di Miller, degno del Presidente Schreber: Recalcati come Rasputin, Renzi come la zarina Alessandra... Inoltre Recalcati avrebbe stuprato per l'ennesima volta il martoriato corpo del santo intellettuale del nostro secolo, “Pasolini”, intitolandogli una scuola di partito (democratico). Il reato commesso sarebbe in questo caso quello di aver reso gramscianamente “organico” l'eretico per definizione. Per difendere l'onorabilità del santo e per vomitare fiele sulla zarina e sulla canaglia al suo servizio, si sono cominciate a raccogliere firme dalla Francia. L'usanza è consolidata.

 

Rassicurati dalla presenza al loro fianco del potente re straniero, molti si sono fatti coraggio e hanno apposto  il loro nome nella lista dei buoni e sinceri democratici (pasoliniani e anti-renziani ut decet)
Se non ci andasse di mezzo la vita di un uomo, i suoi affetti e la sua onestà intellettuale, ci sarebbe solo da ridere a crepapelle. In realtà la cosa è seria ed  è rivelativa di un clima politico inquinato nel quale il significante “Renzi” è diventato il significante divisivo per eccellenza, il vero e proprio catalizzatore di ogni risentimento. C'è da chiedersi perché già il solo essere accostato a quel nome susciti nella parte maggioritaria dell'intellettualità italiana un senso di ribrezzo più forte di quello provocato da fascisti, razzisti o populisti con i quali infatti ci si allea tranquillamente, turandosi un pochino il naso, se la posta in gioco è la disfatta del renzismo. Mi si perdoni il gioco di parole ma è sintomatico che questo sintomo nevrotico della politica italiana si sia  manifestato come tale proprio nell'ambito di una querelle che investe la psicanalisi.

 

Matteo Renzi


Qualche tempo fa, un amico che si era schierato per il Si al referendum e che dopo la sconfitta si era iscritto al PD  mi diceva di aver vissuto quella scelta come un vero e proprio outing. Con quella affermazione, fatta distrattamente bevendo un caffé, l'amico era andato subito al nocciolo della questione: mi aveva squadernato gli effetti sensibili del significante “Renzi”. In un  paese il cui DNA è la controriforma cattolica e nel quale il desiderio di mantenere tutto immobile si coniuga splendidamente con la retorica massimalista delle anime belle (la “sinistra”), l'opzione riformista, pragmatica e liberale (il significante “Renzi”) ha infatti quasi il senso di una confessione pubblica della diversità del proprio orientamento sessuale. In questa luce, l'adesione di Recalcati al significante “Renzi” mi è parso un atto di vero anticonformismo. Lo ha fatto alla vigilia del referendum quando il vento dell'opinione pubblica andava decisamente contro “Renzi” e lo ha ribadito quando il portatore di quel nome era nella polvere. Nessuno può in buona fede sostenere che tale scelta abbia comportato per lui un qualche vantaggio, soprattutto nel mondo intellettuale: i fatti che stiamo discutendo lo attestano ampiamente


Ed è sempre per anticonformismo che Recalcati ha licenziato l'altro significante intorno al quale ruota la polemica. “Pasolini” funziona infatti come significante dell'eresia e della differenza. Così vuole il luogo comune. A questo proposito, credo però che Recalcati sia stato vittima di un equivoco. Il fraintendimento discende direttamente dal modo in cui Recalcati legge Lacan. A differenza di Miller, che di Lacan è l'ermeneuta per così dire “ufficiale”, l'interpretazione recalcatiana è infatti orientata in un senso “esistenziale” e “cristiano”, sebbene si tratti di un esistenzialismo e di un cristianesimo particolari, un esistenzialismo senza ontologia ed un cristianesimo senza Dio-sostanza. Se ci si incammina su questa via - e se si è italiani - inevitabile è imbattersi nell'ombra del poeta friulano la cui opera è un condensato di  questi temi.


Ma “Pasolini” come significante ha agito nella storia culturale e civile italiana anche ad un altro livello, più sociologico che poetico, ed è in tale forma che vi ha lasciato un segno duraturo. C'è infatti il Pasolini “corsaro”, implacabile critico della modernità, nostalgico cantore di una innocenza perduta e/o tradita, populista estetizzante e etologo delle periferie urbane. Questo “Pasolini” è ben presto diventato il ritornello preferito degli intellettuali italiani che ne hanno scimmiottato in vario modo la postura moraleggiante vestendo i  nobili panni dei censori della decadenza e dei profeti dell'“autentico” (curiosamente anche il successo del Recalcati-pensiero si deve, in parte, al fatto che nell'immaginario dei suoi lettori egli, meglio di tanti altri, avesse occupato il posto lasciato libero da quel “Pasolini”). Ebbene, il significante “Pasolini”  non si coniuga affatto con l'altro significante “Renzi”. Sono, se si vuole, due ritornelli inconciliabili: il primo rimanda all'arcaico, all'immobilità semi-sacrale della tradizione, all'orrore per il cambiamento, il secondo ad una modernità più immaginata che reale, ad una curisosità compulsiva e quasi infantile per il “nuovo” (il boy scout Renzi, Renzi su twitter...). In ogni caso non stanno insieme e se l'opzione per il significante “Renzi” (un'opzione, temo, perdente) ha il senso della rottura con il conservatorismo italico, l'opzione “Pasolini” ribadisce invece tutte le ragioni dell'italico spirito controriformistico duro a morire.


Hanno dunque in un certo senso ragione i nemici di Recalcati a protestare per l'abuso che egli farebbe del nome del santo martire intitolandogli una scuola di partito, ma non hanno la ragione che credono di avere. Recalcati-Rasputin, argomentano, avrebbe trasformato l'eretico in un intellettuale organico. In realtà le cose sono rovesciate ed è per questo che ho parlato di un abbaglio di Recalcati. Il significante “Pasolini” non funziona infatti per un progetto politico riformista e pragmatico, per un progetto, cioè, in Italia, decisamente “eretico”,  piuttosto lo contraddice. C'è tuttavia qualcosa che accomuna Recalcati a Pasolini, questa volta senza virgolette, al di là di tutti gli equivoci. Ed è la passione per la “risposta”: la responsabilità vissuta come obbligo etico e conseguenza inevitabile della professione intellettuale. Massimo Recalcati non ha mai smesso di intendere la psicanalisi come una presa di posizione sul reale, costi quel che costi, perfino la rottura con il suo amato maestro, l'isolamento e l'ingiuria, ed è per questo che nonostante le nostre tante differenze d'ordine teorico mi onoro di averlo come amico.

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Una polemica e i suoi significanti
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Trump e il narcisismo

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Negli ultimi tempi i commentatori fanno a gara nel cercare di inquadrare Donald Trump in termini psicopatologici. Alcune riviste mi chiedono una sorta di cartella clinica del presidente americano. Ad esempio, mi si chiede se si può parlare di infantilismo di Trump, a 71 anni.

 

Parlerei nel suo caso non di infantilismo quanto piuttosto di inizio di demenza senile. Oggi il termine “malattia senile” tende a essere bandito – come quello di “stagnaro” per dire idraulico – perché suona offensivo per i vecchi. Essendo io quasi settantenne, mi sento in diritto di parlar male degli anziani. Il demente senile si infantilizza, da qui l’impressione che Trump sia infantile. Nel senso che si incrociano deficit cognitivi con deficit morali, in particolare, chi invecchia male non ascolta più chi non la pensa come lui o lei. Mi ha colpito quando Trump denunciò un terribile attentato in Svezia mai avvenuto; semplicemente aveva visto la sera prima alle Fox News un’inchiesta sulla Svezia in cui si diceva che il tasso di criminalità era aumentato in quel paese per colpa dell’afflusso di immigrati. Trasformare un aumento statistico in un attentato terroristico rivela una grave deficienza nel categorizzare concettualmente l’informazione. Pare che Trump segua solo Fox News, perché è il canale conservatore che la pensa come lui, non sembra interessato ad ascoltare altre campane. Sono convinto invece che Obama, per esempio, ascoltasse anche Fox News. In seguito, Trump si è addormentato twittando qualcosa, per cui l’ultima parola era un guazzabuglio di lettere; certi colpi di sonno improvvisi sono tratti senili.

 

L’ultima perla (l’ultima mentre scrivo) è il twitter mandato al sindaco di Londra Sadiq Khan dopo l’ultimo attentato in Inghilterra. Mentre ancora la zona attorno al London Bridge era chiazzata di sangue, Trump ha deriso il sindaco perché aveva detto ai londinesi che non c’era alcuna ragione di essere allarmati… Ma Khan aveva detto solo che i londinesi non devono allarmarsi se vedono aumentare la presenza della polizia armata in città. Si dirà: non è demente l’uomo Trump, è demente la sua ideologia, anche se in milioni la condividono (ad esempio, il 40% degli americani approva la sua uscita dagli accordi di Parigi sul clima). Ma anche chi segue una ideologia demente, se ha posizioni di grande responsabilità si rende conto che non può applicarla as such. Il voler perseguire a ogni costo il proprio progetto può generare disastri. Trump ricorda il generale Buttiglione, eroe radiofonico di un tempo: “uno come me non si arrende mai, nemmeno di fronte all’evidenza”.

 

Ammettiamo che l’involuzione senile di Trump si accentui: che cosa farà il suo staff? Questo è un problema che si pone a qualsiasi team presidenziale o regale: cosa fare se la Guida suprema dà fuori di matto o rimbambisce? Qualcosa del genere accadde con Ronald Reagan: i segni dell’Alzheimer – che fu reso pubblico solo nel 1994, cinque anni dopo la fine del secondo mandato – erano palesi quando lui era ancora presidente. Lo ha confermato il figlio Ron. Ricordo che negli ultimi tempi le apparizioni pubbliche di Reagan erano rade e veloci. Il suo “cerchio magico” riuscì a otturare le falle.

Il caso più celebre è quello di Giorgio III d’Inghilterra, re dal 1760 fino alla sua morte nel 1820. Da vecchio re Giorgio divenne pazzo, alcuni pensano per una malattia del sangue detta porfiria, altri pensano che fosse maniaco-depressivo, comunque finì completamente demente. La corte corse ai ripari nominando reggente nel 1811 suo figlio, il principe di Galles.

 

Il punto è che il presidente americano ha il controllo delle armi atomiche. Se Trump, dopo aver visto una trasmissione Fox, decidesse di buttare una bomba atomica su Pyongyang o su Teheran, chi glielo impedirebbe? Stanley Kubrik immaginò uno scenario simile nel film Dr. Stangelove del 1964: un generale americano diventa psicotico e dà ordine agli aerei US di bombardare atomicamente l’Unione Sovietica. Il presidente americano e tutto il suo staff non riescono a evitare la catastrofe nucleare.

                           

Altri si chiedono se Trump possa essere diagnosticato come narcisista. Il concetto di narcisismo, elaborato da Freud ma oggi di uso comune, è uno dei concetti psicoanalitici più complessi, disorientanti e ambigui. Dire che qualcuno è narcisista è dire tutto e dire niente. Molti credono che il narcisismo sia una patologia, ma per Freud il narcisismo è una componente essenziale alla base di ciò che chiamiamo auto-stima, amor proprio, apprezzamento delle proprie qualità e quindi senso di sicurezza in se stessi, ecc. Diciamo che in Trump c’è troppo di tutto ciò che ci fa normali: troppa auto-stima, troppa ammirazione per le proprie capacità, troppo amor proprio, troppa sicurezza in se stesso, ecc.

 

Comunque, vedo un certo tipo di narcisismo nei trumpisti. Alcuni americani che hanno votato per lui mi hanno detto, per giustificare i suoi passi falsi, “Nessuno è perfetto” (non so se pensassero alla famosa frase finale del film A qualcuno piace caldo). Ovvero, è quello che pensano di se stessi, che non sono perfetti. Questo forse significa che la democrazia occidentale sta entrando in una nuova fase, che potrebbe portare alla sua fine. In passato si ammiravano e si votavano leader che sembravano tendere alla perfezione, che appartenevano a un mondo diverso da quello della gente comune, come Lincoln, De Gasperi, De Gaulle, Gandhi, Aldo Moro, Nelson Mandela, ecc. Si pensava allora che la democrazia selezionasse un’aristocrazia morale, nel senso proprio di aristoí, i migliori. Col tempo, si sta affermando l’idea che bisogna eleggere non i migliori ma gente comune come noi, “non perfetti”, anche se hanno realizzato quello che io, persona comune, vorrei realizzare: avere molti soldi, essere simpatico, avere molte donne – o essere la donna di costui – accumulare potere, e vantarmi sfacciatamente di tutto ciò. La massa elegge non più persone che non saremo mai e che nemmeno vorremmo essere, ma persone che vorremmo essere, quelli che Freud chiamava “io ideali”. Il narcisismo è anche votarsi al proprio Io ideale. 

 

Adorare Berlusconi o Trump illustra quindi la banalità degli ideali egoici di massa, che esprimono quella che chiamerei mediocrazia. Nel senso che si preferiscono leader “mediocri come me” – appaiono più autentici – ma anche nel senso che, per lo più, costoro vengono dai media o ne hanno il controllo. Esprimono bene una mediocrità diffusa oggi legittimata ed esaltata dai media.

 

 

Quando Berlusconi emerse negli anni ’90, alcuni (pochi) dissero che il modulo Berlusconi non sarebbe rimasto una specialità italiana, ma sarebbe stato esportato in Occidente; del resto l’Italia aveva già esportato con successo il ‘kit’ fascismo. Nessuno però avrebbe previsto che il modulo Berlusconi si sarebbe affermato proprio nel paese più importante, gli Stati Uniti d’America, con Trump. Anziché far ricorso al concetto-tappabuchi di populismo, dirò che il modulo Berlusconi ha queste caratteristiche:

 

(a)    Un leader carismatico che si situa a destra – ma non necessariamente – e che non viene dalla politica, ma dall’imprenditoria.

 

(b)   Oltre che imprenditore, questo leader è impresario. Comunque viene da, o ha avuto a che fare con, il mondo dello spettacolo, in particolare televisivo. La leadership politica tende sempre più a identificarsi con la spettacolarità: da qui Reagan, Schwarzenegger, Grillo, e ovviamente Trump, famoso per il serial The Apprentice.

 

(c)    Questo leader spara a zero contro l’establishment politico, talvolta fonda un suo partito personale, e si propone come portavoce della gente comune, dell’“uomo qualunque” come diceva Guglielmo Giannini (il quale apparteneva, anche lui, al mondo dello spettacolo: era drammaturgo e cineasta). Giannini aveva capito le cose con mezzo secolo d’anticipo.

 

(d)   Questo atteggiarsi a uomo della strada afferma uno stile politico che rifugge dalle accortezze diplomatiche e impone uno stile colloquiale, spesso sbracato, che porta a gaffe clamorose; da qui il disprezzo che le leadership politiche tradizionali votano a questo leader. Su Berlusconi sghignazzavano vari leader europei, su Trump invece non sghignazza nessuno perché ha troppo potere.

 

(e)    Questo leader esibisce sfrontatamente la propria ricchezza e successo, le propone come modello a chiunque, e non fa mistero di una vita sessuale intensa e promiscua. Questo non gli aliena, stranamente, il voto della parte bacchettona e puritana della popolazione, anzi, drena proprio questo tipo di consenso verso di sé. Fenomeno apparentemente paradossale su cui ci interrogheremo.

 

Ci possono essere varianti nei contenuti politici tra questi glamorous mavericks– ad esempio Berlusconi non sembra sostenere la politica di Trump, a differenza di Salvini. Ma le cinque caratteristiche di cui sopra restano essenzialmente le stesse. Questo modulo potrebbe diffondersi nel mondo, come abbiamo detto.

 

Il modulo Berlusconi-Trump potrebbe portare al tramonto della democrazia. Potrebbe generare regimi come quello di Putin in Russia o di Erdogan in Turchia, una pseudo-democrazia in mano a un autocrate. Non a caso Putin è molto ammirato in Occidente soprattutto da chi vota per Trump, Le Pen, Salvini o Grillo. Da un’inchiesta recente risulta che il 57% dei votanti Lega ammira Putin più di ogni altro leader straniero (più di Trump e Le Pen); quanto agli elettori del M5S, preferiscono anch’essi Putin e Trump, il 42% di loro il primo e il 34% il secondo. Putin è molto meno ammirato da chi vota per gli altri partiti (I. Diamanti, “M5S, il partito trasversale scelto da giovani e operai”, La Repubblica, 3 giugno2017, pp. 2-3). Conclusione: chi è xenofobo e anti-europeista ama “un uomo forte” fortemente nazionalista.

 

Una certa filosofia – che Francis Fukuyama popolarizzò – ci porta a considerare la democrazia pluralista come la vetta dell’evoluzione storica dell’umanità e quindi, come ogni stadio evolutivo, di fatto irreversibile. Ma non è così. La storia insegna che spesso dei regimi non-autoritari possono lasciare spontaneamente il posto a regimi dispotici, senza bisogno di guerre o colpi di stato. Ne abbiamo vari esempi storici. Fu il caso dei comuni italiani medievali, i quali poco a poco “evolsero” in signorie. I comuni medievali non erano democratici stricto sensu, ma si basavano su una pluralità di corporazioni che cercavano di amministrare la città dal basso. La lotta politica all’interno dei comuni era però violenta, spesso sanguinosa, guelfi contro ghibellini, il potere era sempre instabile; da qui una certa stanchezza della libertà e il bisogno di avere “un signore”. Il quale poteva essere un condottiero (come gli Sforza), un nobile (come i Gonzaga) o un banchiere (come i Medici).

 

Non possiamo escludere che un processo simile possa prodursi nelle democrazie moderne. Un popolo si può stancare di godere della libertà e può affidarsi a un despota rassicurante che sappia usare bene i media, a cui delegare le scelte essenziali. Cosa che già nel XVI° secolo Etienne de la Boétie aveva perfettamente colto parlando di “servitù volontaria”. E che Michel Houellebecq ha ripreso di recente col romanzo Sottomissione.

 

Resta l’enigma del perché piacciano tycoons come Berlusconi o Trump. La risposta possibile è complessa, per cui posso solo accennarne qui.

Trump ha detto di recente una cosa molto profonda: “Se uscissi sulla Fifth Avenue con un mitra e ammazzassi un po’ di persone, non perderei un voto”. Chi adora Berlusconi o Trump perdona loro tutto.

