Quantcast
Channel: Tutti i contenuti con tag: Psicoanalisi
Viewing all 327 articles
Browse latest View live

Ma perché le donne restano?

$
0
0

Vorrei mettere in luce un aspetto trascurato che riguarda la violenza sulle donne, proprio in questi giorni che possiamo avere un ascolto più attento grazie alla istituzione della Giornata mondiale contro la violenza sulla donna.

Nei dibattiti che ascoltiamo, nei discorsi degli esperti, nei libri che leggiamo troviamo molte riflessioni sul fenomeno, ma abbiamo anche la sensazione che non si tocchi il punto, sembra che non abbiamo ancora trovato un grimaldello abbastanza potente da modificare non dico il corso delle cose, ma almeno la posizione soggettiva della vittima. Fornire alle donne decaloghi di comportamento degli uomini violenti ha una sua utilità, ma occorre tener conto che una donna che si è legata a un uomo ammaliatore può non riconoscere, in lui, queste condotte pericolose. Una donna deve senz’altro sapere che il partner violento è quello che definisce unilateralmente le regole della relazione, che è geloso oltremisura ed esercita uno stretto controllo, che la ricatta e la svaluta psicologicamente, che vuole farla sentire sempre in colpa per poterla dominare e che tenta di isolarla dal mondo: si tratta di elenchi che non toccano, però, il punto nodale. Sono decaloghi che si continuano a ripetere come un mantra, ma che non sembrano promuovere un risveglio nelle vittime.

 

© Marina Ballo Charmet

 

È di questo che voglio parlare, del risveglio delle vittime, del perché non avviene. del perché le misure sociali sembrano inefficaci. Ciò non è dovuto esclusivamente al fatto che le denunce che le donne fanno coraggiosamente restino lettera morta: certo, questo è un aspetto che va subito attentamente monitorato e corretto. Eppure, anche allora, resterebbe qualcosa che ci sfugge. Dopo tanti anni di presenza sul territorio dei centri antiviolenza, di organizzazioni dedicate, di donne valorose che dedicano la loro vita al salvataggio di altre donne, perché continuiamo ad ascoltare nella voce delle operatrici di questi servizi una nota di disagio profondo, di frustrazione nel vedere come la loro battaglia quotidiana non riesca ad essere risolutiva. Cosa c’è che fa ostacolo?

La causa non è neppure identificabile, semplicemente nel dire che il maschio è violento: sostituire la lotta di classe con la guerra tra i sessi non fa bene a nessuno e soprattutto non giova all’importante idea di una differenza, quella che ci permette di pensare (si pensa a partire dal due, da almeno due cose o posizioni in contrasto). Non è scavando un solco - pensando di dividere il bene dal male - che ne usciamo.
 

Quello su cui vorrei concentrarmi è la difficoltà delle vittime a uscire dal loro stato. È questo che mi interessa, anche in quanto donna: cosa c’è che ostacola all’interno della vittima il suo processo soggettivo di devittimizzazione? Quale legame tiene legata una donna al carnefice che la manipola, la controlla, la denigra e la batte? Dove nasce, che struttura ha, di che pasta è questo nodo? Quale è la sua origine? Perché le donne implicate in questa ragnatela affettiva vi restano così tanto tempo, spesso anni? Perché resistono così a lungo alle umiliazioni, alle molestie, alla violenza?

Sappiamo che uno dei meccanismi di difesa del soggetto sottomesso è minimizzare il torto subìto: c’è una difficoltà della vittima nel riconoscersi oggetto di abuso e si arriva fino al diniego dell’evento traumatico o alla sua amnesia, o alla minimizzazione, oppure al cosiddetto go and stop, cioè prendere la decisione di andarsene, magari facendo i preparativi, per poi, alla fine, restare, come fosse ogni volta la prova generale di una prima dal debutto assai incerto.

La loro resistenza all’abuso, come dicono molte studiose e studiosi del tema, è probabilmente dovuta alla loro grande “generosità”, al fatto che si tratta di donne, spesso piene di vita, che si assumono l’incarico disperato di pensare di poter cambiare un partner ritenuto fragile e da proteggere: qui si tocca il paradosso della donna abusata che pensa a proteggere il suo uomo violento, come fosse un bambino sfortunato. Queste donne non demordono, non rinunciano perché non possono arrendersi al fatto che non ci sia nulla da fare e cercano fino all’ultimo di comprendere e cambiare il loro compagno svalutante e aggressivo. Non lo possono abbandonare al suo destino perché se ne sentono responsabili, e così il paradosso continua. Qui si colloca una certa onnipotenza della vittima che crede di poter sopportare all’infinito, fino alla morte.

Allora quale è il motore pulsionale, il perturbamento affettivo originario da cui prende forza questo delirio paradossale della vittima che non riesce a chiudere il legame e, in molti casi, protegge il suo usurpatore?

 

Ci avviciniamo al punto, forse, proprio cominciando a chiederci qual è il senso di questo strano fenomeno della “comprensione” della donna per il suo aguzzino: essa poggia sulla regolarità per cui l’offensore, dopo l’abuso, circonda la vittima di nuove cure e attenzioni. La donna vive, così, in un doppio regime di abuso e premura. E da qui vorrei partire con la mia proposta teorica.

Il doppio regime è un punto importante non tanto o non solo perché ci dice qualcosa sullo spaesamento della vittima presa in due opposte ingiunzioni, ma è fondamentale perché rimanda quasi sempre a un’altra scena, più originaria, in cui la costrizione e la premura, il controllo e la simbiosi convivevano. Si tratta di scene che rimandano all’infanzia e all’adolescenza, scene che non raccontano tanto di un bambino “classicamente”, per così dire, maltrattato dal proprio genitore, ma piuttosto il contrario perché spesso non si tratta di un abuso evidente ma di una sorta di “predilezione”, pur se di una predilezione a matrice perversa. Mi riferisco, più precisamente, al tipo di relazione che instaura quel genitore Pigmalione, di cui parlo nel mio libro dal titolo Mio figlio mi adora. La prima ipotesi che qui voglio avanzare è, precisamente, che il figlio o la figlia in ostaggio di un genitore Pigmalione e la donna vittima di violenza sono entrambi irretiti dalla doppia rete premura-costrizione. Ciò fa sì che siano anche posseduti dall’idea inconscia che il loro carnefice sia quell’Unico in grado di offrire loro riparo, protezione, amore. La donna vittima crede alla legge perversa di un coniuge maltrattante: è sotto il segno della crudeltà che può arrivare a credere di essere amata. Anna, una donna che aveva avuto sempre uomini controllanti come la madre, a proposito dell’ultimo, che era anche manesco, diceva: “Se picchia me, picchierà anche chi fa del male a me; lui in fondo mi ama e mi difenderà”. La donna era entrata in un dispositivo di marca mafiosa, nel quale lui le offriva “protezione” in cambio di assoggettamento. La questione cruciale, sovente elusa, è il fatto che le vittime di vincoli tossici offrono ai loro carnefici un consenso inconscio che rende poco incisivi gli interventi giuridici e sociali in loro favore.