Perché Berlusconi o Trump proclamano urbi et orbi: “io godo!” Questo scatena una certa invidia tra alcuni, ma tra i molti produce non solo ammirazione, soprattutto sottomissione. C’è una forte tendenza, in molti di noi, a farci strumento del godimento di una figura divina, e divina proprio perché si pone come campione di ogni godimento. Siamo come quelle donne che evidentemente godono nell’essere trattate da un uomo come suo puro oggetto di piacere. Nel famoso romanzo Histoire d’O, scritto da una donna, la bella O si lascia schiavizzare da molti uomini per far piacere all’uomo che lei ama. Donne che assecondano il loro uomo in tutto, che magari si lasciano anche prostituire, se a lui fa comodo. Un godimento che Freud chiamò masochistico, e che va ben oltre una certa tipologia di donna: esso è alla base di molti rapporti sociali.

 

Un tempo la folla assisteva alle laute cene che certi re del tempo andato tenevano di fronte ai sudditi: la folla godeva del godimento del re. Oggi si gode nel sentir parlare delle amanti di Berlusconi e nell’ammirare la moglie bimbo di Trump (bimbo in inglese è il tipo di donna con una bellezza vistosa ma superficiale, bambola del desiderio sessuale).

Come disse Lacan, il godimento degli esseri umani è il godimento dell’Altro.

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Che cos'è la noia?

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Durante la sua famosa passeggiata sulle Dolomiti in compagnia di Freud, che avrebbe ispirato a quest’ultimo, guarda caso, il testo “Caducità” (1915), Rilke, pur ammirando la bellezza della natura, non riesce a trarne gioia tanto è turbato dal pensiero che tutta quella bellezza sia destinata a perire, la transitorietà delle cose genera in lui un doloroso sentimento di “tedio universale”. Questo noi lo sapremo dallo stesso Freud la cui risposta al giovane poeta è che la caducità delle cose non ne sminuisce il valore, al contrario, lo accentua. Una posizione consolatoria solo a uno sguardo superficiale e che in realtà ribadisce in termini meno crudi quanto egli aveva già affermato pochi anni prima nel saggio Considerazioni attualisullaguerra e la morte: la vita va vissuta e può essere vissuta solo accettando ciò che non è eliminabile, ossia la morte. Si vis vitam, para mortem. Freud si accorge tuttavia che la sua affermazione non produce alcuna impressione su Rilke. Conclude quindi che lo svilimento del bello, “l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità” (Freud 1915), debbano essere dovuti ad una ribellione al lutto, ad una impossibilità a rendere disponibile la libido a nuovi investimenti. Il rifiuto di riconoscere che “le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano finire nel nulla” (ibid.) sarebbe legato a “una esigenza di eternità che è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere un valore di realtà” (ibid.).

 

“Il bello non è che il tremendo al suo inizio” (Prima Elegia, in ElegieDuinesi). Questo è il tema delle Elegie. Il tremendo, lo spaventoso irrompe e spezza l’armonia e la continuità che ci sono familiari. La poesia di Rilke si colloca storicamente in quella posizione di precarietà estrema, frutto del cambiamento dei tempi, per la quale l’illusione del dominio sulla vita e dell’eternità è svelata e non più praticabile. Detto altrimenti, il tremendo traumatico irrompe sulla scena e la modifica definitivamente. D’altro canto questa evidenza è insopportabile e dunque non può essere veramente fatta propria. L’esito è quello di sostare sul confine tra “ascesi” e “caduta”, esiliati da una qualsivoglia garanzia. L’impossibilità rilkiana di rinunciare all’esercizio di “illusione di eternità” (Freud, IntroduzionealNarcisismo, 1914) non è che l’altra faccia di una acuta consapevolezza di irreparabile perdita. Egli si muove su un confine – “il bello non è che il tremendo al suo inizio”- tra l’illusione di ripristinare ciò che è perduto e l’orrore della perdita.   

 

Ho pensato questo dopo avere letto Noia (di O. Fenichel, S. Benvenuto, B. Moroncini, G. Pizza). Un libro che ha, tra gli altri, il merito di tematizzare da più prospettive un tema caro alla filosofia e alla letteratura, trascurato dalla psicoanalisi, e che, come un fiume carsico, appare e scompare nel corso dei secoli. Dopo l’akedia tardo-medievale, e prima ancora con gli stoici Seneca e Marco Aurelio, il quale assimila la noia alla scontentezza di sé, la noia diventa un tema letterario cospicuo nel Romanticismo, per diventare condizione ontologica in filosofia, fondamento che determina l’essenza e il destino dell’uomo, intorno agli anni ‘30 del ‘900. Quello di Otto Fenichel (1934), che apre il libro, è un testo ormai storico se non altro perché è tra i pochi a tematizzare la noia in ambito psicoanalitico. Fenichel la descrive come una spiacevole condizione psichica di mancanza di spinta verso le cose del mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare la noia non è apatia, abbandono, bensì insopportabile tensione psichica (ingorgo libidico, lo chiamano gli analisti) accompagnata dalla bramosia di trovare una via d’uscita, un oggetto del mondo che serva a scaricare la tensione accumulata. Eppure la frenesia dell’annoiato resiste agli stimoli che il mondo propone, egli si astiene, gli oggetti apparentemente non lo tentano. La noia è dunque un’istanza pulsionale amputata di meta, proprio di ciò che permette la scarica dell’eccitazione, una “pulsione mostruosa” (Benvenuto). La meta pulsionale è rimossa, la tensione pulsionale no. Lo stato di “frenesia” che spesso accompagna la noia resiste agli stimoli esterni proposti all’annoiato, poiché non soddisfano neanche lontanamente la meta, ossia l’oggetto pulsionale rimosso.

 

Dal testo di Fenichel, rigoroso e godibile, traspare una pratica non addomesticata che vede la pulsione e la sessualità come imprescindibili. Esso ha un altro merito, quello di mettere al centro della problematica della noia l’oggetto, rimosso e interno (anche se Fenichel non lo chiama così ma sembra implicito, dato che egli ne prevede uno esterno). Egli tocca così, e probabilmente a propria insaputa, lo spinoso problema del confine, sottile e forse fittizio, tra dentro e fuori, tra mondo esterno e “mondo interiore”. Dilemma da cui la fenomenologia in quegli anni ci liberava (si veda Sartre, Husserlel’intenzionalità, 1939) lasciando un’impronta fondamentale sul giovane Lacan e sulla sua rilettura di Freud. 

 

 

Anche per Sergio Benvenuto nella noia, la “nebbia silenziosa” heideggeriana, si fa esperienza diretta della pulsione allo stato puro, proprio perché deprivata di oggetto. L’annoiato fronteggia una “pulsione mostruosa” che ingaggia il soggetto con “il rumore e il furore delle pulsioni”, per dirla con un enunciato un po’ faulkneriano di Lacan (Lacan, IV Seminario, 1956-67. La relazione d’oggetto). La noia è “spinta libidica allo stato puro”, puro desiderio beante nel quale il soggetto è schiacciato dall’ente in tutto il suo spessore anziché aprirsi ad esso. Se Heidegger pensa la noia come sentimento fondamentale della nostra epoca è perché essa che non ci implica più, l’ente non riesce a farsi abbracciare dalla spinta pulsionale rifiutandosi al soggetto. L’ente che nella noia diventa protagonista è, invece, il tempo, tempo che non passa mai, svuotato di godimento e divenuto indigesto, scheletro intollerabile della vita. La noia (in omaggio al suo etimo) è odio del tempo percepito in quanto tale. Ma al dunque per Benvenuto la noia non è che profonda delusione del soggetto che aspettava “la grande festa”, il proprio trionfo nella vita che, invece, non arriva. Nei sogni dell’annoiato affiora il rovescio della medaglia, ossia il proprio godimento, che nella vita diurna l’annoiato lascia sdegnosamente all’Altro.

 

Poiché la noia con il suo fondo di megalomania, è “un rifiuto dell’ente (come soggetto e come oggetto, sottolineerei) nella sua totalità”, essa svela “la magnificenza del soggetto” che è sotto scacco semplicemente perché non trova nulla al mondo che sia degno di sé. Uno sdegnoso “preferirei di no”. Con un occhio al monito freudiano che raccomanda l’uscita da se stessi per “non ammalarsi”, il donchisciottesco rifiuto di fare il lutto dell’illusione di raggiungere la terra promessa e vedere tutti i desideri (o il grande desiderio?) soddisfatti, ci appare tragico e commovente. Esso tocca una corda umana fondamentale, direi ontologica, che decide il destino del soggetto, sia che si risolva ad attraversare la perdita angosciosa di ogni bussola e padronanza – proprio l’Hilflosigkeit, la derelizione freudiana – per accedere agli oggetti (certo ridimensionati) e dunque ai piaceri del mondo, sia che, come l’annoiato, sia ad essa irriducibile. Diremmo per non privarsi del godimento di continuare ad aspettare “la grande festa”. 

 

Con i Concetti fondamentali della metafisica.Mondo-finitezza-solitudine (1929-30), la noia per Heidegger assurge a stato d’animo fondamentale (Grundstimmung) “della situazione spirituale del suo tempo” sostituendosi all’angoscia: da qui parte la riflessione di Bruno Moroncini. La noia è in grado di “svegliare l’esserci richiamandolo all’autenticità, all’essere se stesso e alla responsabilità, sottraendolo al commercio quotidiano con il mondo pur essendone formatore”. Per dirla con Jean-Luc Nancy, l’esserci deve essere-al-mondo ma non deve essere mondano. “Andate nel mondo senza essere del mondo”, dice Gesù agli apostoli poco prima di salutarli per ascendere al regno del Padre. È dalla condizione di declino e di decadenza che caratterizza il passaggio tra l’800 e il ‘900 che l’esserci deve essere svegliato, come suggeriscono i pensatori che raccolgono l’eredità di Nietzsche (Spengler, Klages, Spengler, Ziegler). Ma è la noia profonda che interessa Heidegger: in essa “ci si annoia”, un esso (Es) si annoia, c’è dell’uno che si annoia, in cui viene eliminato ogni residuo coscienzialistico e personalistico (direi anche psicologistico), l’Io scompare e resta un indifferente Nessuno. Non scompare invece l’ente, anzi, “si mostra in quanto tale nella sua indifferenza”. Questa è la peculiarità della noia: se nell’angoscia il mondo (l’ente) viene annullato nell’anticipazione precorritrice della morte, nella noia esso emerge nella sua totale indifferenza. Per questo la noia, sottraendo all’esserci persino il tempo, è in grado di riportare “il discorso a livello di un’autentica possibilità ontologica”.

 

Sradicato l’Io, la noia permette di pensare alla storia dell’esserci nella sua autenticità, ripulito dai residui soggettivistici. È impossibile qui non correre con il pensiero all’allora giovane Lacan che sta intraprendendo, nel suo ritorno a Freud, la costruzione di un soggetto quanto più possibile de-personalizzato, de-psicologizzato, logico. Solo la noia è in grado di destare l’esserci dall’assopimento, non certo la psicoanalisi che, trasformata da Heidegger in filosofia della cultura, assolve e giustifica la condizione umana. Prospettiva verso la quale Moroncini è critico, collocandosi su posizioni del tutto freudiane e lacaniane quando afferma che la psicoanalisi non è né una filosofia né una visione del mondo (basta pensare a Lacan quando enuncia che “non c’è metalinguaggio”) ma una scienza moderna (su questo si potrebbe molto parlare…) della psiche che prevede l’assunzione di una posizione etica nei confronti del desiderio/godimento del soggetto. 

 

Sia la noia heideggeriana che l’angoscia lacanianamente intesa sono ciò che non inganna (che tocca il reale, diremmo) mettendo il soggetto di fronte a un troppo pieno, a una mancanza della mancanza per quanto riguarda l’angoscia, alla vita fittizia e assopita che tutti viviamo per quanto riguarda la noia. Il passo che Heidegger non fa, secondo Moroncini, è quello di vedere nell’"uno si annoia” una delle possibili vicissitudini della pulsione. 

Se Heidegger non ha colto il rapporto peculiare della noia con il tempo, Benjamin ne fa un elemento cardine. Da un lato troviamo un tempo ripetitivo, circolare che “come l’oppio o l’assenzio, lenisce il dolore e la delusione” di uno scacco insopportabile (Passagen Werk, 1982). Benjamin, in effetti, individua nella sconfitta bruciante della Comune di Parigi il germe storico della noia. Da un altro lato troviamo un tempo come cesura (Tesi sul concetto di storia, 1950 postumo) che riesce a attualizzare il passato rendendolo leggibile. Un tempo che si arresta per non tornare e inaugurare così una nuova serie temporale rompendo la ripetizione. Una prospettiva del tutto psicoanalitica, se pensiamo alla potenza ricostruttiva e trasformativa dell’aprèscoup e alle due opzioni temporali di tyche e di automaton.

 

Per Giovanni Pizza, l’antropologia della noia diventa antropologia politica. Può il fenomeno circoscritto del tarantismo, trattato da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1962), “diventare strumento di critica antropologica della modernità e del contemporaneo?” Sembra di sì, visto che l’operazione è già stata inaugurata dallo stesso De Martino quando, in La fine del mondo (1977, postumo) recupera la monografia sul tarantismo nella prospettiva di un’analisi della crisi della modernità e del rapporto tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. Probabilmente, anche “in ragione della sconfitta del movimento operaio e contadino come declino di una prospettiva di cambiamento e trasformazione” che aveva animato gli anni ‘50. Un altro scacco bruciante. Oltre il riduttivismo medico-psichiatrico e, aggiungerei filosofico, l’analisi della noia corporea (diremmo incarnata) si propone come tentativo di comprendere una “perdurante crisi della modernità” e delle sue istituzioni.

 

E allora “il tempo corpulento” di cui scrive Gramsci dal carcere non è solo la tentazione del demone meridiano coniugato a un apparato di distruzione della persona, ma strumento di resistenza (corporea) contro un nemico politico. 

Tornando al tedio di Rilke, mi sembra che esso, come paradigma possibile della condizione dell’annoiato, colga un comune denominatore che, nella loro diversità, accomuna i testi di questo libro, e cioè l’avere collocato la noia su una soglia aperta a una doppia possibilità. Che sia l’inaccessibilità (o meglio, il rifiuto) dell’oggetto che mette a nudo la brutalità della pulsione, l’indifferenza dell’ente e la sconfitta storica che diventa ineluttabilità cosmica, o la crisi di una presenza e di un’epoca, da un lato abbiamo il perpetuarsi di una condizione di “tedio universale” che cede alla gabbia (pur vedendola molto bene) dell’insistenza di ripetizione, al sostare sotto il “panno caldo.” Da un altro lato si profila la possibilità di compiere un salto vertiginoso e senza garanzie (come senza garanzie è sempre il lavoro di Eros) del tutto all’insegna della “caducità”, che spezzi la ripetizione e che ci consegni al fuori, a un oggetto, un ente, un’epoca, umani e imperfetti, ed esattamente per questo praticabili.   

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Michele Mari, il ritorno del Demone

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La porta socchiusa è logora, macchiata; la maniglia, in basso, annerita di ruggine annosa. Dall’apertura sporgono le dita di una mano: le dita della persona che sta entrando. Una persona? Quelle dita sono deformi, raggrinzite e bitorzolute, la pelle scorticata d’un rosso violaceo e malsano. Quelle dita non hanno unghie. Il Demone attende il momento di ghermirci. Ci si ricorda della scena famosa di Shining: Jack Torrance (Jack Nicholson) fa toc toc alla porta del bagno in cui s’è rifugiata, in preda al terrore, la moglie Wendy (Shelley Duvall): «Wendy? Sono a casa, amore… cappuccetto rosso? Su, apri la porta… non hai sentito il mio toc toc toc? Sono il lupo cattivo!». Per poi mettere mano all’ascia. Il lupo cattivo, come ben sa chi conosca le statistiche sui fatti di sangue che per lo più si producono all’interno dei nuclei famigliari, non è un’entità estranea. Non viene da fuori. Il mostro, il demone, è una voce di dentro. Quello che perturba, che perseguita, non ci invade; è dentro casa, è la nostra stessa casa anzi (l’ambiguità, più precisamente la preterizione, del termine Unheimlich non può essere resa dalla canonica traduzione italiana del termine freudiano). Quel mostro siamo noi. 

 

 

L’immagine sta in copertina alla splendida autoantologia d’autore impaginata da Mari assieme alle immagini del fotografo Francesco Pernigo e pubblicata due anni fa, nei sempre suggestivi tipi di Corraini, col titolo Asterusher. Autobiografia per feticci. Asterusherè un titolo doppio, la crasi di due universi narrativi sotto molti punti di vista remoti – quello del Poe del Crollo della casa di Usher e quello del Borges della Casa di Asterione – ma congiunti, appunto, dall’elemento comune della casa. La casa come emblema, come impresa araldica, la «casa-libro». La stessa che la fa da protagonista nell’altro bellissimo libro d’artista (pubblicato da un’altra eccellenza dell’editoria italiana, la Humbold Books), Sogni, che associa una serie di oneirogrammi di Mari («oniroschediasmi», anzi, come lui preferisce definirli), risalenti agli anni Novanta, alle “case” d’invenzione sognate da Gianfranco Baruchello. Sintomaticamente, per Mari da sempre ossessionato dal tema del doppio (pervasivo sin dal suo romanzo d’esordio, Di bestia in bestia, pubblicato nel 1989 da Longanesi e riscritto per Einaudi nel 2013), la Casa di Asterusherè una e bina: la casa di campagna sul Lago Maggiore, a Nasca (toponimo-origine, nome-ómphalos), come in uno specchio oscuro si giustappone a quella di città, a Milano. 

 

 Asterusher, I due signori.

 

Uno scrittore, due facce. Non è (solo) una metafora: tra le fotografie che Pernigo ha realizzato nelle due case, nelle due anime di Mari, ce n’è una – posta a guardia della sezione “di città” – raffigurante due teste di legno colorate «che mio padre», commenta l’autore-figlio, «comprò alla fiera di Sinigaglia quando ero molto piccolo». Due teste molto simili, in effetti quelle di un medesimo individuo a due facce, appunto: quella severa ma composta del «signore», come lo chiama Mari, e quella dai tratti deformati del «mostro» che, «senza che nessuno mi avesse ancora raccontato la storia di Jekyll e Hyde, è sempre stato per me la deformazione del “signore”, la sua tensione, il suo destino: se non addirittura la sua permanente verità. Ne derivava che quella rassicurante era la faccia dell’inganno, e quella mostruosa la faccia della sincerità».

 

 

Eccoci allora a Leggenda privata. Che di Mari forse è il capolavoro; ma senz’altro, e a mani basse, il più bel libro italiano dell’anno. Un libro che spazza via – è tempo che lo si dica con decisione – non solo gli altri pretendenti a quest’ultimo status, ma anche i deludenti Mari dell’ultimo quindicennio: sin troppo composti e ben congegnati, editorialmente rassicuranti nel loro compiaciuto ma tenue gioco meta-letterario, Roderick Duddle e compagni – che hanno imposto il loro autore, invece, all’editore-feticcio e, con esso, a un pubblico meno conventicolare – facevano rimpiangere, eccome, gli incubi gli eccessi le ossessioni di Io venia pien d’angoscia a rimirarti (1990), di Euridice aveva un cane (1993), di Filologia dell’anfibio (1995), di Rondini sul filo (1999) e, soprattutto, di Tu, sanguinosa infanzia. Cinque grandi libri che hanno fatto di Mari l’autore maggiore di un decennio, gli anni Novanta, che in futuro credo ricorderemo come uno dei migliori della seconda metà del secolo cui pone fine. 