 

Chi è il genitore Pigmalione? Il genitore Pigmalione è molto diffuso, un tempo tra i padri e, oggi, piuttosto tra le nuove mamme (in questo caso ho parlato di tratto plusmaterno); è quello che ha un atteggiamento di sostegno continuo al figlio. E’ sostenuto socialmente come fosse un genitore modello: attento, presente, premuroso. In realtà è troppo attento, di un’attenzione che si fa controllo; è troppo presente, tanto da non lasciare che il figlio si relazioni significativamente con altri; è troppo premuroso, al punto di evocare una relazione inclusiva, claustrofilica e simbiotica col figlio, una relazione che tende all’Uno. Una “presa” sul figlio che si alimenta di eccessiva prossimità, di confidenze segrete - “mio figlio mi dice tutto”, “mia figlia mi racconta ogni cosa” - e che depriva i figli del contatto con la propria vita intima, quella che dà a ciascuno il senso di esistere. Ognuno ha bisogno di un suo giardino segreto, di “una stanza tutta per sé”: il “dire tutto” è disumanizzante.

Il fine del genitore Pigmalione è di plasmare l’altro: un fine manipolatorio che ricorda da vicino la manipolazione dell’aguzzino della donna vittimizzata. Questo genitore esercita un controllo, e controllare è il contrario di educare; ha una vocazione al dogma, al pensiero Unico, aborrisce, infatti, la dialettica e il confronto. I figli inclusi mostrano una sorta di “passività” (come la donna vittimizzata di violenza) di fronte al genitore invasivo - invasivo per amore, s’intende - e si “lasciano fare” , manipolare, modellare da lui, a volte anche in età avanzata. Aguzzini e Pigmalioni irretiscono la vittima nel doppio regime di costrizione e premura.

 

La seconda ipotesi che voglio avanzare è che un figlio in ostaggio, così come una donna vittimizzata, manifestano, strutturalmente, un intreccio singolare e inedito di due costellazioni psichiche piuttosto note: quella di Stoccolma, in cui si ama il proprio rapitore, e quella di Stendhal, in cui l’animo sprofonda in uno stato di stupore abissale, quello per il quale, ad esempio, la donna appare come obnubilata, ipnotizzata dal suo offensore, al punto da “dimenticare” o minimizzare la molestia subita. Il figlio in ostaggio manifesta questa ipnosi nel non potersi svincolare dalla presa abusante del genitore invasivo e nell’accidia depressiva che lo prende quando non riesce ad allontanarsi dal genitore, neppure quando avrebbe l’età per doverlo fare. La donna vittima di violenza e il figlio in ostaggio, per sopravvivere fisicamente e psichicamente, finiscono per amare il proprio rapitore.

 

Un legame tossico con l’altro è quello che accomuna un figlio in ostaggio e una donna maltrattata e che si basa sul circuito maltrattamento/premura, coercizione/consenso inconscio e che si fonda su relazioni di dipendenza, plagio, abuso, false premure.

La posizione psichica dell’uomo violento è la stessa del genitore invasivo, simbiotico, possessivo. L’elenco che abbiamo stilato più sopra per il partner violento - controllore, possessivo, geloso, ricattatorio, colpevolizzante così da dominare la vittima che vuole isolare dal mondo - ci rendiamo conto, non senza un brivido, si potrebbe stilare identico anche per il genitore adesivo, simbiotico che tende a fare Uno con il figlio. Il genitore Pigmalione e il partner violento condividono la stessa tensione a farsi considerare dalle loro vittime come l’unico punto di riferimento significativo della loro vita.
La relazione stretta tra i due è testimoniata anche dal fatto che la legge che norma la violenza domestica (legge 154/2001) si riferisce a ogni maltrattamento familiare – sia tra partner che tra genitore e figlio. Il fatto che la segregazione psichica imposta dal genitore inclusivo e il fenomeno del partner violento rientrino, entrambi, nell’ambito normato da una stessa legge è una concordanza che ne esplicita, anche a livello sociale, la coincidenza strutturale inconscia.

Lo schema del partner violento ricalca quello del genitore inclusivo: l’attaccamento morboso gli consente di vivere a spese della vittima, di sentirsi vivo solo se essa gli è prossima: la può usare e consumare come una merce che lo tiene attivo e giovane; una droga, un elisir. Una volta divenuto adulto ed essendo stato svilito, un figlio o una figlia, potrebbe chiedere di consumare l’altro come il genitore ha consumato lui, oppure potrebbe continuare a farsi oggetto del godimento altrui.

 

La conclusione che avanzo, dunque, è che una famiglia inclusiva, retta dalla legge del genitore Pigmalione, o dal Plusmaterno,  destina un figlio a relazioni con un partner con cui sia possibile instaurare legami altrettanto abissali e tossici di quelli che esistevano nell’abuso domestico. Le vite esposte alla violenza di queste figlie diventate adulte è come se rivelassero il tratto violento nascosto sotto la superficie eccessivamente amorosa della famiglia simbiotica. Il modo di amare di chi per primo ci ha amati è destinato a essere ripetuto, non solo perché è l’unica forma che conosciamo, ma soprattutto perché, in questo modo, le vittime possono, in un certo senso, assolvere implicitamente le figure amate nell’infanzia; e nella replica del “malamore”, possono dirsi che, se anche altri fanno cosí, è abbastanza normale che sia cosí. Non a caso, come abbiamo detto, uno dei meccanismi di difesa del soggetto sottomesso, infatti, è minimizzare il torto subíto.

 

In conclusione, pur se necessario, non basta affrontare il tema delle donne vittime di violenza domestica solo sul piano sociale e culturale, senza considerare le radici inconsce e strutturali che le portano a tollerare così a lungo l’aggressione. Occorre chiedersi: dove hanno imparato questo mix di violenza e amore, di coercizione e premura, di rapina e falso dono? La posizione dei figli in ostaggio ci offre una pista di pensiero. Non sarà certo l’unica, però possiamo dire che non riuscire a separarsi da un genitore invasivo può significare non riuscire a separarsi neppure da un partner distruttivo, se con lui pare possibile quel mondo che, pur infernale, di due sembra fare Uno.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Violenza domestica e legami tossici

L'affetto è neutro, attenzione!