 

 

Proprio a Tu, sanguinosa infanzia, soprattutto, si riallaccia Leggenda privata. Che si presenta come la sua faccia mostruosa e insieme, dunque, sincera. Tanto è vero che è, mi pare, l’unico suo titolo precedente cui si faccia cenno, in quello di oggi, in modo esplicito. Racconta infatti Mari che nel ’97, alla sua uscita (da Mondadori; nel 2009 lo ha riproposto Einaudi relegandolo però, con scelta sacrilega, nella collana minore «L’Arcipelago»), ne fece dono al Padre, il celebre grafico e designer Enzo, senza attendersi al pari dei libri precedenti – da lui che a priori considera ogni forma di letteratura «un’assoluta perdita di tempo, una forma di titillamento molto ma molto masturbatorio» –il minimo commento. E invece il padre-totem, stavolta, non può esimersi: comunicando al figlio di «aver “preso atto” che la sua memoria è molto “selettiva”», avendo «lui trattenuto e letterariamente condito, di tutte le cose successe (“alcune anche belle”), solo “le brutte”». Al che l’antagonista obietta «che la memoria può anche essere “pietosa”», ma l’altro – col piglio decretale consueto a chi «si colloca all’intersezione di Mosè con John Huston» – conclude che «la letteratura non dovrebbe essere mai impiegata per un “regolamento di conti”» (di contro l’altra protagonista della Trinità Nevrotica, la Madre, si mostra «delusa per il motivo opposto: “Visto il titolo, credevo che ci avessi dato dentro”»). 

 

Tu, sanguinosa infanziaè infatti la trasfigurazione narrativa di un duello, quello fra Mari Padre e Mari Figlio, che per anni si snoda attraverso una serie di oggetti-feticcio, quelli in cui difensivamente s’è imbozzolata l’esistenza del Figlio: i narratori più amati in Otto scrittori, i canti struggenti degli alpini mandati a morte, I giornalini, Le copertine di Urania, i «suoi lettini, allineati in una medesima stanza» nella «casa di campagna»… Soprattutto i giocattoli di quell’infanzia cui Michele resta sanguinosamente attaccato, ma che il Demone Paterno, spettrale «angelo tesoriere» che dall’alto veglia vindice sulla sua vita, gli mostra aver lui di volta in volta trascurato, perduto, tradito: dal «Winchester di cinquanta centimetri» al «fortino fatto di canne di bambù», sino all’acme di sanguinoso incistamento dermico («tanto impregnati di noi», quegli oggetti, «che adesso quasi gli sembrano osceni») rappresentato dall’«amore di tutti gli amori, l’orsino, quell’entità spasmodica cui corrispondeva il flatus di “orsino”, il mio orso di stoffa grigia sdrucita ingiallita, macchiato, accecato, pisciottato, schiacciato». Della perdita di tutte queste apparizioni oniriche è sempre il Demone Padre, senza pietà, a chiedere conto al Figlio. 

 

Questo racconto memorabile s’intitola L’uomo che uccise Liberty Valance, come il film diretto nel 1962 da John Ford. E c’è da chiedersi perché, visto che al film nel racconto non si fa cenno (mentre fa allusivo capolino in una delle note a corredo di Leggenda privata). Proprio mediante il titolo Mari allude, probabilmente, alla natura effettiva del duello col Padre, che è piuttosto – ancora una volta – un combattimento fra Doppi. Anche nel film di Ford, si ricorderà, il titolo è ambiguo: colui che è passato alla storia come chi dopo lunga oppressione, un bel giorno, liberò il villaggio di Shinbone dai soprusi e dalle violenze del villain Liberty Valance (Lee Marvin), così cominciando l’ascesa che lo porterà alla carica di Senatore degli Stati Uniti – il gentile avvocato Ransom Stoddard (James Stewart) –, si scopre infatti non essere stato lui, davvero, a far fuori il bandito. Chi, nascosto dietro un angolo, ha fatto fuoco subito prima che si venisse al dunque (e, nel confronto, prevedibilmente avesse la meglio Valance) è stato l’allevatore Tom Doniphon (John Wayne), rivale in amore di Stoddard: lui questo lo ha sempre saputo, ma ha accettato di condurre la sua esistenza all’insegna della menzogna. O meglio, della leggenda: secondo la quale è lui, appunto, «l’uomo che uccise Liberty Valance». Come dice memorabile il giornalista Peabody (Ed O’ Brien), che viene a sapere la vera storia ma alla fine rinuncia a pubblicarla: «Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda».

 

Enzo Mari nel 1974.

 

Realtà e Leggenda, sempre, sono i poli che elettrizzano ogni grande opera autobiografica. Di recente, sottraendosi agli eccessi più inverosimilmente retrivi della polemica che ha accolto il suo Bruciare tutto (Rizzoli 2017), sul Corriere della Sera Walter Siti ha scritto un intervento importante, il primo mi pare in cui dia conto seppur brevemente di una scelta – la sua di farla finita con l’autofiction: genere che proprio lui ha canonizzato, nella nostra narrativa recente, ma del quale ha finito per sentirsi prigioniero – di non poco conto. Quella che preferisce definire «autobiografia aumentata», che ha preteso di «superare l’inefficacia del romanzo con un’iniezione di verità, e di dare forma (quindi senso) a quella cosa informe che è la vita», alla lunga si dimostra – a sentir lui, appunto – «un ostacolo all’espressione delle verità profonde di sé. Perché le verità profonde sono inconsce, e se l’Io è la guida allora laggiù, nei territori dell’Es, fatica ad arrivarci». Di qui, per Siti, il problema di «uscire dalla trappola dell’autofiction». 

 

Anche in questo scritto com’è ovvio si maschera, Siti, come chiunque pretenda di rivelare i propri segreti: dell’autore come dell’uomo. Diceva Kafka (in un aforisma acutamente commentato da Mario Lavagetto nella Cicatrice di Montaigne, Einaudi 1992 [2002]) che «confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna». Ben lo sapeva l’autore al quale più deve la trilogia autofinzionale da Siti riunita nel 2014 sotto il titolo Il dio impossibile, il Proust che nel Contro Sainte-Beuve distingueva l’io di superficie, niente più che una maschera, da quello profondo («un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi»): dal primo tanto diverso quanto – sarà la scoperta della Recherche, che da questa prima discende – la memoria involontaria differisce da quella comune, sociale e socializzata. Tanto che, in un altro intervento sul suo romanzo, Siti cita sì l’autore-feticcio dell’impersonalità narrativa, Flaubert, ma solo per la battuta con la quale veniva messo a nudo, rovesciandolo, il feticcio di quell’impersonalità: «don Leo», il protagonista di Bruciare tutto, «c’est moi». 

 

Perché se è vero che nella società del narcisismo di oggi, per dirla ancora con Siti, «la prima persona ha invaso il campo» e «l’autobiografia, aumentata o meno», si è fatta genere egemone nelle pseudoscritture narrative che infestano la scena, la sua inerzia conformistica, e dunque la sua incapacità ad attingere le «verità profonde di sé», caratterizzano piuttosto quella pletora di stenterelli che oggi intendono l’autofiction, superficialmente appunto, quale estensione del dominio dei social, prova di forza insomma del proprio “capitale relazionale” (ogni allusione ai prossimi dominatori dello Strega è perfettamente intenzionale). Ad affascinare, in scrittori veri quali Mari e Siti, resta invece l’intercapedine indecidibile, la zona grigia fra l’autore e il personaggio. A un certo punto di Resistere non serve a niente (Rizzoli 2012) dice il narratore di Siti che «onnisciente sarebbe solo Dio, se esistesse». E infatti neppure Bruciare tuttoè un romanzo tradizionale: l’“onnisciente” terza persona, se non in senso meramente grammaticale, con tutta evidenza anche qui è assente: segno di trascendenza dalla quale, una volta di più, ci si riscontra tanto tentati quanto esclusi. Come da quel Paradiso che – per l’autore miscredente come per i suoi lettori, ipocriti e fraterni – è davvero troppo.

 

Bisognerebbe riflettere, piuttosto, sulla convenzione che induce anche i meglio intenzionati a mutuare l’inonesta quanto superstiziosa dizione editoriale, «romanzo», a fronte di quelli che, insieme a quello di Mari e a quello di Siti, non a caso vanno indicati quali migliori libri italiani di quest’ultima stagione: Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi 2016), Memorie di un rivoluzionario timido di Carlo Bordini (Luca Sossella 2016), Absolutely nothing di Giorgio Vasta (Humboldt Books-Quodlibet 2016), Parigi è un desiderio di Andrea Inglese (Ponte alle Grazie 2016) e Il cortile del Tasso di Ruggero Savinio (Quodlibet 2017). Tutti libri che, se proprio a un genere devono essere ricondotti, non è neppure all’autofiction bensì appunto all’autobiografia. Così come Leggenda privata, che – rispetto alla «leggenda» di Tu, sanguinosa infanzia– si spinge sino a fare i nomi anagrafici dei totem di famiglia: dunque omaggiando quella che, per il classico Philippe Lejeune del Patto autobiografico (1975, il Mulino 1986), dell’autobiografia è la regola principale, la prima clausola del relativo contratto di lettura. 

 

 

Il che ovviamente non implica – a dispetto della vulgata– che ad apparire nel testo sia l’io di superficie: ossia quello che, sempre per la doxa contemporanea, alla leggenda si contrapporrebbe in nome della realtà. Viceversa, nel “sistema” di un vero manierista quale fieramente è e si professa Mari, il “demone” acquattato nel profondo è l’unico sé che possa avere accesso alla pagina. Volendo contrassegnare le “due facce” dello scrittore coi cartellini che suddividono in contrapposti, grandi versanti la mirifica raccolta saggistica I demoni e la pasta sfoglia (lievitata, è il caso di dire, sino a sfiorare le ottocento fitte pagine nella terza edizione appena uscita dal Saggiatore, dopo quelle pubblicate alla macchia presso Quiritta nel 2004 e Cavallo di Ferro nel 2010), con Leggenda privata per fortuna siamo tornati, stilisticamente quanto strutturalmente, nel regno delle «Ossessioni» – fuoriuscendo dal côté delle «Estroversioni» (che nel libro figura rappresentato da autori come Salgari, Kipling, London e Wells: quel H.G. Wells di cui, in questo stesso prolificissimo 2017, Mari ha dato alle stampe, nell’einaudiana collana «Letture», una propria traduzione della Macchina del tempo). Come è detto nelle leggendarie, è ancora il il caso di dire, pagine eponime dei Demoni e la pasta sfoglia, scrittori «come Céline, Gadda, Gombrowicz, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Perutz, Landolfi, Maupassant» non possono definirsi che degli «ossessi»: «scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale […], ma l’ispirazione stessa»: sicché «è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni».

 

Guardando al canone ristretto salmodiato all’incipit, se c’è un nume italiano al quale fa pensare Mari con Leggenda privata non è per una volta Giorgio Manganelli, che com’è noto ascriveva la propria opera direttamente alla «menzogna», bensì Tommaso Landolfi: quello dell’autobiografia non più in forma di «leggenda» mitopoietica e “fantastica” bensì come almeno apparente “confessione” e, semmai, rovesciata «prefigurazione» (dell’opus landolfiano proprio Prefigurazioni: Prato – all’interno di Ombre, 1954, Adelphi 1994 – va indicato quale snodo-chiave) della stessa opera narrativa che quella “confessione” aveva preceduto. È quello che, nelle pagine saggistiche proprio a Landolfi dedicate (e risalenti giusto ai tardi anni Novanta di Tu, sanguinosa infanzia e Rondini sul filo), definisce Mari «auto-manierismo»: quello che, proprio come negli pseudo-diari LA BIERE DU PECHEUR (1953, Adelphi 1999), Rien va (1963, Adelphi 2012) e Des mois (1967; quest’ultimo da poco finalmente riproposto da Adelphi), si configura quale auto-citazione, auto-pastiche, auto-collezione: non a caso insistendo sul motivo delle «case-tempo, case-moralità o case-manifesto […]; case-letteratura e case-stile insomma, case-Landolfi» (e seguono, ancora una volta non casualmente, «la casa Usher» e «la casa di Asterione»; neppure risponderà a un caso che nella Leggenda privata si faccia cenno al nonno, apulo fieramente «foggiano, e quindi dàuno», che in quanto tale «aborriva i baresi» ma dovette subire un’onta da parte dell’amministrazione fascista che, «ridisegnando le province, trasformò Spinazzola, per pochi chilometri, da foggiana in barese»: così ripetendo lo sdegno di Landolfi, al passare dell’avita Pico Farnese dalla provincia di Caserta, nobilmente longobarda, a quella «romanesca-suburbana» di Frosinone: cfr. I contrafforti di Frosinone, in Se non la realtà, 1960, Adelphi 2003).

 

 

Così la casa-Mari di Leggenda privataè il traslato allegorico, il “correlativo soggettivo” del suo io diviso. E come la scrittura, in spregio di qualsiasi linearità cronologica, salta da un tempo all’altro restando però sempre prigioniera del cerchio magico dell’infanzia (dalla nascita più o meno al 1965: quando, dopo interminabile virulenta guerriglia, i genitori decidono di separarsi all’indomani di un viaggio in Jugoslavia), così da un punto di vista “spaziale” «mi muovo lungo l’asse diacronico ma sto sempre qui, in questa casa e nel suo giardino». La casa-Mariè poi, ancora e reversibilmente, la famiglia che porta questo nome (perciò tale nome dev’essere detto e ripetuto): gli individui, le cose-genitori dei quali non solo si ripetono gli estremi anagrafici ma si ricostruiscono le rispettive genealogie. Simbolicamente all’«omo sanza lettere», alla Cosa-Padre Enzo Mari – l’«essere meno metafisico che sia mai esistito» – giustapponendosi Gabriela detta Iela (con quella «l» da taluno geminata in lectio facilior, a prefigurarne le sventure a venire), l’Ultracorpo-Madre a sua volta talentuosa nel disegno (talento ovviamente coartato e abortito dalla tirannide del «bruto di genio» cui ha voluto accompagnarsi) ma che reca con sé, soprattutto, il portato ereditario dell’amicizia con Dino Buzzati (in compagnia del quale tenta allegoriche cime dolomitiche) e addirittura della semi-parentela col metafisico par excellence Eugenio Montale… (ad ancor più simbolico contrappasso, sarà proprio nel linguaggio che la nevrosi materna sfocerà, dopo il discidium, in drammatica malattia: come si legge, prima che in Leggenda privata, nell’unico vero svettare entro l’ultima produzione di Mari, Verderame del 2007: commovente spin-off di Euridice aveva un cane nel quale la sorte tormentosa di Iela è travestita in quella del fattore Felice, che guarda l’orto della casa di campagna di Michelino e vede disfarsi, in una col linguaggio, la sua memoria e – appunto – la propria stessa identità).

 

 

A guardia della manieristica ibridazione fra il massimo di letterarietà e il massimo di visceralità – che è il proprium di Mari – sta nel libro il palinsesto “fantastico” che ne fornisce tanto l’occasione, fittizia, che la cornice, effettiva: il leitmotiv del dialogo di chi scrive con un’accolita di spettri alquanto lovecraftiani, gli «Accademici della Cantina», Demoni del Profondo che – dopo le tante autobiografie traslate, oblique, allegoriche da lui in passato vergate – vogliono una buona volta «sapere chi sono, come se avermi sempre osservato non contasse nulla: l’idea è che io finga anche quando sono da solo, che mi muova e faccia gesti come uno che finge». Ora e una volta per tutte, invece, «interpreteranno la mia scrittura, e mi ci metteranno davanti come a uno specchio, e allora altro che impazzire, allora mi ricongiungerò tutto e per sempre all’angoscia che mi tempesta da prima che nascessi». A chi dice io, tali Accademici commissionano imperiosi quello che, per ironia della sorte, chiamano il suo «nuovo romanzo, per il quale hanno già scelto il titolo: Autobiografia»; è alle loro psichiche fauci insaziabili che Michele deversa le proprie «confessioni-offa», i paragrafi tormentosi della propria «autobiografia per i mostri». Tanto «il mio lievito romanzesco è nella forma, non nei fatti»: «quando è già nelle cose, il romanzo, perché infiocchettare?». Per esempio, dell’ossessione feticista così spesso ricorrente («tutti i miei libri ben di questo trattano, l’anima affidata alle cose e a quella cosa fissa che è il tempo»), dev’essere enucleata l’occasione “autentica”: la scena primaria, diciamo. Allorché ubbidente Michele si getta nell’anamnesi impavida, risalendo aux sources du poème sino all’oggetto che ben presto mostruosamente lievita, sino a farsi baricentro del testo e sua chiave ultima («un oggetto da fare il paio, come minimo, con lo slittino Rosebud di Citizen Kane!»). Al limitare dell’adolescenza, nei pressi della casa di Nasca, neghittoso Michelino ha preso a frequentare la «Trattoria Bergonzi», frusto se non equivoco «bar-vineria prestato all’occorrenza alla ristorazione». Dove però, un giorno fatale, appare «una creatura di sogno: una ragazza!». Attraente sì, la coetanea, ma volgaruccia anzichenò («un ossimoro strepitoso ed irresistibile: Dea, ma Volgare!»), issata com’è su «gambe, non altissime, e un po’ forti di polpaccio, ma erte sopra due zoccoli alti che mettevano in evidenza i talloni irrorati, rosa-acceso rispetto al biancore latteo della gamba». Quegli zoccoli – che la attraggono nell’aura landolfiana di Gurù, la donna-capra della Pietra lunare (1939, Adelphi 1995) – prevedibilmente ingigantiscono, nella psiche del manierista in erba, sino a farsi «potentissime, immagini del divino».

 

Ed è inseguendo l’immagine eterno-sfuggente, lolitesca, dell’innominata («Donatella-Ivana-Loretta», a seconda di fonti adiafore e parimenti inattendibili) ragazza della Trattoria Bergonzi che Michele conoscerà «il sesso mancato e dunque il sesso più vero, l’arresto del tempo, il ripiegamento: la solitudine. Ed i fantasmi». Sarà imbozzolendosi di questa materia di cui sono fatti i sogni, che diverrà scrittore: com’è detto, con quella che definisce la propria tendenza al «misenabismo» (da mise en abîme, ovviamente), rispecchiando il proprio destino contraddittorio nella prassi del nonno, scultore dilettante ossessionato dai culi femminili, che non si stanca di modellare in una «materia plasmabile», argilla molle «avvolta in strofinacci bagnati […], innaffiata quel tanto che gli stracci rimanessero sempre umidi», fino al momento in cui quella pasta sfoglia di ossessioni finalmente passi alla cottura in forno, irrigidendosi e finalmente solidificandosi in forma di simulacro inalterabile. Allo stesso modo, la personalità del nipotino tenta in tutti i modi di dissimulare la propria interiore mollezza sotto una corazza di studi e maniere, come il suo volto si maschera sotto la barba che si fa crescere, il prima possibile, nera e minacciosa: onde apparire un doppio, eh sì, del Tiranno-Padre: «casalingo, studioso, serissimo, apparentemente catafratto, con quella barba cattiva che mi invecchiava, in realtà morbidissimo, sotto, ammollito da tutte le mie lenzuola zuppe di pipì, un po’ come le argille che il nonno faceva rinvenire fra gli stracci bagnati».

 

È il destino che scandisce questa scrittura mercuriale, incredibilmente plastica ma, quando è il caso, dura come l’acciaio. Come nel finale scintillante e metafisico, alla maniera del miglior Mari d’antan: in cui ci si rispecchia – coi rispettivi, faustiani e benjaminiani nomi segreti – nell’immagine-feticcio della Ragazza Con Gli Zoccoli («se fai il bravo una volta o l’altra li rimetto per te»). E che, in ulteriore omaggio alle Cose-Genitori e al loro talento per le immagini, per la prima volta si affida anche a fotografie straordinarie, incastonate nel testo dopo essere state rapinate al più prezioso sacrario dell’infanzia. Fra tutte ossessiva, quella che è stata posta in copertina: nella quale si riassume, così mi pare, il senso di tutto il libro. Nello scenario del locus amœnus di montagna dove i Tre Demoni passano, come da decreto paterno, le proprie spartane vacanze estive, fisso in macchina guarda la Madre, le mani sui fianchi, un’espressione durissima sul volto. Frapposto fra lei e l’occhio di chi guarda, il settenne futuro-scrittore stende le braccia più che può, con un’espressione ancora più dura e minacciosa, nel «delirante conato di difenderla lui, come si evince dalla seguente fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”». 

 

 

Situazione serissima, nelle intenzioni, quanto irresistibilmente umoristica: data la sproporzione delle forze in campo. Ma, anche, perfettamente inattendibile. Perché come si potrà credere – pur cercando d’immedesimarsi nelle Demoniache usanze di Casa-Mari – che, nel pieno d’una crisi famigliare così intensa, qualcuno possa davvero pensare di metter mano alla macchina fotografica, allestendo un così idilliaco quadretto di famiglia? L’assoluta inverosimiglianza di una situazione, di contro, così esplosivamente “autentica” riassume con perfetto misenabismo, direi, l’ambiguità inesauribile di ogni autobiografia che sia, anche, grande letteratura. Come in questo caso.  

 

Michele Mari, Leggenda privata, Einaudi 2017, pp. 171, € 18,50; I demoni e la pasta sfoglia, il Saggiatore 20173, pp. 754, € 28; Gianfranco Baruchello e Michele Mari, Sogni, Humboldt Books 2017, pp. 152 col., € 30; Michele Mari e Francesco Pernigo, Asterusher. Autobiografia per feticci, Corraini 2015, pp. 109 col., € 16. 

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Erotico vs. sessuale. Una conversazione

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Questa conversazione è un estratto dal nuovo numero della rivista aut aut Prove di spiritualità politica.

 

L'idea di questo fascicolo nasce dal desiderio di condividere una riflessione sul rapporto tra “io” e “noi”: esiste un nesso tra la dimensione soggettiva e quella collettiva? Tra i processi di trasformazione personale e quelli in cui ci si raccoglie e si avanza insieme per provare a cambiare il mondo? Si tratta senz’altro – in ogni caso è l’ipotesi da cui siamo partiti – di uno dei problemi più acuti e sensibili del nostro tempo. Se provassimo per esempio a chiederci se, per fare filosofia e fare politica, sia davvero sufficiente “parlare” o “scrivere” di filosofia e di politica? È così che abbiamo deciso di provarci, cercando di condividere il più possibile questo esercizio attraverso le pagine di “aut aut”. Le prove cui si fa riferimento nel titolo del fascicolo hanno il sapore impreciso, balbettante, precario degli esercizi che precedono l’andata in scena; ma sono anche l’esperienza stessa del provarci, di averci provato o di stare magari ancora lì a provarci.
Pur rivisitando alcuni “luoghi” della ricerca foucaultiana, nel fascicolo la presenza di Foucault è una sorta di filigrana, e soprattutto l’uso che se ne fa è fondamentalmente centrifugo. Dallo psichiatra che riflette anche in termini soggettivi sulla sua esperienza di superamento del manicomio, alla criminologa che lavora a fianco dei detenuti accusati di “terrorismo islamico” nelle carceri belghe; dai rituali delle streghe neopagane americane, attive nel movimento no-global, al ricercatore che indaga sul movimento lgbt, intrattenendosi con uno psicoanalista sulla problematica articolazione tra identità militante e tecniche di sé; dallo storico che riflette sul senso del suo essere “foucaultiano”, alle riflessioni di un sociologo dinanzi alla “presa di parola” di un operaio dell’Ilva di Taranto, protagonista di una complessa riconfigurazione della sua identità personale e militante: zone d’intensità specifiche, ma in rapporto osmotico tra loro, nelle quali la riflessione sulla “spiritualità politica” prova a intrecciarsi con le esperienze concrete che essa permette forse di guardare sotto una luce diversa. [Di Vittorio, Manna, Muni, Troilo]

 

Nata nel 2009 dall’ambizione di dottorande e dottorandi di creare uno spazio di dibattito accademico e scientifico nell’ambito francofono su materie e oggetti di ricerca la cui accoglienza nelle riviste disciplinari di settore appariva ancora difficile, “Genre, sexualité & société” – dove l’intervista qui tradotta fu pubblicata inizialmente – è oggi una delle riviste francofone più riconosciute nel campo degli studi di e sul genere e sulla sessualità, sostenuta anche dal Centro nazionale della ricerca scientifica francese (cnrs). In un contesto di progressiva istituzionalizzazione di tali studi in Francia, il comitato di redazione della rivista decise di realizzare un numero tematico dal titolo Egologie. Si trattava cioè di interpellare personalità, ricercatrici e ricercatori che avevano contribuito all’affermazione della legittimità scientifica di tematiche un tempo considerate minori o, peggio, inopportune: il femminismo, l’omosessualità, il pensiero queer, la teoria politica lesbica ecc. Attraverso contributi ispirati dal metodo dell’ego-storia e interviste approfondite emerse come, ben prima dell’interesse manifestato dai vertici ministeriali e dagli organi dirigenti delle istituzioni scientifiche, a delineare i contorni di questo nuovo campo del sapere fossero anzitutto la determinazione e l’impegno di persone per cui lo sguardo analitico sulle questioni di genere e sulla sessualità andava di pari passo con una sorta di attivismo scientifico.

 

Tra queste e tra questi, Jean Allouch, psicoanalista lacaniano, ha svolto un ruolo chiave nell’importazione in Francia di autrici e autori pionieri nel campo degli studi gay e lesbici, trans e queer di origine nordamericana e non solo (tra cui Judith Butler, David Halperin, Lee Edelman, Mario Mieli), tradotti e pubblicati nella collana “Les grands classiques de l’érotologie moderne” delle Éditions et publications de l’École lacanienne (epel). A distanza di qualche anno, appare in maniera ancora più lampante come questa circolazione internazionale non si riduca a un semplice rifornimento bibliografico a uso “interno” di una nicchia di specialiste/i, ma implichi una profonda rimessa in discussione dei modelli analitici che definiscono i perimetri delle discipline accademiche e scientifiche. Non del tutto filosofici, non sempre rigidamente sociologici o antropologici, non solo storici o politici, i contributi di questi studies introducono un turbamento, un disturbo, uno scardinamento radicale – il trouble del titolo di Butler, per intenderci – nel campo dei saperi costituiti e riprodotti dalla settorizzazione disciplinare.

Salutare nell’ottica di una prospettiva critica, questa logica di ripensamento delle categorie concettuali in corso è, allo stesso tempo, ciò che ostacola il riconoscimento di tali studi e del loro contributo “rivoluzionario” al pensiero scientifico, ma anche l’accesso delle nuove generazioni di ricercatrici e ricercatori alla carriera universitaria. Non solo perché gli oggetti su cui lavorano sono considerati marginali, ma proprio perché, collocandosi all’intersezione di diverse tradizioni disciplinari e debordando dalle frontiere dell’economia generale del mercato accademico, sfuggono all’incasellamento peer-reviewed navigando spesso in una sorta di limbo inqualificato, né qui né altrove, da nessuna parte insomma. Il progetto della rivista “Genre, sexualité & société”, come di altre esperienze simili (si veda nel campo italiano il caso della rivista “About Gender – International Journal of Gender Studies”), nasce invece dalla convinzione che gli studi di e sul genere, gli studi sulla sessualità, queer e femministi, costituiscano – per riprendere l’espressione istituzionale – un settore disciplinare a sé stante e squisitamente transdisciplinare. Sarebbe forse utile che anche nel contesto italiano – in cui osserviamo una crescente presenza di ricercatrici e ricercatori che si collocano in una tale prospettiva, collegata a un crescente interesse da parte di laureande/i e dottorande/i per indagini e interrogativi di questo tipo – si aprisse una seria riflessione sulla collocazione scientifico-disciplinare di simili ricerche, se non addirittura sul sistema tradizionale di settorizzazione generale che definisce la politica accademica e la sua riproduzione.

 

La conversazione con Jean Allouch, con cui avevo avuto il piacere di collaborare per la traduzione francese da me realizzata del libro di Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, si sviluppa intorno a questa volontà di attraversare i concetti e i paradigmi sottoponendoli a una sorta di stretching intellettuale, da cui deriva anche, a tratti, una certa difficoltà a intendersi o a incontrarsi a metà strada. Laddove, in uno sforzo di analisi socio-politica, propongo ad Allouch di riprendere il discorso sul tema dell’identità affrancandolo da quello che percepisco come una sorta di “panico identitario” direttamente uscito, a mio avviso, dalla proposta di Foucault di leggere lo spazio della contemporaneità omosessuale come una traiettoria di normalizzazione disciplinare dell’identità gay, lo psicoanalista, partendo proprio dall’obiettivo di tracciare percorsi di resistenza al dispositivo della sessualità svelato dallo stesso Foucault, descrive i termini di un’“erotologia di passaggio”. Opponendo l’erotico al sessuale e lo spirituale all’identitario, Allouch va alla ricerca di un linguaggio altro, che faccia breccia nell’architettura grattacielistica delle norme sessuate e sessuali, fallicamente erette come espressioni della verticalità del soggetto dominante e del suo rifiuto strutturale dell’inclinazione – di cui discute, nel suo illuminante saggio, Adriana Cavarero.

 

Attraverso la sua proposta di fare della pratica analitica un esercizio spirituale, Allouch propone di rileggere il sapere psicoanalitico alla luce della critica queer della politica identitaria, disfacendo l’ambizione totalizzante del soggetto “psy”, anamnesizzato, diagnosticato e tassonomizzato da una voluminosa tradizione di manualistica psicopatologica. Si tratta cioè di fare del soggetto non il punto di partenza di un progetto teorico-politico, e nemmeno il punto di arrivo di un discorso esperienziale, bensì il punto di passaggio in cui si incrociano e si scontrano tensioni e contraddizioni, spinte libidinali, oggetti desideranti e desiderati, la cui dimensione spirituale consiste appunto in un continuo movimento che va e viene, inciampa e si contorce, spezzandosi e ricomponendosi in configurazioni polimorfe ed erotologiche di pensiero e di pratiche.

 

Accordandomi il beneficio di un supplemento discorsivo che questa premessa mi permette di formulare, sottolineerei come quella figura rigida dell’identità che Allouch oppone alla figura fluttuante della spiritualità, anche nei suoi effetti normativi, non costituisca, e non ha mai costituito, il punto di partenza o il punto di arrivo delle politiche minoritarie, bensì l’oggetto di un incessante lavoro teorico-politico caratterizzato da conflitti e divergenze, più che da omogeneità progettuali. L’identità, o meglio le identità lesbiche, gay, bisessuali, trans o queer, non stanno ai movimenti delle minoranze sessuali come la norma sta all’ordine sessuato e sessuale in una sorta di equazione sociale fondamentale. In questo senso, esse non sono particelle essenziali delle politiche sessuali, ma piuttosto oggetti e strumenti di un lavoro militante in continuo movimento e cambiamento. Che il lavoro identitario possa essere letto o attraversato da esercizi spirituali, riprendendo per esempio, come Allouch propone, le categorie esplorate dagli ultimi lavori di Foucault, è una questione che rimane aperta ed è, forse, la proposta che emerge da questa conversazione. [M.P.]

 

 

M.P. Attualmente dirigi la collana “Les grands classiques de l’érotologie moderne” per la casa editrice epel. Esiste una genesi comune di questo progetto, in seno all’École, oppure si tratta di un’iniziativa che potremmo definire “personale”?

J.A. Non è esattamente né l’una né l’altra. Io non ho mai progetti del tutto  “personali”. La categoria di persona, che ha dato luogo a ciò che si è chiamato “personalismo”, mi appare una delle categorie più infondate che esistano. Basta far risuonare la parola “persona” per far venire alla luce la sua incongruenza. La persona fa di ognuno un Augusto (l’“augusta persona”), oppure un essere morale (la “persona morale”), rispettabile (il “rispetto della persona”), o uno sterile soggetto giuridico (i “diritti della persona”). Tutta quest’impalcatura, che è allo stesso tempo sociale e linguistica, non resiste nemmeno un attimo di fronte al più piccolo granello di follia. E che dire della personalità? Potremmo mai fare l’amore con una personalità? Per non dire amare una personalità? A questo proposito a Lacan accadde una volta un’avventura particolarmente istruttiva. Dopo aver tentato di situare (ai tempi della sua tesi in psichiatria) la paranoia e la personalità in un rapporto di contrapposizione, si ritrovò a dover ammettere, quarant’anni dopo, che, al contrario, paranoia e personalità sono esattamente la stessa cosa. Insomma, lasciamo in panchina questa maschera che chiamiamo persona, la persona personaggio, e giochiamo il gioco di Ulisse di fronte al Ciclope, rendiamo la persona… nessuno.

Nel 1998 pubblicai un piccolo libro intitolato La psychanalyse: une érotologie de passage, che seguiva di qualche anno una serie di seminari in cui avevo sviluppato l’idea che l’esperienza analitica è fondamentalmente un’esperienza di ordine erotico, capace di produrre – in colui che vi si presta – una modificazione degli “investimenti libidici” (come li chiamava Freud). Una tale concezione dell’analisi – che sarebbe apparsa del tutto triviale agli occhi dei primi analisti, così come a quelli ormai chiusi di Lacan – conserva tuttavia un potenziale scioccante per tutti coloro (analisti inclusi) che sguazzano in quell’ambiente moralizzante che è diventata la nostra odierna Francia. Negli anni cinquanta e sessanta Lacan si confrontava con Bataille di nascosto, ma in compenso si rivolgeva pubblicamente a Sade, che commentava nei suoi seminari. Klossowski era già in tutte le buone biblioteche da qualche tempo, mentre poco più tardi Deleuze avrebbe pubblicato la sua prefazione alla Venere in pelliccia del caro Masoch. Per non parlare della letteratura e del cinema. Per me è dunque a quell’ambiente, a quel preciso milieu, che rimanda la parola “erotico”, che in questo senso si distingue nettamente dalla “sessualità” intesa come dispositivo culturalmente regolato. Infatti, diversamente da quel che se ne dice solitamente (Freud compreso), l’erotico non si risolve, non si richiude sulla morte – né sulla prima né sulla seconda. In luoghi e tempi differenti sono stati in molti coloro che hanno provato a riconfigurare l’esperienza dell’“erotico”. Come avremmo potuto trascurare le esperienze fondamentali apportate da questi “altri”, per quanto pericolose fossero per la tenuta delle teorie analitiche sulla sessualità? Un esempio su tutti è stato quello del transessualismo, che alcuni filosofi e militanti queer hanno completamente rivisitato, fino a costringere gli psicoanalisti – o almeno alcuni di loro – a farla finita con quella sciocchezza psichiatrica che pretendeva di ridurlo a una forma di psicosi. Ma potremmo anche menzionare, per restare sullo stesso registro nosografico, la messa in questione del concetto di perversione, o ancora, su un altro piano, quello di differenza (sessuale) rivisitato dall’homoità di Leo Bersani.

Solo un altro esempio, l’ultimo che mi è venuto in mente dal campo gay e lesbico. Il caso di Sandra Boehringer ha messo in luce, testi alla mano, il fatto che eraste ed eromene nella Grecia antica non funzionassero affatto come dei sostantivi, bensì come delle “attività”. Ciò rimette in questione la lettura lacaniana del Simposio di Platone, e tanto meglio, poiché lo stesso Lacan aveva finito per ammettere che l’uso che aveva fatto di questi termini per parlare dell’amore non funzionava.

Tornando ancora un momento a quegli anni, in cui in Francia è esplosa la questione dell’erotismo in opposizione alla sessualità, non posso non menzionare la Storia della follia e, con essa, Michel Foucault, che rappresentò un incontro decisivo per noi – e per tutti coloro che in quei tempi cercavano di parlare con le persone che una certa psichiatria, oggi come allora, rinchiudeva in caselle di fronte alle quali essa stessa restava disarmata. Curiosamente, Foucault è un riferimento comune del campo freudiano e di quello gay e lesbico, oltre a essere stato l’ispiratore – ricordiamo a questo proposito la celebre conferenza “Che cos’è un autore?”, alla quale partecipò lo stesso Lacan – di alcune delle elaborazioni lacaniane sul “discorso”. Infine, lo dico en passant, non possiamo dimenticare che, anche per Foucault, Bataille aveva un certo peso.

Ti direi quindi che è stato un certo rapporto critico nei confronti di Lacan ciò che ha permesso all’École lacanienne, e solo a essa tra tutti i gruppi che si rifanno a Lacan, di impegnarsi a far conoscere in Francia alcuni lavori gay e lesbici che ci interessavano e che siamo andati a “scovare” negli Stati Uniti. Una simile accoglienza nei confronti di questi lavori resta ancora minoritaria tra gli analisti lacaniani (per non parlare degli altri).