$
0
0

Un pomeriggio, sotto un duro attacco di tristezza, mi sono messo a vagare per la città dove mi trovavo e passeggiando a caso sono sbucato in una piazza dove c’era una meravigliosa sagra della cioccolata. L’invasione di quel calore emotivo, di quella bontà, dell’affetto naturale sprigionato da quel bendidìo marron, mi hanno ridato in mezz’ora la forza e la lucidità per riprendermi in mano. Certo, la serotonina, ecc. ecc., ma la verità è che quegli artigiani squisiti avevano fatto il mio bene. Per pochi soldi quei cari maestri mi avevano dato una grande dose di affetto. La loro bravura aveva trasformato l’ergonomia delle cioccolate in morale. 

 

Lì ho capito che l’affetto è neutro: non importa chi te lo dà, purché te lo dia. È un qualcosa che non si lascia intaccare dal mezzo che lo veicola. L’affetto viene o non viene, chi o che cosa te lo porta non c’entra. E se non ha secondi fini, va comunque bene, è sempre positivo. Quando sei in difficoltà e ricevi uno sguardo solidale si dice che ti scalda il cuore, è un conforto di qualcuno che si mette dalla tua parte, sia una persona brutta o bella, un savio o un fuori di testa. Ma anche un oggetto può stimolare il nostro affetto. Non parliamo del tuo cane che vive per questo. Il suo affetto è ottimo, continuamente. E tu lo adori non come cane, ma come portatore perpetuo di affetto per te. 

 

Va da sé che l’affetto ha nature diverse a seconda di quale sia la sua provenienza, di chi ne sia l’artefice, un cane o una fidanzata. E si potrebbe di volta in volta anche eventualmente opinare sulla sua maggiore o minore genericità, sul suo “cinismo”. Non serve, tuttavia, avere particolari competenze tecniche (psicologiche o filosofiche) per riconoscere l’affetto. Tutti siamo innanzitutto dei “semplici fruitori/produttori” di affetto. Diciamo che il vino buono si può riconoscere anche senza essere un sommelier, perché quando incontriamo l’affetto – o il vino buono –

 lo percepiamo come segnale di vita, una brezza gentile talmente importante che la identifichiamo immediatamente e la prendiamo al volo. È un elemento essenziale per vivere. Per contro quando si è colpiti da una malattia, la stessa potenzialità affettiva viene meno (vedi Franco Fornari, Affetti e cancro, Raffaello Cortina 1985). Spinoza nel Seicento l’aveva detto che l’affetto “giova alla conservazione” (nell’Etica a proposito del bene). E per Cartesio “spinge all’azione”.

 

 

Il tema delle passioni è molto antico, c’è da perdersi nella bibliografia sulle Teorie delle passioni. 

L’affetto, tuttavia, ha conservato una bassa definibilità, lo stesso Freud ci ha girato attorno in più occasioni (ad esempio in Al di là del principio di piacere o nel Compendio di psicanalisi, dal 1915 al 1938) senza giungere a una descrizione sufficientemente cristallina. La sua natura, per fortuna, rimane vaga, è ontologicamente “evanescente”. Così l’affetto si configura più come una intensità che come un oggetto, non lo puoi definire, ma esiste ed è tra noi e a volte ci rende le giornate più mansuete e importanti. Proprio come la Poesia. L’affetto si mette a disposizione, per così dire, delle circostanze in cui via via si trova a operare. Mi viene in mente un film struggente come Il condominio dei cuori infranti (di Samuel Benchetrit, 2015): in quella banlieu infame il condominio si regge sulla relazione affettiva, ciascuno si affida all’altro, alla sua purezza disinteressata. E chi si innamora lo va a dire subito, per condividere il momento, ai suoi vicini che lo supportano in quella fatica meravigliosa. 

 

L’affetto è una delle poche cose che funzionano, in assoluto, perché è neutro, non ha bisogno di connotazioni, di rinvii, di collegamenti. È una funzione nelle nostre mani. Assomiglia molto alla nozione di insapore dei cinesi, un fulcro indeterminato da cui si irradia ogni gusto, descritto tempo fa da François Jullien (L’elogio dell’insapore, Raffaello Cortina 1999). 

 

Il problema è che l’affetto si deve imparare a decifrarlo, e di questo bisogna avere esperienza. Mentre nel mondo indifferenziato dei bambini tutto o quasi è affetto, per gli adulti c’è bisogno di verificare, di disambiguare i messaggi confusi, di certificare il segnale d’affetto sincero. Una volta approvato quell’affetto viene accolto con la massima adesione. Alda Merini usava ripetere: “Ringrazio sempre chi mi dà ragione”. In effetti, se ci si pensa, al di là del merito in questione, quando uno ti dà ragione ti manda una manifestazione di consentaneità, cioè di affetto. Ma questo può essere sufficiente a convalidare la sua positiva disposizione verso di te? La doppiezza dei messaggi di certa politica, ad esempio, risulta particolarmente insidiosa in questo senso (vedi qui il pezzo di M. Dall’Aglio sul recente Il rischio di fidarsi di Salvatore Natoli). 

 

Obbedendo a dinamiche di attrazione (volontaria, spontanea?) l’affetto crea legami, più o meno tenui, ma chiari e distinti. In fondo la nostra vera pratica quotidiana consiste essenzialmente in un’incessante ricerca di questa empatia sottile, perché noi sempre abbiamo bisogno di una rete, la più fitta possibile, di riconoscimenti autentici che ci consolidino nella nostra legittimità emotiva (è questa la ratio del mondo-like?). 

 

Purtroppo all’esercizio dell’affetto non tutti sono alfabetizzati. Oggi più che mai, perché viviamo in una società che ha interiorizzato l’abitudine al conflitto tra persone (sulla pervasività degli “stati di negazione” vedi qui Empatia di Ugo Morelli). La paura di essere gabbati, umiliati o traditi è una costante della nostra quotidianità, e non sono solo i grandi torti perpetrati dai potenti a creare i problemi, ma soprattutto le migliaia di sgambetti che, se non stai attento, rischi di subire dagli “agenti della prepotenza” che ci circondano. L’affetto è un ingrediente della miscela umana e quando c’è la coagula, se non c’è la discioglie (vedi La piccola cattiveria). 

 

Ph Elliott Erwitt.

 

Il problema (affetto/non affetto) sembrerebbe espandersi vertiginosamente se osservato nel crash valoriale che si sta imponendo nei fatti (le elezioni americane contribuiscono non poco in questo senso). I nostri comportamenti sembrano sempre più ispirati direttamente alle ragioni del conflitto, del nostro conflitto privato (io ce l’ho con te), del conflitto sociale (quelli come me ce l’hanno con gli altri), del conflitto internazionale (noi di qui ce l’abbiamo con quelli di lì). I sistemi di autocontrollo etico-sociale paiono indeboliti, e si fa largo la convinzione che azzardare nuovi sistemi di “dialogo con i fatti” diventi “pragmatico”, che agire con la forza prima di concordare strategie comuni sia più convincente, più efficace. Ci sarebbe da ragionare a lungo sull’”anaffettività” della politica contemporanea. In un simile contesto personalmente temo che il fabbisogno di affettività sia destinato ad aumentare. 