 

 

Tu parli di autrici e autori che, molto prima degli studi gay e lesbici francesi, avrebbero cominciato a mettere in questione il sapere psicoanalitico sulla sessualità e sull’erotismo a partire da una lettura altra, situandosi in un altrove teorico e forse anche pratico. Puoi dirmi qualcosa di più? Di chi parliamo? E, soprattutto, come hai o avete “scoperto” queste autrici e questi autori – per la maggior parte nordamericani – che per primi avete introdotto in Francia? Come vi è giunto questo “carico”?

Come? Un carico? Io la chiamerei piuttosto una ventata d’aria fresca, un alleggerimento, un buon incontro. Mentre il campo degli studi gay e lesbici è stato fin da subito, e resta ancora, ampiamente aperto alla psicoanalisi, se non addirittura dipendente da essa, fino a poco tempo fa in ambito freudiano gravava un pesante silenzio su tutti quei lavori che sono stati capaci di inventare, a partire dalla sessualità, un nuovo genere (se non addirittura generi diversi). Come si è creato il primo contatto tra questi autori e militanti lgbt e la psicoanalisi? È avvenuto attraverso la Grecia antica, da cui né gli analisti, né l’interrogazione gay e lesbica saprebbero allontanarsi. La prima opera “ponte” fu a firma di David Halperin, seguita poco tempo dopo da quella di John Winkler, tradotta da Sandra Boehringer (le cui recenti pubblicazioni testimoniano fino a che punto la Grecia antica resti una posta in gioco cruciale per la nostra contemporaneità).

Rispetto alla messa in questione della sessualità da parte del sapere analitico, mi verrebbe da dire che si tratta di un’operazione percepibile fin dalle prime pubblicazioni di Freud, le quali – è cosa risaputa, anche se oggi un po’ dimenticata – furono oggetto di attacchi molto violenti che arrivarono sino all’ingiuria (“pansessualista” si diceva). Tutto ciò, peraltro, non è mai finito, ne abbiamo avuto la prova molto recentemente in Francia. In ogni caso, ben più determinante della riscoperta della sessualità è forse l’inedita modalità di rapportarsi con il sapere – sempre nuovamente criticato, contestato, rimodellato – che il lavoro di Freud, e di Lacan dopo di lui, hanno rilanciato.

Fin dal principio della psicoanalisi questi moti, che oserei definire browniani, intorno alla questione della sessualità sono stati molto significativi. Non si trattava infatti soltanto di critiche provenienti dall’esterno, ma anche di quelle provenienti dai “secessionisti” della prima ora (Adler, Jung), e persino di quelle di coloro che – sforzandosi di elaborare nuove teorie e pratiche non ortodosse – prendevano le distanze da Freud restando comunque nella sua scia (Ferenczi, Rank, Klein, Reich). Talvolta c’è la tendenza a esagerare il presunto sobbollimento che ha sempre attraversato il sapere analitico e le sue varie correnti, la tendenza a vedere la storia della psicoanalisi come una serie interminabile di litigi. Personalmente credo che quest’accusa tenda a dimenticare che, proprio riguardo alla sessualità per esempio, nel campo freudiano l’accordo mantenuto per più di un secolo (e fino a oggi) su di essa sia piuttosto un segno di morte che di vitalità. Ciò non toglie, ovviamente, che ci sia un serio problema di ordine epistemologico riguardo alla questione della sessualità. Poiché, mi perdonerai il neologismo, si scivola facilmente dal “sobbollimento” alla “confusione”. È qui infatti che, anche riguardo alla sessualità, entra in gioco lo statuto, il ruolo del sapere analitico nella storia della razionalità occidentale.

 

Nell’ottica di una rivista che si chiama “Genre, sexualité & societé”, il termine “erotologia” potrebbe lasciare qualcuno un po’ perplesso. Come si è imposto questo termine? Come è avvenuto il passaggio dalla “sessualità” all’“erotico”, ammesso che tra questi due significanti ci sia effettivamente un salto? Come sei riuscito ad aggirare l’approccio foucaultiano alla faccenda – il famoso “dispositivo di sessualità” – mantenendo al contempo una posizione freudiana? Cosa si guadagna in questo movimento di disimpegno e dislocazione?

L’identificazione del “dispositivo di sessualità” porta in sé, potenzialmente, anche i semi del suo eventuale smantellamento. Una cosa che viene alla luce, che si trova esplicitata, è già altrove, non è più “attiva” come aveva potuto esserlo in precedenza. È esattamente ciò che è successo allo stesso Foucault, il quale si era stancato di scrivere i volumi successivi della storia della sessualità, e aveva ben presto imboccato una strada diversa, che peraltro non ha mancato di sorprendere molte persone. La celebre “svolta” foucaultiana dei primi anni ottanta (se di svolta si tratta) ha fatto problema ai suoi migliori lettori in Francia, che per questo motivo si sono scontrati a più riprese  – penso a Judith Revel, Frédéric Gros, Mathieu Potte-Bonneville e altri ancora.

Non potrebbe darsi che la “sessualità”, quale la concepisce una certa psicoanalisi, sia un impedimento, un ostacolo alla presa in carico della questione della soggettivazione (vedi l’ultimo Foucault), e che invece l’erotica – al contrario – sia un tipo di esperienza capace di aprire la strada a questo esercizio di trasformazione? Quando gli attivisti di Act Up urlavano contro la morte, vestiti tutti di nero, sul boulevard Saint Michel a Parigi, si trattava di aids, certamente, ma si trattava anche di una manifestazione che si ergeva contro una modalità di voltare le spalle alla morte di cui l’Occidente ha fatto la propria cifra fin dalla Prima guerra mondiale. E l’emozione violenta che, da spettatore, mi ha assalito quel giorno aveva a che fare anche con la bellezza di quel gesto che si riallacciava al primo Medioevo, in cui la morte non era ancora pensata come un’esperienza individuale né veniva, allo stesso modo di oggi, ridotta al silenzio. Di che ordine fu allora la mia esperienza di fronte a una simile manifestazione? Psichica? Oh, che mancanza di eleganza sarebbe definirla in questo modo! Sarebbe veramente grossolano chiamarla così! La definirei piuttosto un’esperienza simile a quella dei manifestanti di un corteo, indissolubilmente erotica e spirituale. Questo atto manifestava una condizione del tutto comune per i sieropositivi, te ne puoi rendere conto leggendo l’ultima opera di David Halperin uscita in Francia, che racconta di come la sieropositività abbia dato luogo, almeno negli Stati Uniti, a una cultura specifica in cui chiunque attraversi una situazione di lutto può riconoscersi: sguardo distaccato sul mondo, vivere come un moribondo che non crede più nell’avvenire, che non se ne immagina più responsabile; vivere come se la vita dovesse spegnersi a ogni istante. Tutto ciò ti permette di non considerare più la tua vita come fosse teleologicamente orientata verso un fine, spingendoti a vivere ai limiti della conoscenza: ti proibisce di sentirti padrone di ogni cosa e ti obbliga a chiederti, come fa il teorico queer Michael Warner commentando Halperin: “A quali condizioni vale la pena continuare a vivere?”, o ancora: “Puoi soltanto immaginare questo te che sarà sopravvissuto (agli amici, agli amanti?)”. La sottocultura “sieropositiva” ha dato vita a un rapporto con la morte la cui radicalità emerge tanto più nettamente quanto più la negazione della morte resta una costante della nostra cultura “normale”. In questo senso, colui che è in questa situazione è un thanatopos.

Lo strapotere della spiritualità cristiana, che offre al credente una vita eterna futura, è tale che non sappiamo più scorgere dove e quando sono all’opera delle spiritualità configurate altrimenti. Ecco un primo esempio che potrà stupirti: la pesca con la lenza. Di che cosa si tratta? Di uno sport? Di un’industria? Di un comportamento da cittadino irresponsabile, se per esempio la si svolge nei giorni in cui si dovrebbe andare a votare? Certamente, ma soprattutto, e in primo luogo, si tratta di un’esperienza spirituale: lo dimostrano alcune splendide pagine che Pierre Bergounioux dedica a questo esercizio. Mi pare ovvio che qui occorra l’aiuto della letteratura “specializzata” per intravvedere il carattere spirituale della pesca con la lenza, eccetto probabilmente che per i pescatori. La vita dei santi è forse più accessibile… è quasi banale scorgere oggi in santa Teresa d’Avila, e in molti altri mistici, l’intreccio tra un’erotica e una spiritualità. Più vicino a noi ti citerei Pasolini, e non solo Salò, ma tutto Pasolini.

Eccoti un altro caso non convenzionale di “spiritualità”. I bambini di oggi hanno delle piccole consolle grazie alla quali – o per colpa delle quali, dipende – si trovano identificati con un minuscolo personaggio e passano le ore a cercare di raggiungere un tesoro protetto dalle mura spesse di un castello o da un esercito di soldati che tentano di ucciderli sbarrandogli la strada verso il prezioso tesoro. Di cosa si tratta? Perché tanta passione, tante ore “perse” dai ragazzini in una simile pratica? Non sapremmo rispondere se non confrontando questo gioco fintamente guerriero (anche se lo è a tutti gli effetti) con la prima mistica ebraica (la Merkaba), quella dell’accesso al trono della gloria divina, al quale si oppone tradizionalmente una moltitudine di guardiani e di demoni.

 

La genealogia che tentiamo di seguire ci riporta costantemente al gesto inaugurale del Foucault storico della follia e della sessualità, ma anche del Foucault archeologo del sapere. I gay and lesbian studies nascono nello stesso luogo in cui Foucault li ha, per così dire, provocati. Tuttavia tu sostieni che lo stesso Lacan, tramite il suo “non esiste rapporto sessuale”, attraverso il suo gesto di destituzione delle categorie implicate nel sedicente “rapporto sessuale” – come per esempio nel caso dell’Uomo e della Donna – abbia aperto una breccia all’interno della psicoanalisi. Tu consideri infatti questa parte dell’indagine lacaniana come un invito, ovviamente a posteriori, ad approfondire questo tipo di studi. Mi sembra però che un simile invito, nel campo psicoanalitico, resti ancora disatteso. Mi pare infatti che solo Teresa de Lauretis, teorica queer, non tema oggi di debordare dal proprio “ambito” strettamente freudiano. A questo riguardo ha pubblicato recentemente Pulsions freudiennes. Psychanalyse, littérature et cinéma. Qual è la tua lettura della resistenza interna prodotta dalla militanza gay e lesbica rispetto a certe forme di sapere che, come la psicoanalisi, almeno in ambito francofono, erano state abbandonate dai movimenti lgbt?

Come sai all’interno della psicoanalisi il campo gay e lesbico è diviso: alcuni, tra cui Teresa de Lauretis, Leo Bersani, Judith Butler, Lee Edelman, Diana Fuss, Earl Jackson, Tim Dean, Mario Mieli, vi trovano utili elementi di sapere, mentre altri – a cominciare da David Halperin – hanno elaborato un’esperienza “gaia” della soggettività senza nessun ricorso alla psicoanalisi, ergendosi addirittura, e con ottime ragioni, contro il discorso psicoanalitico, o meglio, contro un sapere psicoanalitico considerato acquisito e suscettibile di essere applicato logico-deduttivamente. Vorrei anche farti notare che gli americani hanno pochi mezzi per studiare Lacan, eccetto coloro che lo leggono in francese e che non si accontentano di traduzioni (erronee) dei seminari pubblicati e poi tradotti in maniera discutibile, procurandosi piuttosto le stenotipie o le trascrizioni meno approssimative che circolano. La difficile reperibilità, la difficoltà e la quasi intraducibilità dei testi di Lacan hanno indotto molti teorici queer americani a servirsi di altri riferimenti: Leo Bersani, per esempio, tra quelli per cui la psicoanalisi è decisiva, preferisce usare i lavori di Jean Laplanche (e ovviamente di Freud) piuttosto che quelli di Lacan, non solo per la ragione appena ricordata, e quindi per una giusta prudenza, ma anche perché la dottrina laplanchiana sembra offrirgli risposte più pertinenti rispetto alle sue domande. La responsabilità di questo stato di cose deriva, in larga parte, dal fatto che Lacan non ha restituito un lavoro di sistemazione critica dei suoi testi, né ha messo a disposizione dei lettori degli studi compiuti, esaustivi e degni di fede, molto diversamente da Foucault. Quando vediamo ciò che circola negli Stati Uniti tra i ricercatori lgbt sotto l’etichetta “pensiero lacaniano” a molti di noi, che siamo stati suoi allievi, cadono letteralmente le braccia… Ti devo menzionare Julia Kristeva? Lo sto facendo ora…

Non bisogna tuttavia insistere troppo sulle incomprensioni d’oltreoceano; gli europei forse non hanno fatto di meglio se è vero che, persino in Francia, niente assicura che l’insegnamento di Lacan sia stato poi davvero così ben recepito persino dai suoi stessi allievi. Ci si è affrettati a farne un “sistema di pensiero” (ti citerei Élisabeth Roudinesco), si è medicalizzata la sua clinica (è il caso dei gruppi lacaniani più importanti dal punto di vista numerico), se ne è tratta una morale (i media adorano quest’aspetto – gli analisti lacaniani a pieno titolo che fanno lezione al popolo, ed è anche ciò che predilige Eribon), lo si è sposato surrettiziamente con alcune religioni, in particolare cristianesimo ed ebraismo. Ma la questione, che ho intravisto solo da poco, per la precisione dopo una conversazione con David Halperin, è un’altra. Mi sono sorpreso a dirgli, mettendomi in quella posizione di visionario che detesto, che la sovversione gay, lesbica, trans, ai suoi inizi, non aveva ancora sputato il rospo. Bisogna imputare all’urgenza dell’azione politica (che resta decisamente d’attualità, lo sai bene, sia sul piano legislativo che sanitario) questa specie di blocco che ho intravisto? Dovresti essere tu a dirmelo! Di qualunque cosa si tratti, probabilmente è in queste dichiarazioni, in queste prese di posizione che si fanno attendere, che Lacan potrebbe servire. È stato lui in fondo ad aver compromesso la distinzione uomo/donna, a smantellare il rapporto sessuale; e potremmo interessarci anche al suo piccolo oggetto a per ripensare l’erotico da un punto di vista al contempo minoritario e specifico. Capisco se, ascoltando tutto ciò, mi troverai delirante. Tuttavia Freud stesso, alla fine della sua vita, era giunto a un’apertura di questo tipo (e Lacan condivideva la sua affermazione, insorgendo contro il silenzio delle donne rispetto alla loro posizione soggettiva). La questione decisiva è la ricusazione della femminilità (Ablehnung der Weiblichkeit) da parte di entrambi i sessi. Il fatto che la femminilità fosse barrata da un “non ne voglio sapere nulla” radicale manteneva la sessualità, agli occhi di Freud, allo stato di enigma.

 

Nel tuo libro Le sexe du maître ci mostri contemporaneamente sia l’incontro mancato degli studi gay e lesbici con la psicoanalisi, sia la tua posizione decisamente critica rispetto alla psicoanalisi. Inoltre, in La psychanalyse est-elle un exercice spirituel? invitavi la psicoanalisi e “ciò che essa produce a livello di sapere” a fare i conti con “una razionalità della quale non ha né l’esclusività, né una particolare padronanza”. Da dove proviene questa “razionalità esterna” che mette in questione le  resistenze teoriche e pratiche della psicoanalisi?

Nella conversazione con Halperin che ti citavo poco fa mi sono permesso di fargli notare che non poteva sottrarsi dal luogo, culturalmente eccentrico, dal quale parlava. Non mi riferisco al suo status di universitario (che certamente conta), ma a quello di un gay così come lo rappresenta, anche se parzialmente, il film Tea and Sympathy (che Lee Edelman riprende ironicamente titolando in maniera umoristica uno dei suoi articoli Tea-room and Sympathy). Halperin non dissocia il suo status di antichista e di militante, e la sua militanza è capace di mostrare, come nel caso del suo studio sull’amore in Platone, dei tratti che sarebbero rimasti nascosti senza un approccio così fuori dagli schemi. Rispetto a queste posizioni, altri ricercatori lgbt sono indissolubilmente eruditi e militanti. Per questo, aggiungerei, il risultato di quel lavoro non è legato esclusivamente a una comunità, ma al contrario si rivolge a ognuno, a me come a chiunque. E ciò vale anche nel campo freudiano: ciò che può emergere, come sapere, dopo l’esperienza analitica non è destinato ai soli analisti. Un Winkler, anche lui grecista e militante, non potrebbe essere soddisfatto se i suoi lavori fossero recepiti e apprezzati solo dalla comunità gay e lesbica. Si tratta di dimostrare l’interesse e la pertinenza di simili studi anche per gli antichisti e, ancor più in generale, per chiunque. C’è del “comune” nella “comunità”, l’in-comune non è altro, in ultima analisi, che ciò che ci accomuna tutti. Solo lì possiamo incontrare una forma, non religiosa e personale, di giudizio universale. Ma questo in-comune, poi, esiste davvero?

 

Il tuo proposito di ripensare la psicoanalisi nel senso di una “spi-coanalisi”, “nome che elimina lo ‘psy’ e gli sostituisce lo ‘spi’ di spirituale”, potrebbe apparire “indecente” poiché – come fai vedere nel tuo libro – mette al centro la passione di Freud, e dello stesso Lacan, per lo spiritualismo se non, addirittura, per lo spiritismo. Quando scrivi che “il movimento suscitato da Foucault un po’ ovunque (Europa, Giappone, America Latina, Stati Uniti)” è un “movimento spirituale”, e quando dici – con David Halperin che “i movimenti femministi, omosessuali, lesbici, trans, bi, queer, sono altrettanti movimenti spirituali”, non hai la sensazione che questa sia un’affermazione un po’ “indecente”? Indecente non tanto nei riguardi di questi movimenti, ma piuttosto nei confronti della filiazione foucaultiana che reclamano. Non ritroviamo forse, di nuovo, come diceva Hocquenghem, in questa spiritualità “identitaria” la riproduzione normativa di quelle categorie “psico-poliziesche” che ci illudiamo di aver finalmente liberato dal loro alone di mostruosità? Non pensi che il rimando teorico al Foucault dell’Ermeneutica del soggetto rischi di produrre un oblio nefasto del Foucault della Storia della sessualità? Detto in altri termini, mi sembra che la proposta “spi-coanalitica”, iniettando la spiritualità nella sessualità, cacci dalla porta la dimensione identitaria per farla rientrare però, prontamente, dalla finestra sotto forma di movimento spirituale.

Non penso che Freud e Lacan siano stati attratti in modo particolare dallo spiritualismo o dallo spiritismo. Per Freud si trattava evidentemente di allontanare il più possibile la psicoanalisi da queste pratiche, per metterla piuttosto all’ombra della scienza. Dimmi se sbaglio quando affermo (1) l’esistenza di una frattura tra i lavori di autori come Mieli, Pasolini o Gil-Albert e quelli di molti ricercatori lgbt contemporanei. Si tratterebbe di una sorta di rinuncia, in particolare nel caso di Gil-Albert, dell’idea di una comunità “omo”. Interpellato a questo proposito, Halperin mi ha segnalato che esiste una partizione tra un’omosessualità pensata in senso comunitario e un’altra che, al contrario, fondandosi su Gide e Hocquenghem, pensa l’omosessualità fuori dalla comunità – quest’ultima corrente, in cui si situano Bersani ed Edelman, è detta non a caso “antisociale”. Qual è dunque la posta in gioco di tale scissione?

Sbaglio ancora se affermo (2) l’esistenza di una cesura operata in seno allo stesso Foucault, come se tutto si fosse richiuso col suo volume sulla storia della sessualità? Tanto da far sì che ciò che è venuto dopo sia stato giudicato di troppo, o addirittura malvisto? Davvero L’ermeneutica del soggetto non ci dice nulla rispetto all’omosessualità? Io lì vedo, al contrario, delle possibili aperture e delle possibili strade da intraprendere per attraversare ciò che evocavo poco fa, cioè questa sorta di arresto del movimento lgbt,  questa sospensione di una sovversione che non ha ancora detto la sua ultima parola né, probabilmente, quella decisiva.

È probabile d’altronde che questo arresto sia, in qualche modo, una caratteristica di tutto ciò che è racchiuso dal bel nome di “movimento”. Così fu anche, in fondo, per la psicoanalisi. Un movimento si scontra con ciò che gli si oppone (la tavola resiste alla pressione della mano fintanto che la mano esercita una pressione); ma un movimento ha anche a che fare con la resistenza interna che induce i suoi militanti a non osare al di là di un certo limite (variabile, beninteso, a seconda dei casi). Non è casuale che Foucault, in quello che sarà il suo ultimo corso, sceglierà il tema della parresia, del rischio, del coraggio implicato nel dire la verità. Arrivo al cuore della tua critica, ammesso che io sia riuscito a coglierla per bene, dato che è sottile. Ti mi imputi di iniettare la spiritualità nella sessualità. Oh Dio, il mio potere non è così grande! Non c’è bisogno di nessuno affinché l’erotico – cioè una scopata se preferisci, ma anche il cibo, l’esperienza musicale, la defecazione intesa in senso esteso (ecco gli oggetti piccoli a) – sia compreso come un’esperienza indissolubilmente spirituale e corporea. Abbiamo perso molto sostituendo “psichico” a “spirituale”; io cerco semplicemente di seguire questa china risalendola, come diceva Gide.

Tu mi sembri temere il sopraggiungere di un nuovo stile identitario che scavalchi le questioni e le lotte politiche, ispirate dalla Storia della sessualità, in direzione di un disimpegno “spirituale”. E forse hai ragione, potrebbe essere quello che sta accadendo. Ogni lotta politica si svolge in fasi e tempi anche molto differenti tra loro, e a volte deve addirittura dotarsi di speciali paraocchi. Tuttavia non è così semplice. Durante un incontro avuto nel 1970 con un amico psicoanalista, lui mi raccontava di quanto queste questioni surriscaldassero i luoghi angusti dell’École freudienne: “Non è più il momento di interessarsi alla teoria. Lacan ci ha fornito ciò di cui abbiamo bisogno, e ci basta; oramai si apre il tempo della politica”. Queste parole consumarono la nostra separazione. Ora, che ne è trent’anni dopo? Il gruppo al quale il mio amico si è unito si è in effetti esteso considerevolmente, non ha prodotto nulla sul piano della ricerca, ma soprattutto ha rovesciato l’esercizio analitico in una pratica medica. Questo in nome di Lacan! Rispetto al divario politico che indichi tra la Storia della sessualità (politicamente utile) e L’ermeneutica del soggetto (da mettere politicamente da parte), sono su una posizione diametralmente opposta e credo anzi che, solo non trascurando la loro possibile articolazione, la questione dell’identità potrà un giorno essere ripensata in maniera originale e condurre addirittura – chi può dirlo? – a lotte politiche più vive e intelligenti di quelle agite fino a oggi.

 

Riprendo la domanda precedente sotto un’altra forma. È certamente più attraente, ideologicamente parlando, combattere la sovrapproduzione psichiatrica di sapere sulla sessualità agitando lo spettro di una resistenza nei confronti delle identificazioni forzate. Ma è molto più complesso e costoso mantenere una vera vigilanza critica e autocritica su questi temi. Occorre constatare infatti che il rifiuto foucaultiano di cedere all’ontologia identitaria dell’omosessualità all’epoca non era nuovo. Guy Hocquenghem, dicevo prima, si era già dedicato a questo esercizio critico, mentre altrove la “critica omosessuale” di Mario Mieli già si batteva dall’interno per far esplodere le cristallizzazioni identitarie. Questi atteggiamenti non si situano nella genealogia scientifica della parola “omosessuale”, quanto piuttosto nella stessa pratica militante, vale a dire nelle opzioni e nelle scelte adottate dalle e dai militanti. Allo stesso modo, il panico identitario mi sembra dislocato, nel senso in cui, se prendiamo per esempio la sovraesposizione identitaria dei movimenti lgbt come il segno o il sintomo della normalizzazione in atto dell’omosessualità, rischiamo di perdere la profondità storica del contesto in cui si gioca l’integrazione sempre più spinta dell’omosessualità nel regime politico della democrazia.

Non credi che voler “sfuggire” alla dimensione identitaria costitutiva dell’omosessualità, aggirando i fenomeni di affermazione identitaria ai quali dà luogo e prendendoli per dei fenomeni “spirituali” renda più complessa la loro indagine storico-politica, e quindi anche una presa di distanza da queste identificazioni?

Tu sei posizionato meglio di me per notare la negligenza attuale rispetto alla “profondità storica” di cui parli. E te lo confermano, se ce ne fosse bisogno e malgrado qualche eco non trascurabile, i pochi effetti della pubblicazione in Francia di Mieli, che hai tradotto. Ma cosa intendi con parole quali “dimensione”, “costituzione”, “identità”? Di quale “dimensione”? E che cos’è una “dimensione identitaria”? Non comprendo cosa intendi con dimensione identitaria, mentre l’espressione “fenomeni di affermazione identitaria” mi pare chiara e distinta. Resta il fatto che non puoi affermare che pensare il movimento gay e lesbico (lo stesso termine fu utilizzato per la psicoanalisi: Bewegung) come un movimento spirituale significhi farne automaticamente una dimensione identitaria e costitutiva dell’omosessualità. La domanda è infatti anche questa: che concezione hai della spiritualità per pensare che essa renderebbe impossibile la comprensione dei fenomeni di affermazione identitaria? Suppongo, al contrario che una nuova figura della spiritualità, quella che ci proviene dall’Ermeneutica del soggetto, renderebbe tali fenomeni accessibili in modi del tutto inediti e costruttivi – come si vede per esempio nel lavoro di Mark Jordan, che mostra come la categoria di “sodomia” sia stata un’invenzione della teologia medievale cristiana, una pratica eminentemente spirituale poiché fondata sul concetto di contro-natura. Non c’è, in questo caso, la profondità storica che auspicavi?

Ti concedo di aver tagliato forse un po’ con l’accetta queste nozioni. Ma sono convinto che il vero problema sia proprio questo: il fatto che non riusciamo a definire con un minimo di chiarezza l’identità militante non implica che ce ne dobbiamo sbarazzare. O, al limite, potremmo farlo solo a pegno di un’incomprensione storica. Voglio dire che la spiritualità di cui stiamo parlando, e che si tratterebbe di prendere in conto, resta un’esperienza in dialogo con la dimensione identitaria. Con “dimensione identitaria” mi riferisco a una condizione storica fondamentale, che situa volente o nolente l’omosessualità nel solco tracciato dalla “fuga dalla religione”. Questa fuga, radicalmente contemporanea, ha una forte struttura identitaria e attribuisce all’omosessualità un discorso, caratterizzato semanticamente proprio dal concetto di identità, che i militanti e le militanti lgbt si sono lungamente impegnati a produrre e riprodurre.

Voglio dire che, da un punto di vista politico, il movimento lgbt nasce proprio in un contesto contrassegnato da questa petizione identitaria costitutiva. Ma il problema è proprio questo, poiché oggi il dispositivo di sessualità in cui siamo immersi è a tutti gli effetti un dispositivo identitario; ed è per questo che personalmente cerco di restare il più vicino possibile al Foucault della Storia della sessualità– anche se si tratta certamente di una vicinanza che è anche una vigilanza critica, non tanto legata alla prese di posizione politiche, ma a questioni di intelligibilità storica dei suoi lavori. Ti dirò, esattamente al contrario della partizione che mi hai attribuito, che ritengo la Storia della sessualità politicamente “inutile”, da un punto di vista di azione politica, ma storicamente inattaccabile; mentre ritengo L’ermeneutica del soggetto politicamente e praticamente molto feconda, ma storicamente inutile per centrare il momento storico che stiamo attraversando oggi.

Infine, se capisco bene cosa stai dicendo, spiritualità e identità potrebbero essere considerate come due facce della stessa medaglia, nel senso che si tratta di individuare forse una meccanica capace di mettere in tensione, e al limite di confondere, le due facce di questa medaglia. Ma è poi davvero possibile mantenere questo stato costante di tensione? Come possono davvero funzionare insieme identità e spiritualità? Saresti d’accordo se ti dicessi che gli autori che avete scelto per la collana sull’“erotologia moderna” della epel sono accomunati dal fatto di tenere in tensione queste due facce e dal tentare, tra di esse, delle permutazioni e delle sovrapposizioni ogni volta genuinamente inedite? Non vedi in questi gesti epistemologici definirsi una meccanica spiritualità-identità nella cui tensione riecheggia quella foucaultiana del rapporto piacere-potere?

Personalmente credo che fare dell’identità e della spiritualità due facce della stessa medaglia significherebbe perdere di vista entrambe. Francamente non saprei dare il minimo senso a un supposto dialogo tra di esse. In psicoanalisi, l’identità dell’analizzante è in gioco, in vivo, nella pratica analitica; o meglio, sono le sue identificazioni a essere in gioco. Perché la psicoanalisi non ha dovuto aspettare i queer per cessare di parlare di identità (statica), interessandosi piuttosto alle identificazioni (dinamiche, fragili, risultato di investimenti libidici e odiamorosi).

Bisognerebbe forse, piuttosto, prendersi il tempo di studiare come ognuna delle Scuole della Grecia antica abbia potuto creare una modalità inedita di spiritualità dandole un nome e quindi un’identità: cinici, stoici, epicurei, pitagorici, platonici, e a volte, come ci ha mostrato Pierre Hadot, addirittura degli incroci. Devo dirti quindi che non sono d’accordo nel considerare storicamente inutile, nonostante le virgolette di cui hai dotato questo aggettivo, L’ermeneutica del soggetto. Perché è un lavoro che mi ha aperto una vera e propria pista, che considero tra le cose più utili e importanti che mi siano capitate nella mia vita intellettuale, e che mi ha dato il coraggio di provare a posizionare la psicoanalisi fuori dal campo minato della “funzione psy”, dove purtroppo la mantengono ancora non pochi – e poco virtuosi – interessi.

Mi permetti, per concludere, una piccola impertinenza e una piccola inversione?  La spi-ritualità, su cui hai tanto investito, non rappresenta forse – in alcune delle sue versioni “gaie”, una sorta di psy-ritualità? Non prende cioè la forma di una pseudo-critica, tutto sommato nuovamente “psy”, che non riesce a farla finita con l’eredità psicoanalitica della riflessione sull’omosessualità, e che ripete in fondo sempre lo stesso ritornello, la stessa “ritualità” critica che si pavoneggia di essere sfuggita alla psicoanalisi, mentre resta al contempo totalmente incapace di fare i conti con il fatto che l’omosessualità è stata, e rimane, produttrice di identità e persino, non temo di dirlo, di spiritualità? Mi pare che nella tua risposta di prima emerga il desiderio di non fuggire da questa tensione, ma di provocarla e di provare ad abitarla. Ma qual è il campo di battaglia di questa tensione, dove si produce effettivamente?

Di fatto, ho opposto la spiritualità alla psy-ritualità nel libro che ha reso possibile la mia lettura di L’ermeneutica del soggetto. La tua domanda ha quindi un certo valore, che giustifica la sua pertinente impertinenza. Il mio invito a sottrarre la pratica analitica dalla funzione psy, come sai, non ha molte chance di essere intesa, se non da una sparuta minoranza, anche a causa del moralismo imperante nella psicoanalisi di oggi. Tutto ciò non toglie ovviamente che il problema sia proprio questo, e che interessi allo stesso modo la psicoanalisi, la psichiatria e la psicopatologia.

Ti propongo due esempi, che mi sembrano dei luoghi ben reali in cui si produce la tensione di cui parli. Recentemente ho avuto notizia di come si comporta uno psicopatologo affermato quando si trova in posizione di analista, cioè quando si ritrova ad accogliere una domanda di psicoanalisi. Egli si impegna, in primo luogo, a elaborare una diagnosi, per poi decidere anche che cosa, dell’analizzante, è analizzabile e che cosa non lo è. Che brav’uomo il nostro psicopatologo… Ma che cosa accade in realtà in questa dinamica? Semplicemente che, non appena l’analisi comincia ad avvicinarsi al non-analizzabile, cioè quando inizia a farsi “rovente”, il nostro amico la dichiara… terminata. La dichiara terminata nel momento in cui dovrebbe essere veramente messa in gioco, o peggio, appena prima che possa davvero cominciare a essere giocata, capisci? Tutto ciò è un errore, perché – per certi aspetti – la psicoanalisi ricorda la medicina galenica, che faceva della crisi – prodottasi all’acme della malattia – una chance di guarigione. Questo tagliar corto non vuol dire altro se non che non c’è stata la minima analisi, ma d’altronde non c’è molto da stupirsi, perché è assurdo che uno psicopatologo possa esercitare come psicoanalista.

Ora ti racconto l’altro esempio. Le parole “psichiatra” e “psicopatologo” sono parole molto rispettate, parole che fanno paura, al punto tale che la maggior parte degli specializzandi non riesce a vedere tutti i pregiudizi attraverso cui sono fabbricate queste parole “alte”. Se lo facessero, ne ricaverebbero delle gran sorprese. I manuali e i corsi attraverso cui si insegna la psichiatria sono costruiti appositamente perché l’aspirante non si confronti mai con i pregiudizi costitutivi del sapere psichiatrico.

Questa è proprio una questione che fa saltare la mosca al naso: quanto vale una disciplina che ha creduto per anni e anni che la degenerazione fosse uno stato osservabile, e per di più meritevole di essere elevato a paradigma scientifico? Che valore ha una disciplina che ancora nel secondo dopoguerra ha usato – e abusato – della lobotomia, per poi far piombare un silenzio tombale su questo osceno episodio della propria storia (come racconta Philippe Pignarre), e che oggi – nell’auto-storia che racconta a se stessa – attribuisce la felice invenzione della psichiatria istituzionale a degli antifascisti. Una disciplina che, più recentemente, ha preteso di definirsi a-teorica e che oggi si fonda sugli stessi principi classificatori usati dalla catena di surgelati Picard per stoccare la propria merce – come non ha mancato di rilevare lo schizofrenico Marco Decorpeliada. Non ti sembra che in tutto questo manchi proprio la più piccola ombra di spiritualità?

Ma torniamo alle parole grosse, come la parola “dissociazione”. Dire di qualcuno che è dissociato, oggi, significa farne automaticamente uno schizofrenico, ossia una categoria nosografica su cui lo stesso Lacan si è riservato la prudenza di non sbilanciarsi. Ma se ti dicessi che altri analisti, che come me hanno a cuore la questione della spiritualità, hanno approcciato la questione della dissociazione in maniera completamente diversa? Sudhir Kakar, psicoanalista indiano e traduttore in francese del Kamasutra, ha messo in luce per esempio come le cure ottenute dagli interventi degli sciamani si producano proprio grazie a una pratica indotta di dissociazione, ossia attraverso quella che comunemente chiamiamo trance.

Il suo lavoro sulla spiritualità e la sua comparazione della psicoanalisi con le pratiche curative sciamaniche – che hanno fatto parte di tutte le culture del mondo – ci fanno capire fino a che punto la dissociazione sia un concetto che va rivisto e ripensato profondamente. Visto il numero di schizofrenici diagnosticati in Occidente, mi sembra proprio un tema che non può restare ancora a lungo inevaso.

A volte immagino Lacan, vicino alla morte, che si chiede che cosa ha davvero ottenuto. Lo immagino pensare al futuro del suo insegnamento, all’accoglienza, alla difesa e alla ripresa che gli psicoanalisti – e non solo – hanno riservato al suo insegnamento. Non me lo immagino affatto contento; anzi, lo immagino profondamente insoddisfatto, e proprio a partire dai suoi allievi più vicini, compresi quelli che – nei momenti più drammatici – si è trovato a valorizzare e ad eleggere come suoi successori. Il mio pasticcio non ha alcuna speranza di fare meglio di lui, che aveva ben altre doti e altri mezzi, e devo dire che la tua domanda me l’ha ricordato. Certo, se riuscissi a produrre col mio lavoro qualche piccola trasformazione locale, capace magari di essere recepita da qualche vero analista, allora potrei dire almeno che il mio lavoro non è stato completamente nullo. Eccoti il conto.

 

Traduzione dal francese di Andrea Muni e Carla Troilo.

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“In principio è la rêverie”, scrive Gaston Bachelard (1884-1962) ne L’aria e i sogni (1943). Se volessimo tradurre il termine francese, dove si conserva il richiamo al sogno (rêve), potremmo ricorrere a “fantasticheria sognante”, l’abbandonarsi del nostro animo alle seduzioni dalle immagini. L’ammissione di Bachelard è l’esito di un percorso filosofico che dall’iniziale rifiuto dell’universo dell’immaginario sfocia nel riconoscimento della rêverie come dimensione originaria dell’essere dell’uomo al mondo. Da storico delle scienze ed epistemologo, Bachelard aveva condannato nell’immaginazione la facoltà che mantiene l’uomo immerso nella natura, legato alle pulsioni dell’inconscio in cui si manifesta il caos emozionale. Le immagini e le metafore a cui fa costante ricorso la pre-scienza rappresentano nella psiche tendenze istintive che sorgono dall’interiorità corporea.