 

Le grandi crisi e i grandi problemi che ci affliggono ci hanno sicuramente infragiliti, ma non per questo la “funzione” dell’affetto smette di lavorare, essa può scattare con chiunque ci dia affetto, perché l’affetto è neutro e accettarlo significa in qualche modo farci andare bene anche il soggetto che ce lo porge. Che cosa avrebbero dovuto fare i bambini e le mogli dei soldati nazisti quando ricevevano delle tenere lettere piene di carinerie dai loro babbi e maritini impegnati tutto il “santo” giorno a sterminare ebrei e a distruggere l’Europa? Scrive Hans-Reinhold T., sottufficiale nel 29° Reggimento corazzato tedesco, il 18 ottobre 1944, durante l’avanzata attraverso la Polonia: 

 

Mia amata, oggi ti spedisco anche il ricciolo che hai tanto desiderato e ne approfitto per spiegarti anche perché non ho esaudito prima il tuo desiderio. Vedi, qui divido la stanza con altri camerati, , che troverebbero semplicemente ridicolo se mi tagliassi una ciocca di capelli, anzi sono sicuro che mi prenderebbero in giro perché probabilmente non comprendono il senso profondo di questo gesto. Adesso invece sono solo e non devo preoccuparmi. Che questo piccolo ricciolo ti possa dare sempre il coraggio necessario e faccia sì che si realizzino presto tutti i nostri desideri.

Tesoro mio, per oggi chiudo. Stammi bene, ti mando mille saluti e baci, 

tuo Hannes”.

 

Era “buono” quell’affetto dei soldati nazisti? Bambini e mogli avrebbero dovuto respingerlo? Un criminale può essere latore di affetto? L’affetto non guarda in faccia proprio nessuno? 

 È evidente che per soddisfare il mio fabbisogno affettivo posso anche ritrovarmi aggregato a strane combriccole. Siamo macchine a energia affettiva e anche la curva sud e la camorra, alla fine, sono soggetti indiscutibilmente portatori di affetto. 

 

Dice Timothy Snyder, curatore insieme a Marie Moutier delle Lettere dai soldati della Wehrmacht, (Corbaccio 2015) da cui ho tratto quella sopra citata, “i soldati tedeschi erano assolutamente consapevoli degli orrori ai quali assistevano o che commettevano, ma dal loro punto di vista tali crimini rappresentavano solo un elemento della loro quotidianità, e raramente quello di maggiore importanza. Essi erano molto più preoccupati di ciò che mangiavano, del luogo dove dormivano, di ciò che pensavano dei loro commilitoni e della lontananza dalle proprie famiglie”. 

 

Poi c’è l’affetto, diciamo così, paraculo, di chi brandisce la finta affezione, come le star che scelgono di sostenere qualche causa sociale-umanitaria per ignobili scopi, negati, di marketing, o i politici più sfacciati in campagna elettorale, o le pubblicità commerciali più subdole. Tutte cose sempre potentemente seduttive che i destinatari apprezzano e incamerano come affetti buoni, cose che non fanno male ma bene. Che ce ne sia di affetto, dicono, anche di quello falso, finché funziona. Questi sono gli scherzi della percezione: chi manifesta l’affetto che non sente, da un lato, e chi lo riceve e lo sente, dall’altro. Perché l’affetto in tutti i casi arriva là dove deve arrivare, e lo può fare perché appare neutro, anche quando non lo è.

 

L’affetto è una funzione ambigua, in sé gratificante, ma pericolosa nel momento in cui crea dipendenza. Discernere è decisivo. E discernere non è un’abilità innata. Un ragazzino esposto alle folate di demenza provenienti dal web e dal suo contesto sociale, non può che alimentarsi degli “affetti” che gli arrivano. E così l’individuo sguarnito di strumenti critici difensivi. È in questo terreno che giocano i mestatori di affetti, grandi o piccoli fratelli, che si contendono le nostre esistenze, e le deteriorano. Che siano anche queste delle nuove forme di “indebitamento”, come direbbe Maurizio Lazzarato (La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, 2012)? Dei crediti che riceviamo e che a un certo punto dovremo pagare?

 

P.S.: Dopo aver chiuso il pezzo vedo l'ultima scena dell'ultima puntata della serie di Paolo Sorrentino The young pope, dove Pio XIII tiene alla folla assiepata in Piazza San Marco un'omelia tutta incentrata su ciò che Dio non è, secondo i canoni della cosiddetta teologia negativa. Dio non si mostra, Dio non è simile a noi, Dio non ci consola – dice il giovane papa – ma conclude: "E tuttavia, Dio ci sorride". 

 

Mi è parsa una interessante affinità con quanto scritto sopra, no? 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Non importa chi te lo dà, purché te lo dia

Distruzione e trauma

$
0
0

Che significa avere un trauma?

 

“Non c'è il rischio di banalizzare l'esperienza traumatica? Mi sembra che la questione sia importante anche perché questa concezione patologica della storia va spesso di pari passo con la diffusione delle tecniche di debriefing o defusing, che dovrebbero permettere di raccontare il prima possibile l'evento traumatico.”

 

Partirei da questa riflessione di Sabina Loriga per illustrare i contributi collettivi al tema della distruttività umana proposti da due importanti riviste psicoanalitiche: il numero otto di notes per la psicoanalisi, dal titoloIl trauma la Storia, e il numero uno di psiche, intitolato Distruggere.

Come si può intuire, trauma e distruzione non sono la stessa cosa, anche se tra i due eventi è probabile, ma non necessaria, una concatenazione. 

 

Loriga aggiunge che il trauma storico, pur avendo le stesse caratteristiche del disastro naturale – il disorientamento spaziale e temporale – annienta il divieto di uccidere. Un terremoto e una guerra sono esempi differenti di distruzione. Ma, se a ciò si aggiunge la distruzione delle rovine, ci si trova di fronte a una serie, una proliferazione di eventi: lo scoppio casuale di un residuo bellico, la caduta di un bimbo in un pozzo artesiano, una frana che produce il travalicare di una diga, i bombardamenti da un confine all'altro senza alcuna dichiarazione bellica, il suicidio, la caduta casuale da un'impalcatura, ecc. Sono altrettanti episodi di distruzione che possono condurre al trauma. La serie sfuma la differenza radicale tra storia e natura.

 

Nella cultura popolare ci sono segni traumatici che appartengono al corpo. Temporanei – l'impallidire, l'arrossire, uno svenimento, la perdita temporanea della vista – permanenti –, l'incanutire, la diplopia, il claudicare, un tic. Benché sia necessaria una distinzione tra trauma da evento naturale e trauma di guerra, che legittima l'assassinio come pratica normale, è tuttavia necessario interrogarsi sulle incurie, le arroganze scientifiche, le corruzioni che hanno prodotto i disastri del Vajont, di Fukushima, di Haiti, supposti disastri naturali.

 

Il trauma è reazione a un evento, il più delle volte, distruttivo. Ginevra Bompiani descrive questo rapporto raccontando la distruzione di Sòdoma: durante la distruzione della città i salvati hanno l'ingiunzione di non voltarsi a guardare; la moglie di Lot disobbedisce, si volta e rimane di sale. L'evento distruttivo ha un effetto sul soggetto, questo è, propriamente, il trauma. Non un evento, la reazione del soggetto a un evento. 

 

Ph Robert Capa.

 

Potremmo dunque considerare il termine “evento traumatico”, abusato in psicologia, come una tautologia che espelle l'elemento esterno che lo ha prodotto: l'evento di distruzione. È così che agiscono le terapie riparative che menziona Loriga: riparano l'evento traumatico, agiscono su una tautologia, l'evento potrebbe anche non esserci mai stato, è “costruzione sociale”. 

 

Nel caso della moglie di Lot assistiamo a una discontinuità, un cambiamento repentino, la carne, le ossa, gli umori del corpo si trasformano immediatamente, in un colpo, in sale, paradigma di aridità assoluta. Più spesso accade il vincolo psichico, descritto da Freud come una memoria del corpo che si ripresenta anni dopo, indecifrabile. Il soggetto, di fronte alla distruzione, non capisce ciò che accade, non riesce a comprenderla, è qualcosa più grande della possibilità di afferrarla. Rimane attonito.

 

La teoria della complessità ha approfondito il rapporto tra cambiamento continuo e discontinuo attraverso la produzione di modelli: la teoria delle catastrofi di René Thom (1923-2002), la teoria della strutture dissipative di Ilya Prigogine (1917-2003), l'idea di ordine dal caos di Heinz von Foerster (1911-2002). Il fenomeno del vincolo psichico descritto da Freud, rientra nel novero dei fenomeni di accumulazione che producono discontinuità. 

 

A questo proposito, trovo interessante il saggio di Marco Pacioni sulla distruzione delle rovine. La rovina è già qualcosa di distrutto, è già elemento di un sistema di relazioni caotiche tra frammenti. L'opera d'arte, nel perdere la completezza attraverso la distruzione, si mostra come vestigio e ci impone un'inquadratura. Chiunque abbia fatto l'esperienza di passeggiare ai Fori Imperiali o di visitare le rovine greche, ha questa strana sensazione. Dal versante oggettivo intravediamo un'epoca, da quello soggettivo, abbiamo un déjà vu: essere dentro la cornice del tempo storico, dei suoi confini. 

 

Il gesto distruttivo e la profanazione sono dunque destinati allo scacco nel momento in cui si mostrano: il gesto distruttivo di vestigia non fa che produrne di nuove, lascia sul terreno vestigia differenti, che sapranno raccontare anche la storia di queste nuove profanazioni, il sacco di Roma, le invasioni barbariche, la visita di Petrarca, le immagini di Piranesi, quella di Hawthorne che dà vita al Fauno di marmo; tutto ciò non ha fatto altro che rinnovare l'immagine di Roma.

 

Le vestigia sono traumi dell'oggetto, qualcosa che trapassa la storia. Ma per avere un'aura il tempo dev'essere di lunga durata. Gli oggetti non sono tutti uguali, compongono un sistema di attori che costituisce il soggetto, soggetti e oggetti non sono separati, dipendono gli uni dafli altri in maniera inestricabile, ogni soggetto è un sistema di connessioni tra il sé e le cose che lo implicano, non esiste un sé nel vuoto. Come sottolineano Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969) nella Dialettica dell'illuminismo, la sottrazione del sé alla potenza distruttiva degli dei fu l'impresa faticosa di Ulisse, ma necessita una sostituzione: un capro espiatorio. In un certo senso la storia stessa è la descrizione del caso clinico umano.

 

Non si tratta di avere una “concezione patologica della storia”, piuttosto si tratta di Verleugnung, un termine che Freud usa per designare una forma radicale della negazione, quanto oggi indichiamo con il termine negazionismo o, in olandese, menzogna. Dal termine leugen. La domanda allora potrebbe essere: nella narrazione storica esiste una patologia? La distruzione produce una patologia del politico? Qualcosa che ha a che fare con la storia e, in particolare, con la storia dei sistemi di pensiero?

 

Una parte della psicoanalisi, per non essere a nostra volta negazionisti, ha colluso con un'idea di irrimediabilità del trauma; il soggetto traumatizzato sarà irrimediabilmente destinato alla patologia grave, e dunque, se siamo di fronte a una patologia grave, dobbiamo andare a cercare il trauma che l'ha prodotta, per quanto lungo e faticoso sia il processo che permette di far venire a galla il materiale inconscio rimosso. 

 

A questa visione mortificante dell'esistenza del paziente, ha risposto una facile tecnologia della risoluzione rapida del trauma attraverso pratiche ipnotiche, semi-ipnotiche di rilassamento californiano, di new-age. Nel primo caso la storia è unicamente storia del soggetto enunciato e non del soggetto che enuncia e trasforma il trauma, nel secondo caso la storia non esiste più, si tratta di riprendere ad avere successo sul libero mercato, il trauma si lava con il detersivo tecnologico e il delirio diventa la normalità.

 

Nel libro Psychonet, Eleonora De Conciliis osserva: “Chi partecipa a un delirio collettivo non lo riconosce come tale – in un mondo di malati, il malato si sente sano, mentre il sano viene percepito come un malato: il giudizio sociale sulla salute mentale non è assoluto”. Questo la psicoanalisi non dovrebbe mai dimenticarlo, né tralasciarne le conseguenze politiche e cliniche, pena un ritorno alla neutralità professionale che ha caratterizzato buona parte dell'Ego-Psychology negli anni bui dell'International Psychoanalytic Association e che oggi caratterizza molti approcci tecnologici e riparativi al trauma.

 

Si vedano anche:

N. Losi, Guarire la guerra, L’Harmattan, 2015.

M.-R. Moro, R. Finco (a cura di) Minori o giovani adulti migranti?/Mineurs ou jeunes adultes migrants?, testi bilingue, L’Harmattan, 2015.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Nella narrazione storica esiste una patologia?