 

Sono dunque espressioni delle forze biologiche; il ricercatore che si affida ai dati immediati dei sensi proietta sulle cose germi onirici, le incrosta con le passioni che agitano il suo animo. L’immaginazione semina nuclei d’inconscio nella percezione degli oggetti; procede per analogia, accosta per somiglianza due dati, ne razionalizza uno con l’immagine di un altro (ad esempio, l’immagine della polvere nel costituirsi dell’atomismo), ma scambia la metafora per una corrispondenza oggettiva. Ecco perché tutte le immagini sono ingannevoli; costituiscono “ostacoli epistemologici” che vanno eliminati nel progredire delle scienze, col ricorso a quella che la Formazione dello spirito scientifico (1938) definisce una “psicoanalisi della conoscenza oggettiva”, una sorta di crociata iconoclasta per sgombrare dalla razionalità le immagini seduttive che vi si sono insinuate.

 

Esemplare in tal senso è il caso dell’alchimia. Nella pre-chimica che sopravvive fino al Settecento, le operazioni sulla materia, mosse dal fine ultimo di trasformare metalli vili in oro, sono simboli del processo d’iniziazione spirituale, in cui la materia è chiamata a purificarsi insieme all’anima stessa del ricercatore. Nei vaghi concetti del sogno alchemico, ogni fenomeno viene tradotto in termini viventi, la biologia del corpo diventa referente per spiegare la realtà fisica dell’inerte. “La parola vita è una parola magica”, scrive Bachelard: è una parola valorizzata, non descrive né spiega, enuncia e formula valori e credenze. Le reazioni fra le sostanze chimiche sono interpretate nella forma di relazioni sessuali, nei termini delle “affinità elettive” che Goethe ricorderà nel suo romanzo; il ricercatore è un voyeur che vuole “svelare” la natura intima dei corpi, vuole “penetrare” quanto si nasconde nel profondo, vuole accoppiare il principio maschile e quello femminile. In un universo governato da processi organici – digestione e nutrizione, concepimento e generazione –, le pietre preziose attendono nelle viscere della Terra di compiere le loro metamorfosi. 

 

Se nella Formazione dello spirito scientifico la ragione presume di ricondurre alla propria luce l’oscurità dell’immaginazione, in quello stesso anno 1938, Bachelard dà alle stampe la Psicanalisi del fuoco. È il testo con cui l’immaginazione inizia la conquista di una dimensione autonoma, diviene una contro-luce, opposta ma complementare rispetto alla ragione. L’uomo completo abita il giorno e la notte, vive la realtà della scienza ed anche l’irrealtà del sogno – o meglio, si tratta in entrambi i casi di surrealtà, cioè di costruzioni del soggetto. Non possiamo limitarci a pensare il mondo, abbiamo anche bisogno di sognarlo e cantarlo; e nei suoi ultimi libri, Bachelard ritiene che la coscienza umana acceda ad un cosmo puro e felice nella rêverie più che nei concetti. Pur rimanendo un pensatore della separazione fra le due culture – la scienza è anti-immaginazione e la rêverie resta estranea ad ogni dimensione concettuale –, Bachelard finirà per riconoscere che l’adesione poetica al mondo precede la conoscenza ragionale degli oggetti. “Il mondo è bello prima di essere vero”, è sognato prima ancora di essere percepito: all’inizio la rêverie, cioè la meraviglia, quella che anche lo scienziato contemporaneo, chiuso il laboratorio del lavoro diurno, prova contemplando il vagare delle nubi o, tornato a casa, il guizzare della fiamma nel camino, materie che diventano supporto dei suoi sogni.

 

 

Ed il primo oggetto della coscienza che immagina è appunto la materia perché è in essa che prendono corpo le tonalità affettive. La materia non è solo lo stimolo per immaginare, in essa il soggetto s’identifica, con essa si compenetra; le forme, anche quando si mostrano nella loro bellezza, non suscitano risonanza (retentissement) nell’animo perché non consentono all’immaginazione di scendere nel profondo, la tengono ferma al gioco delle superfici. L’indagine di Bachelard si rivolge così all’immaginazione materiale: alla psicoanalisi del fuoco, seguiranno i libri dedicati all’acqua, all’aria e alla terra, i quattro elementi della tradizione presocratica, le radici (rizomata) da cui, secondo Empedocle di Agrigento (V secolo a.C.), derivano per combinazione tutti gli enti naturali. Nella dottrina presocratica, gli elementi permangono identici a se stessi ma, aggregandosi fra loro secondo proporzioni diverse, producono la pressoché infinita varietà degli enti naturali. Nel ciclo cosmico che periodicamente si rinnova, al dominio della forza dell’Amicizia, che porta le cose a raccogliersi nell’unità dello Sfero, succede il periodo in cui predomina la Contesa e tutto si disgrega. Su queste basi è stato interpretato il mondo fisico fino all’avvento della scienza moderna; i quattro elementi, ripresi dalla cosmologia di Aristotele e fatti propri dal pensiero cristiano, unendosi alla dottrina delle quattro qualità – secco, umido, freddo, caldo –, formeranno la base di riferimento per la comprensione di tutti i fenomeni naturali, fino all’avvento nel Settecento della chimica e alla formulazione, nel 1869, della Tavola periodica degli elementi con cui lo scienziato russo Mendeleev classifica le sostanze in base al loro peso atomico progressivo.

 

Ma l’immaginazione continua a fantasticare su quanto la scienza moderna ha abbandonato: i suoi temi – lezione che Bachelard riprende da Jung – restano invariati nei secoli perché attengono al fondo della natura umana, come suggerisce anche lo studio antropologico degli invarianti mitico-religiosi. A differenza delle idee scientifiche che rettificano gli errori del proprio passato, le immagini restano vive e vivificate di continuo nelle opere dei poeti, nelle pagine degli scrittori, sulle tele dei pittori come nelle forme degli scultori. 

Fra i quattro elementi, la terra è stata riconosciuta per prima come una realtà non semplice e unitaria; molteplici sono gli aspetti in cui si presenta, sabbia dispersa e fango umido, pietra e metallo, molteplici le forme in cui si racchiude, caverne, grotte, montagne. Nella voce “Terra” dell’Encyclopédie, d’Holbach comincia a distinguere la pluralità delle terre a seconda di come reagiscono all’azione del fuoco (si vitrificano, s’infiammano o entrano in fusione), ma l’elemento terra conserva un carattere precipuo, quello di essere base dei corpi solidi e loro principio di coerenza. Non solo i metalli, ma anche animali e vegetali contengono parti terrose, ed infatti è un residuo terroso, la cenere, quel che rimane quando vengono sottoposti al fuoco. Anche una goccia d’acqua evaporata lascia un residuo solido, argomenta d’Holbach, e l’aria è piena di polvere, come sapevano gli atomisti antichi alle prese con l’agitarsi browniano di particelle in un raggio solare. E dunque la terra è base anche degli altri elementi, di essa meno pesanti: sua qualità essenziale è la solidità, la consistenza, dei quattro elementi rappresenta la stabilità, la resistenza. 

 

Qui Bachelard si trova nel suo elemento, e lo conferma il fatto che ad esso dedica due libri, La terre et les Rêveries de la volonté nel 1947 e La Terre et lesRêveries du repos l’anno successivo. I due libri corrispondono ai momenti polari con cui la psiche reagisce alle sollecitazioni della materia, l’estroversione e l’introversione: da un lato, l’immaginazione attiva che ci invita ad agire sulla materia, soprattutto per intervento delle mani nel lavoro, dall’altro, l’immaginazione intimista, che valorizza la dimensione accogliente, il desiderio di rifugio. Due poli che corrispondono al dualismo del lavoro e del riposo, del giorno e della notte, della volontà di potenza e del bisogno di protezione, dell’ostilità e dell’intimità materna. Quando la natura appare aggressiva nei nostri confronti, la nostra immaginazione attivista tende a replicare aggredendo a sua volta le cose. La volontà si definisce proprio come un volere attaccare che sorge dal timore di essere attaccati: rêveries della volontà sono appunto le visioni energiche in cui ci si immagina alle prese con la materia, allo scopo di brutalizzarla o di modellarla. Così, scrive Bachelard, “la terra, a differenza degli altri tre elementi, ha come primo carattere una resistenza”, che si manifesta sia nella materia dura che nella “ipocrita ostilità” della materia molle. L’immaginazione della resistenza della materia, che coordina le nostre azioni sulle cose, si rivela in particolare nel lavoro; proprio perché il mondo ci resiste, possiamo divenire coscienti della nostra potenza dinamica, uscire dall’inerzia del vivere e diventare degli esseri risvegliati, ricchi di energia.

 

È un tema su cui Bachelard torna a riflettere nel suo testo di filosofia della chimica, Il materialismo razionale (1953): la prima istanza che il chimico rintraccia nella materia è la resistenza, nozione estranea alla contemplazione filosofica, al predominio dell’istanza visiva del pensiero. Nel lavoro, del fabbro come del minatore, si esperisce la materia come campo di ostacoli: all’ostilità della materia l’uomo che lavora apprende a rispondere con la propria coscienza ostinata. Si tratta di una lezione che il chimico più noto della nostra letteratura ben conosce; nel Sistema periodico (1975), Primo Levi, neolaureato assunto clandestinamente (in quanto ebreo) nel 1941 in una miniera di amianto sopra Lanzo, racconta di come avesse il compito di estrarre Nichel da materiale di scarto. Per le difficoltà disperanti dell’impresa, “nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea”; a differenza degli alberi della valle, in cui scorre la vita, che si modificano al mutare delle stagioni, la pietra, spenta, priva di energia, appare “pura passività ostile”, una fortezza massiccia da assediare, da “smantellare bastione dopo bastione”, secondo la metaforica tradizionale della conoscenza come caccia. La lotta che nel corso del lavoro si intraprende contro l’ostilità e la durezza della materia, da cui sorge la soddisfazione del mettersi alla prova, superando gli ostacoli, è allora per Levi l’espressione eminente del mestiere di vivere: anch’esso implica una lotta contro l’ostinata resistenza del mondo, una lotta in cui si diventa fabbri anche di se stessi. 

 

Il lavoro sulla materia è un potente catalizzatore d’immaginazione. Il diretto contatto della mano “dà vita alle qualità dormienti nelle cose”; così, la materia immaginata non è mai inerte, è sempre animata, dotata di vita. La volontà dell’uomo non accetta di sottomettersi all’essere delle cose, ha bisogno di illudersi di essere onnipotente; nel lavoro, l’uomo si pone al centro dell’universo, prova le soddisfazioni di un demiurgo che crea gli enti sotto le sue mani: “Il demiurgo del vulcanismo e il demiurgo del nettunismo – la terra fiammeggiante o la terra inzuppata – offrono i loro eccessi contrari all’immaginazione che lavora il duro e a quella che lavora il molle. Il fabbro e il ceramista comandano due mondi differenti. Grazie alla materia stessa del loro lavoro, nell’impresa delle loro forze, essi hanno delle visioni d’universo, le visioni contemporanee di una Creazione. Il lavoro è – al fondo stesso delle sostanze – una Genesi.

 

Esso ricrea immaginativamente, in virtù delle immagini che lo animano, la materia stessa che si oppone ai suoi sforzi” (Bachelard). Ma poiché la mano che affronta nuda la pietra si scontra con una resistenza intollerabile, la volontà incisiva di penetrazione nella materia cerca conforto nella mediazione degli strumenti: basta mettere uno strumento in mano ad un bambino per rendersi conto di come un oggetto duro sia l’occasione di una rivalità, di una lotta con le cose. Lo strumento risveglia il bisogno di agire contro, è “un complemento di distruzione, un coefficiente di aggressione contro la materia”; solo dopo interviene il momento piacevole, quando la materia è ormai domata e dominata. 

 

Quanto più la materia è solida tanto più si richiede una percussione che unisca la forza all’abilità ed in cui il lavoro delle due mani svolga funzioni diverse: è allora che la materia diventa educatrice della volontà umana, secondo una maturità psicologica proporzionale alla scala crescente di durezza delle materie lavorate. Il bambino comincia facendo dei buchi con le dita nella sabbia, poi si educa lavorando il legno ed infine giunge alla virilità reagendo alla provocazione della materia, alla testardaggine della pietra o alla fierezza del marmo. La durezza delle cose dice già la loro ostilità; ma, oltre alla mano che, incontrando un ostacolo solido, reagisce alla minaccia contrattaccando, è anche l’occhio a percepire una minaccia a distanza quando osserva una roccia. Ritroviamo qui l’ambivalenza di amore e odio tipica delle immagini primitive: nella sua stessa immobilità, la pietra dà un’impressione attiva di resistenza, il mistero stesso della potenza della terra che mostra la sua forza e ci sfida a sentirci più forti, a superare la nostra debolezza. La pietra fa pesare sulle nostre spalle la minaccia dello schiacciamento; ma lo slancio verticale delle montagne fornisce già una determinazione a farsi portatori di pesi, come Atlante immaginiamo di sostenere il mondo. 

 

La roccia lancia una sfida al coraggio umano, nella sua contemplazione leggiamo un destino di annientamento, la pesantezza della roccia ne fa la pietra tombale naturale; alla sfida è quindi associata la paura perché l’impassibilità della roccia è già di per sé una minaccia. La vera materia della Sfinge non può essere che la roccia, ed è per questo che ci inquieta; un paesaggio custodito da mostri di pietra produce desolazione ed induce un’enigmatica tristezza. È l’ostilità che si esprime nelle rocce dantesche o in tante leggende, ma la roccia è anche una scuola di moralità. Primo Levi confessa che senza la preparazione data dalle arrampicate in montagna, dalla condivisione che si crea nella cordata, avrebbe vissuto la guerra partigiana e la deportazione meno bene: “Abbiamo proprio imparato là, credo, alcune delle virtù fondamentali che sono quelle del sopportare, del resistere, del non perdere la fiducia, del prepararsi al pericolo e all’imprevisto”. È il tema al centro di un racconto del 1961, La carne dell’orso (che, con ampie modifiche, diverrà poi il capitolo “Ferro” de Il sistema periodico), dove Levi traspone la scuola di vita dal mare alla montagna, riprendendo il passo di Giovinezza in cui Joseph Conrad ricorda che “il mare non fa mai doni, se non duri colpi e, qualche volta, un’occasione di sentirsi forti”.

 

L’importante nella vita è “non già di essere forti, ma di sentirsi forti, di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa …”. La capacità d’insegnamento morale della roccia, la sua scuola del coraggio, Bachelard la scorge in particolare nell’immagine della lotta tra il mare e lo scoglio. Nel Valéry del Cimitero marinoè l’onda che si frange sugli scogli ad invitare l’uomo all’azione, anche se effimera; in Bachelard invece, il rêveur si identifica con la roccia invincibile: dinnanzi al mare immenso, la roccia è l’essere virile che insegna la fermezza e la perseveranza.   

Se possiamo immaginare Sisifo felice, come chiedeva Albert Camus, è perché ha appreso che la dignità dell’uomo è nella tenacia della rivolta contro la condizione assurda dell’esistenza, nella perseveranza di uno sforzo ritenuto sterile. Nell’anno in cui Camus componeva Il mito di Sisifo, sull’altra sponda dell’Atlantico, Roger Caillois dedicava alla figura del mito La roccia di Sisifo: nell’epigrafe ricordava che “non esistono lavori inutili. Sisifo si faceva i muscoli”. Sisifo è cosciente del proprio tragico destino, sa che la pietra trasportata sulla cima del monte tornerà a ricadere a valle; è questo a renderlo superiore alla sorte che lo condanna, a renderlo più forte del suo macigno. È perché trasporta una roccia che Sisifo apprende l’ostinazione; non si abbandona alla tristezza, che sarebbe la vittoria della pietra, anzi la pietra stessa, rileva Camus. Vive con gioia la sorte che gli è destinata, quella di sollevare i macigni: “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”.

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Ombra

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Luogo fondativo del teatro filosofico, il mito platonico della caverna dispiega le coppie oppositive a cui l’Occidente è rimasto fedele. Gli uomini in catene non vedono se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete di fronte; sedotti dalle immagini sullo schermo, prendono per verità “vacuità prive di senso”, confondono la parvenza con la realtà, la sbiadita ripresentazione/rappresentazione con la luminosa e stabile identità. Sempre in attesa dell’alba chiara in cui finalmente vedremo Dio (e le sue varianti) faccia a faccia, la filosofia rinnova il gesto sacrale del sacerdote: squarciare il velo per scorgere al di là dell’apparenza ingannevole, portare alla “pianura della verità” quanto si cela nell’ombra menzognera. Aletheia, la verità greca, è appunto un disvelare, un portare all’evidenza il nascosto, sfuggendo alla condizione impura delle immagini incantatorie. L’ombra platonica (skia) condivide l’ambiguo statuto dei riflessi, parvenze senza consistenza, abitatori del regime notturno in cui prendono vita illusoria le immagini evanescenti dei sogni: non è forse “sogno di un’ombra […] l’uomo” (Pindaro)? L’ombra è un’entità minore, definita per negazione rispetto all’oggetto che la proietta: incorporea, senza qualità né colore, è mancanza, di luce e di bene, portatrice di quel non-essere su cui si è scagliata la maledizione eleatica.

 

Gli schiavi incatenati preferiscono restare nella semi-oscurità rassicurante della dimora-prigione, piuttosto che affrontare i rischi della luce accecante e i pericoli della libertà. Il gesto illuministico di Platone, per cui la salvezza si deve al coraggio intellettuale (sapere aude) che sconfigge l’ignoranza, ha il suo rovescio oscurantista. Portare alla luce non significa forse contaminare quanto stava protetto e celato agli sguardi? Non sono proprio le ombre a darci la percezione della profondità, a rendere così il mondo sensibile dotato di spessore e rilievo? Il mondo ideale, della Verità e del Bene, non si ridurrà a forme irrilevanti, come nell’universo bidimensionale di Flatlandia? A conferma della scritta posta all’ingresso dell’Accademia, «non entri nessuno che non conosce la geometria», il mondo platonico delle Idee si compone di povere forme, vuote e trasparenti astrazioni.

 

Proprio dall’ombra la geometria aveva mosso i suoi primi passi: sotto il sole accecante del deserto egizio, il protofilosofo si rivolge all’ombra perché gli sia svelata la verità. Plutarco racconta che Talete misurò l’altezza di una piramide, facendo ricorso all’astuzia, alla metis che era il vanto di Ulisse: ad un istante determinato, misurò la lunghezza dell’ombra portata della piramide e dell’ombra portata di un oggetto di altezza nota, un’asta o Talete stesso, costruendo così una proporzione in cui, note tre misure, diventava semplice calcolare la quarta, l’altezza cercata. La piramide, immobile sotto il cielo d’Egitto, rappresenta l’invariante, mentre il moto apparente del sole, la posizione e la lunghezza dell’ombra sono le sue variabili. La piramide può ben dirsi un orologio solare, visto che le tracce della sua ombra nel corso del giorno ci consentono di misurare l’ora, di scandire lo scorrere del tempo. Era questo il compito che i Greci affidavano allo gnomone, letteralmente colui che conosce: un’asta, posta al centro di una ciotola, proiettava l’ombra sulle pareti concave, scorrendo ciclicamente dall’alba al tramonto. Talete, ha osservato Michel Serres, non fa che ribaltare il processo: non è più la piramide a parlare del moto variabile del Sole, è il Sole, mutevole nel suo moto, a parlare della piramide che rimane stabile. Se, grazie allo gnomone, misurando lo spazio si calcola il tempo, Talete, allievo di Giosuè, ferma il tempo, blocca nell’istante la corsa regolare del Sole, per misurare lo spazio. Bisogna gelare il tempo per concepire la geometria, per accedere al regno eterno delle forme regolari, di cui Platone si vorrà custode.