Ninnananna per il sonno della ragione

$
0
0

Calano dall’alto figure imbozzolate, raggomitolate. Spogliate di tutto, se non del loro potere perturbante – esibito in modo diretto, brutale. Non geometricamente, ma psichicamente al centro della grande sala bianca – l’«Artist Room» che presenta parte della collezione permanente del museo, al quarto piano della Tate Modern – il grande ragno metallico nero, i cui lunghi artropodi alieni poggiano sul parquet lucido e liscio (sarà esposto qui sino alla metà dell’anno prossimo). Non è il primo ragno scolpito da Louise Bourgeois, ma in molti sensi è il definitivo. È un lavoro realizzato nel 1999, quando l’artista ha quasi novant’anni, e il suo titolo semplicemente è Maman.

 

Louise Bourgeois, Maman Turbine Hall.

 

Nelle teche tutt’attorno sono esposti alcuni manoscritti di Bourgeois, diari e lettere dalla brutalità non diversa da quella delle sue sculture (in italiano si leggono nel volume Distruzione del padre/Ricostruzione del padre, a cura di Marie-Laure Bernadac e Hans-Ulrich Obrist, edito da Quodlibet nel 2009). In uno di essi si legge: «il ragno è un’ode a mia madre, lei era la mia migliore amica. Come un ragno, mia madre era una tessitrice e, come i ragni, mia madre era molto intelligente. I ragni sono presenze amichevoli che mangiano le zanzare, sappiamo che le zanzare diffondono malattie e sono quindi superflue. I ragni invece sono utili e protettivi, proprio come mia madre». In analisi per più d’un trentennio, negli ultimi anni Bourgeois non si peritava di esplicitare riferimenti psicoanalitici nei suoi scritti e anche nei titoli dei suoi lavori (come Arch of Hysteria, del ’93, pure esposto a Londra); sapeva bene quale grado di ambivalenza queste parole denotassero, tanto nel suo concetto di maternità che in quello di protezione.

 

Animale Custode che mi protegge da chi mi chiama Brufolosa e Fenomeno da Baraccone, 75x170, Francesca, Atelier dell'errore.

 

Non è la prima volta che a colpirmi tanto sia una sincronicità di immagini. Quello stesso pomeriggio infatti, all’Istituto italiano di cultura, Marco Belpoliti mi presenta Luca Santiago Mora e un libro che non mi lascia illeso. L’indomani arriveranno a Londra alcuni dei ragazzi che ha in «cura»: i ragazzi dell’Atelier dell’Errore le cui immagini sono riprodotte nel volume che, con legittimo orgoglio, Santiago Mora mi mostra. L’Atlante di zoologia profetica, magnificamente stampato da Corraini in collaborazione con la Collezione Maramotti di Reggio Emilia, su progetto grafico di Paola Lenarduzzi (pp. 258 ill. col., € 45), ha a sua volta in copertina, infatti, un gigantesco ragno metallico. Una somiglianza tanto più perturbante quanto più casuale. Perché chi ha realizzato, a matita e acquerello, l’immagine dell’Immane RagnoFerro di Curnasco sono tre degli adolescenti (i loro nomi sono Niccolò, Nuru e Nicolas) che dal 2002, al reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’AUSL di Reggio o all’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, oltre ai medici che li hanno in cura, hanno trovato un tipo che li «cura» in un altro modo: Luca Santiago Mora, appunto. Che li descrive così: «Cartella clinica con difficoltà in ordine sparso. Fra le più frequenti: ritardi più o meno gravi, difficoltà di apprendimento, dislessie, disprassie, sindromi dai nomi aggraziati e quantomai traditori (Turette, X-fragile...), ipercinesi, fino al misterioso e onnivoro contenitore dell’autismo. Il politicamente corretto più aggiornato li chiama: ragazzini con problemi».

 

Limmane ragnoferro di Curnasco, 300x240, 2015, autori vari, Atelier dell'errore.

 

Il tipo mette loro in mano pastelli matite pennelli, fogli di carta belli grandi (le dimensioni sono importanti: l’originale dell’Immane RagnoFerro misura tre metri d’altezza; e l’Atlante, che già è di 21 x 28 cm, per far spazio ai mostri più lunghi – come i libri d’una volta, che oggi nessun editore vuol più fare –, impiega meravigliose, grandi pagine a soffietto) e due regole semplici, le uniche. Primo: si disegnano solo animali. Secondo: è vietata la gomma da cancellare. Ogni svista, lapsus, appunto errore commesso dai ragazzi resterà sulla carta: estroflesso, espulso come i mostri da loro immaginati – e oggi esposti al Museo di Storia Naturale di Bergamo ma, da qualche anno, in giro per l’Italia e il mondo (a Londra, nientemeno che al Frieze). «Andare avanti piuttosto, proseguire sempre da quel che c’è, per quel che si è», spiega Luca, «che è un po’ quello che si capisce della vita, da grandi. Nobilitare una sconfitta, trasfigurarla in qualcosa di inatteso, di inaspettato, di insperato».

 

Vendicatore di Notte che divorisce dei compagni di classe che io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo, 120x200, 2013-2015, autori vari, Atelier dell'errore.

 

Le Bestie stesse, sono frutto di un Errore: «dicono che quelle bestie lì, sono quelle che non hanno dato retta a Noè, e non ci son volute salire in quell’Arca venuta su in mezzo al deserto, o sono arrivate in ritardo, come sempre, come a scuola».

Alle spalle di quest’idea – Santiago Mora non lo nasconde – un retroterra concettuale fortemente connotato. L’arteterapia, l’art brut di Jean Dubuffet, l’arte relazionale di Joseph Beuys, gli «outsider» di Harald Szeemann (non casuale, fra le testimonianze e i veri e propri saggi raccolti da Belpoliti, e che commentano le immagini del libro – di psichiatri e psicoanalisti, scrittori, persino un teologo –, quella di Massimiliano Gioni, che nel Palazzo Enciclopedico all’edizione 2013 della Biennale di Venezia ha esplicitamente raccolto il testimone di Szeemann; e che applica alle immagini il paradigma deleuze-guattariano della sovversione linguistica operata dalla «letteratura minore»).

 

Pangolino che sta vomitando per farsi notare da una femmina, 50x70, 2014, autori vari, Atelier dell'errore.

 

Così come titolo e concept dell’«Atlante» non possono non far pensare al Manuale di zoologia fantastica compilato nel 1957 da Borges con Margarita Guerrero. Eppure, rispetto a questi precedenti, di fronte alle immagini (e ai testi coi quali le accompagnano) dei ragazzi dell’Atelier dell’Errore si resta convinti che l’iniziativa di Santiago Mora attinga a strati più remoti – e più rivelatorî. E che a consentirglielo sia la strada più diretta che ha preso: con brutalità diversa, ma non inferiore, a quella di Louise Bourgeois. Per citare il parallelo più eloquente: se Borges presenta il suo lavoro come un campionario arbitrario e non esaustivo (perciò la seconda edizione del libro, quella pubblicata dieci anni dopo col titolo Il libro degli esseri immaginari– su cui si basa la versione curata nel 2006 da Tommaso Scarano per Adelphi –, appare meno compatta e sorprendente) dell’immenso repertorio ammassatosi nei secoli nelle diverse culture d’Oriente e d’Occidente, i ragazzi dell’Atelier – che pure mostrano, oltre che miracolose attitudini alla forma e al colore, una sorprendente competenza nella nomenclatura scientifica – gettano sulla carta in modo diretto, senza sovrastrutture culturali né psicoanalitiche, il materiale psichico che tanto ci vulnera.

 

Verme Assassino che mangia tutti quelli che attraversano il mare, 70x200, 2014, Nuru, Atelier dell'errore.

 

Fra gli scrittori che conosco, una simile violenza appartiene solo a Kafka (l’autore più citato da Borges, nel suo Manuale) e a Landolfi (a dispetto della psicoanalisi da lui padroneggiata – diceva bene Calvino – in funzione difensiva, dissimulatoria). Quando m’imbatto nel mio mostro preferito, Lo Squalatore Sessuale che si bacia le ferite (un immenso verme verde bimembre, un cui corpo versa nell’altro il proprio contenuto immondo), o nel Verme Assassino che mangia tutti quelli che attraversano il mare, non posso non pensare alla rutilante fantasia del Mar delle Blatte, e al modo in cui le Perturbanti Presenze di quella visione, come il Gran Verme che si ergerà a suo rivale sessuale appunto, fuoriescano dalle vene del mite, grigio protagonista, Roberto Coracaglina (a sua volta destinato a metamorfosarsi in Alto Variago), che s’è ferito a un avambraccio. È dagli strati più profondi della psiche che provengono i mostri; spiega Giuseppe Di Napoli, nell’Atlante, che quanto vi si vede «non è la semplice restituzione dell’impressione retinica prodotta da un flusso ottico, ma è un substrato di immagini molto più denso», originate da tracce «mnestiche, oniriche, simboliche, chimeriche».

 

Io sono il capo del Platavernia che mi protegge da Vittorio Barale, 70x30, 2015, Dylan, Atelier dell'errore.

 

E non è un caso che a farli apparire sia l’«ingenuità così perversa», come la chiama Ermanno Cavazzoni, dei bambini. Lo diceva del resto lo stesso Borges, nella premessa alla prima edizione del suo libro (opportunamente riportata nell’edizione Adelphi): «il bambino è per definizione uno scopritore», ed è lui a farci capire il modo in cui certe figure simili sono apparse a latitudini remote e in tempi così lontani: «ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini». Non è un caso che si riferiscano a Jung (che com’è noto tanta importanza attribuiva al disegno e alla pittura, dei pazienti e di se stesso), nell’Atlante, analisti e terapeuti come Luigi Zoja, Nicole Janigro ed Eva Pattis.

Non ci sono solo immagini, però, nell’Atlante.

 

Furia buia morte sussurrante, 120x175, 2015, Wael, Atelier dell'errore.

 

I nomi dati alle Bestie dai ragazzi (alcuni dei quali si sono proprio specializzati in questa mansione), lo si sarà già notato, sono irresistibili e sono già, in nuce, delle storie: Furia Buia Morte Susurranteè già un Lovecraft. Commuove il Pangolino che sta vomitando per farsi notare da una femmina (opera di due ragazze, Giulia e Paola; quest’ultima insieme a Matilde, s’intenerisce meno nel concepire un’Animale vendicatrice che attira il maschio con la parte esterna dell’utero). Non manca talora l’ironia – tanto più sorprendente in un contesto simile –, come nel Tritatore di uomini TerraMare a caccia nelle banche di Milano Centrale. A completare queste microstorie le didascalie, dettate dai ragazzi e a loro volta riportate nell’Atlante senza alcun editing. Sotto Io sono il capo del Platavernia che mi protegge da Vittorio Barale, per esempio, si legge: «è grande e quindi divora più di 196mila persone sopra tutto Vittorio Barale che mi picchia nel collo e nella schiena, mi chiama ghiacciolo, mi ruba i soldi e mi fa gli sgambetti di nascosto e io caposcivolo». Si vede qui, come pure in Isopode Fango e Sangue mi dicono mongoloide e io reagisco e mi difendo o in Vendicatore di Notte che divorisce dei compagni di classe che io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo, come – proprio allo stesso modo di Bourgeois – i ragazzi dell’Atelier vedano in questi animali, per quanto ripugnanti e orrorifici, nient’altro che dei Protettori (esplicitamente tale l’Animale Custode di Francesca, che mi protegge da chi mi chiama Brufolosa e Fenomeno da Baraccone). «Questi sono disegni cattivi, cioè incaricati di fare giustizia e vendetta», scrive Cavazzoni (che al suo attivo una Guida agli animali fantastici, Guanda 2011). 

 

Catoblepa che si nutre delle parti molli dei bambini, 125x300, 2014, Francesco, Atelier dell'errore.

 

In questo senso forse l’archi-mostro, quello in cui si concentrano tutte le offese subite e tutte le rivalse sognate, è il Catoblepa che si nutre delle parti molli dei bambini. Il nome stesso di questa Bestia, spiega Borges, vuol dire in greco «che guarda in basso»: e così fa, a differenza del Basilisco e della Gorgone, perché sa bene cosa può produrre il suo sguardo – se solo lo alzasse. Nella Tentazione di sant’Antonio di Flaubert così si rivolge al Santo: «Nessuno, Antonio, mi ha mai visto gli occhi, o chi li ha visti è morto. Se alzassi queste mie palpebre rosate e gonfie, moriresti all’istante». Diceva Louise Bourgeois: «essere un’artista comporta qualche sofferenza. Ecco perché gli artisti si ripetono, perché non hanno accesso a una cura». Non so se una cura i ragazzi dell’Atelier la troveranno mai, né se la stiano cercando davvero. Certo è che, finalmente, hanno alzato gli occhi. E, per chi quegli occhi li ha guardati, cura non c’è.   

  

Presentazione del libro Atelier dell'errore. Atlante di zoologia profetica.

venerdì 16 dicembre | ore 18.30.

Libreria Corraini in Piccolo, Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano.

Intervengono Marco Belpoliti, Paola Lenarduzzi, Luigi Zoja, Eva Pattis, Luca Santiago Mora e i ragazzi dell’Atelier dell’Errore.

 

Questo testo è uscito in una  versione più breve su “Alias”.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Atelier dell'errore. Atlante di zoologia profetica

L’eredità junghiana come individuazione

$
0
0

“Questa, dunque è la mia strada; qual è la vostra? Così rispondevo a coloro che mi da me vogliono sapere la strada. Questa strada infatti non esiste!”