 

 

Ciò a cui assistiamo in questa scena dell’origine è proprio la messa in scena dello schema ricorrente della conoscenza: Talete rende esplicito, porta alla luce, il sapere che era implicito nelle pratiche dei costruttori e dei tagliatori di pietre. La scienza conquista la verità, dall’empiria impura accede alla purezza della teoria, svela quel che era nascosto nell’ombra delle tecniche artigianali. La geometria è già una prospettiva: la sabbia è uno schermo, come se Platone avesse posto il deserto egiziano sul fondo della caverna. La parete piana è sempre chiara: il volume del corpo solido descrive su di essa l’ombra portata, la luce traccia il contorno d’ombra sul piano desertico, la mia conoscenza chiara di quel prisma opaco si risolve (e esaurisce) nelle informazioni tracciate dalle ombre, trasportate sulla sabbia da un raggio di sole. Il mio sapere geometrico resta un’ombra di sapere, conosce solo quanto è suggerito dai bordi, resta letteralmente ai margini: quanto giace nella compattezza opaca e nera del solido non si rivela allo sguardo, è il segreto sepolto nelle viscere del volume. La geometria sorge dal riconoscere l’oggetto dall’ombra dei suoi bordi e insieme dal disconoscere il nucleo d’ombra al suo interno: di qui l’idealismo della rappresentazione, il gesto inaugurato da un Talete già platonico di negazione radicale delle ombre interne.

 

La geometria poteva nascere soltanto su di un suolo e sotto un clima dove le ombre si stagliano nitide ed esatte, pronte alla de-finizione: la luce metallica del sole attraversa un’atmosfera trasparente e ripartisce il mondo nei suoi bordi precisi, taglia con la sua lama il confine fra luce e tenebre. Il miracolo greco, nella matematica e in filosofia, l’invenzione delle formalità ideali (per dirla con Husserl), si compie rendendo trasparenti i volumi, scacciando da essi l’ombra interna, così da disporre di una visione chiara e distinta. La piramide diventa tetraedro, primo dei cinque corpi platonici, che diciamo “solidi” pur essendo privi di corpo. Quando dalla fine dell’Ottocento morirà questa geometria ereditata dal platonismo, lo sguardo dell’intuizione si troverà di fronte all’opacità di figure ricche di pieghe, sature di angoli nascosti; quando si chiuderà il teatro della rappresentazione, la retta, il piano, il volume, verranno riconosciuti densi e caotici, formicolanti di nascondigli. Le idealità “pure” sono piene di ombre: era stata questa la lezione anticipatrice di Leibniz, sorretta dalla geometria proiettiva e dalla teoria delle ombre formulata da Desargues. Nella visione prospettica, l’occhio occupa il vertice puntuale dello schema conico e coglie i contorni delle forme degli oggetti; nel diagramma delle ombre diviene fonte luminosa e riceve informazioni sulla qualità dei rilievi della superficie. Il gioco del chiaro e dello scuro consente di percepire un mondo differenziato di creste e di cavità, le tinte sfumate sono ripartite in modo flou, vago e indistinto, ma carico di preziose informazioni.

 

Galileo, nel Sidereus Nuncius del 1610, ricorre al disegno per mostrare quanto i suoi occhi hanno scorto attraverso il cannocchiale. La linea che divide la zona illuminata dal Sole della superficie lunare da quella avvolta dalle tenebre è tracciata in modo irregolare; nella zona d’ombra compaiono puntolini bianchi, le cime delle montagne che emergono nella notte lunare, la zona chiara presenta punti scuri che segnalano il fondo dei crateri. Uno spettacolo analogo a quello che vedremmo sulla Terra al sorgere del Sole su valli ancora scure, mentre la luce ha già raggiunto le vette circostanti. Invece di nascondere, l’ombra rivela; come la geometria, anche l’astronomia è figlia dell’ombra, a lei dobbiamo la possibilità di far luce sul mondo celeste, ci ha spiegato Roberto Casati. Dall’ombra abbiamo appreso a misurare lo scorrere del tempo, con la meridiana e con gli orologi solari. Dalle ombre proiettate alla stessa ora in località distanti, Eratostene calcola la circonferenza terrestre. Dai coni d’ombra che si generano durante le eclissi, abbiamo compreso la forma del nostro pianeta e la natura del nostro satellite. Le fasi lunari, come quelle di Venere, non sono che giochi di ombre; la scoperta dei satelliti di Giove e dell’anello di Saturno si deve alle ombre che essi proiettano sul loro pianeta. Nel 1676, l’astronomo danese Ole Rømer vede rallentare il ritmo delle eclissi di Io, scopre così che la luce viaggia con velocità finita: il rallentare di un’ombra svela la velocità della luce.

 

Il Regno dell’ombra si stende fra l’idea e la realtà, suggerisce T.S. Eliot (Gli uomini vuoti), ma è l’ombra il testimone dell’esistenza: io sono perché getto ombra, l’ombra mi segue, situa il mio posto nello spazio. Dove c’è ombra, propria e portata, c’è oggetto, dapprima confusamente percepito: la mia conoscenza è inizialmente oscura, solo Dio può obbedire al precetto del metodo cartesiano, procedere a partire da idee chiare e distinte. Penso, dunque sono intriso di ombre, cogito e i miei pensieri si mescolano all’oscurità del mondo. Se in me vi sono ombre fin dalla nascita, che non mi rendono trasparente neppure a me stesso, pieghe care al Deleuze lettore di Leibniz, è perché l’opacità risiede nelle cose, nelle incrinature del marmo come nelle complesse, cioè ripiegate, fibre delle monadi. Il mondo leibniziano è composto di oggetti oscuri e massicci che, per inerzia, resistono alla luce e al sapere; conoscere significa procedere dall’oscuro verso il chiaro, ma il fascio di luce proiettato dalla mia mente getta un cono d’ombra che impedisce una chiarezza completa. Solo per Dio è sempre mezzogiorno: il suo occhio è l’unica fonte luminosa che percepisce senza gettare ombra. Nel sogno idealista di un mondo senza ombre, caro alla teologia, il Grande Architetto pratica l’arte geometrica del disegno senza fare appello alla teoria delle ombre.

 

 

Riporta Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia che la pittura ebbe origine dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea, forse nel tentativo di catturare la figura dell’amato in partenza. La pittura è figlia dell’ombra, come lo è la scultura, perché dal tratto schizzato sulla parete si ricava un bassorilievo. L’ombra è emanazione oscura della figura umana, suo alter ego: ri-presentazione in negativo, immateriale, prossima alla condizione del fantasma, in contrasto con ciò che ha corpo e vita sotto il sole. L’ombra gode così di un incerto statuto: presenza, ma inconsistente e inafferrabile (come sanno tutti i bambini), doppio speculare, identico e diverso, copia dissomigliante. Proprio questa ambiguità dell’ombra l’ha fatta slittare dal piano ottico, visibile e fenomenico, al piano dell’immaginario, se non del meta-fisico. Eredi dell’antica religione iranica, gnostici o manichei senza saperlo, continuiamo a relegare l’ombra, che non può manifestarsi senza la luce, nella costellazione simbolica del notturno, nella regione degli Inferi (dove appunto si trovano le ombre di quanti furono vivi), nel Male che la Luce del Bene s’incarica di sconfiggere. Se ne trova ancora un’eco nella psicologia analitica di Jung che definisce l’Ombra “la parte negativa della personalità”: al livello dell’inconscio collettivo, “il diavolo è una variante dell’archetipo Ombra, vale a dire dell’aspetto pericoloso, della parte oscura dell’uomo quando non è riconosciuta”.

 

L’ombra è inquietante, nell’ombra ci si nasconde e si trama, da lì balzano improvvisi i pericoli. Luogo canonico del perturbante, della morte che torna alla vita, della natura silente che si risveglia; come per ogni ente connesso all’ambigua natura dell’immagine e del riflesso, il doppio può vivere di vita autonoma e sostituire l’originale. Colpire l’ombra o calpestarla significa ferire l’uomo che ne è il portatore, perderla è minaccia incombente, annuncio di morte. L’antico terrore animistico della cattura dell’ombra da parte di forze sconosciute riaffiora nelle fiabe e nei racconti della letteratura romantica tedesca, in Hoffmann, ma soprattutto nel Peter Schlemihl (1814) di von Chamisso. Una volta venduta l’ombra al demonio in cambio di una borsa da cui trae sempre monete d’oro, Schlemil diventa un escluso, un emarginato, si deve nascondere agli altri. È diventato doppiamente visibile: per il denaro che possiede e per quel che non possiede più, l’ombra che faceva contorno alla solidità del suo corpo.

 

L’epoca romantica segna il compiersi della riconciliazione con l’ombra, ha scritto Jean Starobinski. Nulla lo testimonia meglio del rovesciamento della concezione esposta nell’Ottica del 1704 di Isaac Newton, lo scienziato esaltato dagli Illuministi anche per aver fatto luce sulla luce. Dal piccolo foro sulla tenda nera che copriva la finestra del laboratorio, lascia filtrare un raggio di luce solare che, attraversato un prisma, proietta sulla parete lo spettro continuo dei colori dell’arcobaleno: i colori sono componenti della luce, si distinguono fra loro per il diverso angolo di rifrazione. Nella Teoria del colore (1810), Goethe obietta che i colori si rendono visibili quando luce e tenebre s’incontrano, come tutto in natura sono frutto della polarità: anch’essi sono figli dell’ombra. Da tempo le tenebre che l’aurora vittoriosa della Rivoluzione dell’89 contava di dissolvere andavano moltiplicandosi. Nello spazio delle città utopiche, regolato dalle leggi di una geometria semplice e severa (nell’universo dei segni, il linguaggio della ragione è la geometria), l’autorità del disegno lineare, nel tracciare le forme di una rigorosa architettura, genera masse di ombre omogenee, enigmatiche e perturbanti, già pervase di quell’alone metafisico che vi scorgerà lo sguardo ellenico (istruito dal tragico nietzschiano) di De Chirico. Quanto più si esalta la purezza stereometrica dei volumi, il nitore costruttivo dei palazzi, dei porticati e dei colonnati, delle statue nelle piazze d’Italia, tanto più le ombre portate che si stagliano nitide assumono una greve consistenza; tanto più forte è la luce nel suo bagliore, tanto più agiscono i demoni meridiani, le cose reali si fanno spettrali e le ombre inquietanti si fanno epifania del mistero.

 

 

“Vi sono più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina nel sole che in tutte le religioni del passato, del presente e del futuro”. La bambina che fa ruotare il suo cerchio in Mistero e malinconia di una strada (1914) abita la luce su cui si proietta incombente l’ombra minacciosa dì una statua nascosta allo sguardo. “Nella malinconia l’oggetto getta la sua ombra sull’io”, scrive Freud un anno dopo, nelle pagine di Lutto e Melanconia: l’oggetto perduto non è lo scomparso di cui elaborare il lutto, è la traccia della mancanza che abita la vita psichica. Le ombre, come poi i manichini, sono doppi che hanno acquisito autonomia personale, non più dipendenti, figure vicarie che occupano il posto lasciato vuoto dall’uomo, di cui è rimasto solo il nero calco, fattosi ormai straniero. Il sole mediterraneo separa con nettezza le due zone di luce e ombra del quadro: non il lato oscuro del dionisiaco, non le tenebre dell’ebbrezza e del caos sine lege, ma l’ombra proiettata dal sogno apollineo, i fantasmi della ragione, non del suo sonno.  

 

Il paradiso luminoso delle utopie genera inferni tenebrosi: “Il mondo totalmente illuminato (aufgeklärte Welt) splende all’insegna di trionfale sventura”, secondo la nota formula di Horkheimer e Adorno. Vi è un lato oscuro, un’energia distruttiva che accompagna il diffondersi dei Lumi: da un lato, la dissipazione del libertino, incarnata dal marchese De Sade, che insegue il piacere fino all’annullamento, dall’altro la violenza scatenata dal popolo affamato. Alla confluenza, dove si urtano queste due forze, pulsa il cuore nero della Rivoluzione, fermenta il suo fecondo caos, ha scritto Starobinsky. Non è solo l’oscura regione del mondo psichico, il lato notturno dell’esistenza da cui si origina il male da esorcizzare, ma che insieme affascina: quello de L’incubo di Fussli, portato dalla giumenta della notte. Per giudicare il passato governato dalle tenebre, il kantiano tribunale della Ragione le convoca in giudizio, dà così parola e figura alle creature bestiali che in esse si annidano. È il rovescio nero che si cela dietro l’esistenza luminosa e opulenta della nobiltà spagnola nei quadri di Goya; è il volto ghignante delle figure grottesche, delirante eredità di antiche superstizioni, dei fantasmi della stregoneria, sulle quali l’artista vorrebbe praticare l’esorcismo della raffigurazione. Goya interpreta il destino dei Lumi, ne descrive la perversione, vista dalla Spagna del 1808, in lotta contro l’oppressione “luminosa” della libertà imposta dall’invasore francese. Il gruppo disciplinato dei soldati del plotone di esecuzione, nel quadro delle fucilazioni del 3 maggio 1808, raffigura una razionalità distorta, divenuta efficiente esercizio della violenza; la luce della lanterna aderisce alle vittime, la vera sorgente luminosa è la bianca camicia del ribelle, braccia protese nella crocefissione.    

 

L’occhio che illumina insieme cancella quel che l’oscurità racchiude: lo sguardo del ricercatore uccide il gatto di Schrödinger. Non crediamo più che le luci della tecno-scienza bastino a salvare il mondo dalle tenebre: la traccia lasciata dal bagliore di Hiroshima è l’ombra di una bambina impressa sulla parete. Il gesto greco di proiettare luce sull’oggetto opaco si fonda sulla rimozione di quanto di oscuro resta sempre celato nei corpi solidi: la Piramide da cui ha origine la geometria non è un tetraedro trasparente ma una tomba, cumulo di pietre sotto il quale giace il cadavere di un re lapidato e reso sacro dal sacrificio. Dentro la tomba riposano i fondamenti di tutti i nostri insediamenti e delle nostre pratiche, che il genere umano fa nascere dalla morte: la saggezza delle parole mantiene la prossimità fra episteme (scienza, sapere ben fondato) ed epistema, il cippo funerario. La mummia è la prima statua, corpo lavorato che rende immortale la morte, posta nel luogo di fondazione; l’Egitto, come poi Roma, non chiede al Verbo di farsi carne, al Logos o Spirito di manifestarsi nella realtà e nel tempo della storia, come fanno Atene e Gerusalemme. Roma, ha scritto Michel Serres, incarna il materiale, l’oggetto, la cosa (res), quel che l’idealismo esclude; è la forza nera che lascia tracce, costruisce la fisica, assorbendo la luce greca ed ebraica. Dalla tomba che chiude dentro di sé la luce compare l’oggetto: la fisica è la geometria delle cose. Roma è di pietra, non inventiva né riflessiva, costruisce, anche per impedire alle pietre di diventare proiettili. Nel tempio circolare di Vesta, il fuoco è imprigionato in uno spazio chiuso, l’ombra delle pareti avvolge e custodisce la luce, “chiusura del visibile nell’invisibile”.

 

I maestri del sospetto che hanno segnato il pensiero contemporaneo rinnovano il gesto arcaico per il quale l’esercizio della filosofia consiste nel togliere il velo: spiegare mira a rendere visibile quel che stava al riparo della piega, così la critica può denunciare il nascosto, lo squallido retroscena, passioni e interessi di classe, voci inconsce o volontà di potenza. Resta da inventare, ha suggerito Michel Serres, una teoria della conoscenza adela: l’etimo greco, ádelos, rimanda a quel che non si mostra, a quel che è avaro di segni, che si esprime, se lo fa, in modo ambiguo e obliquo. Mentre la verità come aletheia aspira a rendere visibile facendo emergere dal nascondimento, la conoscenza adela lascia alla cosa la sua ombra, evita di strappare alla piega quel che essa custodisce, conserva l’implicazione e l’inclusione. Siamo “viaggiatori del chiaroscuro” (Serres): la luce acceca e impedisce di vedere, abbiamo bisogno dell’ombra per conservare all’oggetto l’opacità che gli è propria, prima di sottoporlo al “riflettore spietato dell’analisi” (Gadda). Adela rimanda a quanto è diffuso, non localizzabile o definibile: la frangia in penombra, la ricchezza del vago, del rumore di fondo, del molteplice informe dai contorni sfumati e fluenti. Ritroviamo così, per altri sentieri, la saggezza del poeta che implora di non dividere il no dal sì, di dare ombra alle nostre sentenze: “Dice il vero chi dice ombra” (Paul Celan, Parla anche tu).

 

Bibliografia

Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934/54), Bollati Boringhieri, 1977

Carl Gustav Jung, Il Libro Rosso (1913-1930), Bollati Boringhieri, 2012

Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (1947), Einaudi, 1966

Michel Serres, Ce que Thalès a vu aux pieds des Pyramides, in Hermès III, Éditions de Minuit, 1974

Michel Serres, Gnomon, in Elements d’histoire des sciences, Bordas 1989, ripreso in Le origini della Geometria, Feltrinelli, 1994

Jean Starobinski, 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Garzanti, 1981

Michel Serres, Roma. Il libro delle fondazioni, Hopefulmonster, 1991

Michel Serres, Statues, François Bourin, 1987

Casati, La scoperta dell’ombra, Laterza, 2001

Le figure dell’ombra, a cura di Silvana Sinisi, Officina, 1982

 

Immagini di Anna Enrica Passoni.

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La battaglia delle parole

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Accade spesso che qualcuno mi chieda perché scrivo libri per ragazzi. Difficile trovare una risposta per qualcosa che non è precisamente frutto di una decisione. Fra l’altro, non mi sono mai pensata come “scrittrice” e continuo a non pensarmi come tale. Sulla carta d’identità, alla voce professione ho riportato editore. Non mi è mai capitato di utilizzare per me stessa la definizione di “scrittrice”. E non per scelta: semplicemente quando accade di dovermi definire, non ci penso.

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