“Voi non avevate ancora trovato voi stessi: quand'ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni credenza è così poco importante. Ora io vi ordino di dimenticare me e di trovare voi stessi, e solo quando voi mi avrete rinnegato tornerò da voi.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra.

 

F. Nietzsche.

 

 

Vietato imitare. Il titolo del primo capitolo del libro nel quale Romano Màdera traccia la sua personalissima maniera di raccogliere l’eredità terapeutico-culturale dell’opera junghiana ci conduce immediatamente al cuore del problema: l'unico modo per restare fedeli all'insegnamento di un maestro che amava dire che grazie a Dio non era junghiano, è rigettare ogni tentazione di assumerlo a modello da imitare. Per raccoglierne davvero l'eredità occorre, scrive Màdera, "abbandonare la via dell'imitazione a favore di quella dell'individuazione". È lo stesso Jung, del resto, a suggerirci di muoverci in questa direzione quando, in Ricordi, sogni e riflessioni, prende le distanze dal convenzionale modo d'intendere l'imitatio Christi:


"Cristo è l'esemplare che vive in ogni cristiano come sua personalità totale. Ma il corso della storia portò alla imitatio Christi, con la quale l'individuo non segue il proprio fatale cammino verso l'interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in oriente lo sviluppo storico portò a una devota imitatio del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perdette di forza, così come l'imitatio Christi fu foriera di una fatale stasi nell'evoluzione dell'idea cristiana."

 

 

Nel Libro rosso Jung – tracciando forse una sorta di inconsapevole double bind – chiarisce che un simile atteggiamento vale anche per il suo insegnamento:


"La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. (...) In noi è la via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli! La vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? (...) Cercate la via? Vi metto in guardia dall'imboccare la mia strada. Per voi può essere quella sbagliata."


Chiunque voglia muoversi in consonanza con l’esperienza junghiana e provare a tesaurizzarne l’esperienza è chiamato al paradossale compito di "universalizzare l'esperienza individuale e individualizzare il lascito universale", in osservanza al motto programmatico junghiano per il quale “il metodo è l’analista”.

 

Come dimostra l'epigrafe che ho scelto di porre in apertura, a una simile conclusione era arrivato anche Nietzsche, che tuttavia non aveva il difficile compito di dare vita a una sua scuola non solo di pensiero ma anche di pratica terapeutica. La citazione non intende dunque sminuire l'originalità della proposta junghiana ma riconoscerla, come invita a fare Màdera, come figlia dello "spirito del tempo", di cui Nietzsche era stato precursore. 

 

"Jung può solo intuire come un rabdomante la corrente che scorre sotto la superficie, non ha né la mentalità né le competenze, per afferrare in modo più complesso e articolato la trasformazione della costellazione di civiltà e della configurazione culturale. (...). Le sue doti intuitive sprigionano però folgorazioni che illuminano a giorno il passaggio dell'epoca. qui sta la pregnanza del suo appello a dismettere imitazione e modelli esemplari."

 

Romano Madera.

 

Intuizioni, come abbiamo visto, particolarmente presenti nel Libro rosso nel quale, secondo Màdera, Jung sperimenta e tesaurizza “l’unione tra biografia e teoria”, realizzando un’alchemica “opera al rosso” che “rimette in questione del suo sapere scientifico e psichiatrico, le linee della psicoanalisi fino ad allora seguita”, affronta – anche grazie all’elaborazione della pratica dell’immaginazione attiva – “l’irrisolta partita dell’esperienza religiosa”, si confronta “con i fantasmi della sua famiglia di pastori protestanti” e si lancia in un vero e proprio “corpo a corpo con Nietzsche”. 

Il tema centrale è infatti “la morte di Dio” e la risposta di Jung al celebre annuncio nietzschiano. Il suo convincimento è che, anziché sentenziare che "Dio è morto, sarebbe più giusto dire che Egli si è svestito dell'effige che gli avevano conferita", per cui "non sarà più ritrovato laddove il suo corpo venne deposto" ma dovrà essere ricercato altrove e in altre forme, come "Dio che sta tra le cose, il mediatore della vita, la via, il ponte, il passaggio", quasi un'anticipazione, commenta Màdera, della "struttura che connette" che sarà teorizzata da Bateson. 

 

Ma questa risposta, aspetto assolutamente saliente, non viene elaborata a livello razionale ma piuttosto ricavata mitobiograficamente. Nel Libro rosso Jung si chiede infatti: "qual è il tuo mito? non vivi più nel mito cristiano, ma in quale mito dunque vivi?". L'iniziale incapacità di offrire una risposta a questa domanda spalanca a Jung, come prima di lui a Nietzsche, le porte al più inquietante degli ospiti: il nichilismo. Un segno dello spirito del tempo. Secondo Màdera, la nietzschiana morte di Dio, la presa d’atto di non vivere più nella narrazione originata dal suo mito, simboleggia la fine del patriarcato che Jung, designato "principe ereditario" dal padre simbolico Freud, vive, dapprima solo inconsapevolmente, in prima persona ma di cui è anche una testimonianza l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando II, principe ereditario dell'impero austro-ungarico, che apre le porte alla Grande guerra.

Una guerra simile, sul piano simbolico, a quella interiore nella quale sprofonda lo psicoanalista svizzero e della quale il Libro rosso ci fornisce un'ampia testimonianza. In esso, osserva Màdera, "il nesso tra la dimensione collettiva e individuale è quindi strettissimo: le figure del dramma personale sono prese dalla storia culturale, il conflitto interiore si specchia nella guerra esterna e viceversa".

 

Carl G. Jung.

 

"Gli uomini – scrive Jung – impazziscono perché non sanno che il conflitto è dentro di loro, e ciascuno addossa il torto all'altro. Se una metà del mondo è in torto, allora è in torto – per metà – ogni essere umano". Differentemente da Nietzsche, Jung impara a fare i conti con la propria Ombra, attraverso una riappropriazione delle sue proiezioni e una compassionevole, anziché superominica, accettazione dei propri limiti, trovando una soluzione al suo personale travaglio e offrendo al contempo la possibilità di "una sorta di clinica del mondo". 

Nascono qui la crescente centralità del simbolo (ciò che mette insieme) e del processo di individuazione (la realizzazione di una condizione indivisa) in Jung. Ma la tesi per la quale ogni esistenza e una teoria ruotano attorno a un particolare mitologema che ne costiuisce il seme e la circonferenza non è junghiana, costituisce piuttosto il principale lascito di Ernst Bernhard, autore che Màdera indica come biograficamente decisivo per il proprio avvicinamento all’esperienza dell’analisi junghiana. 

 

"Forse a me serviva Bernhard per provare a fondo un'esperienza junghiana senza troppi pregiudizi. Il salto dall'impegno politico – e dai ancor più radicati, per quanto allora tracurati, sentimenti religiosi – alla temperie del medico svizzero, blandamente liberale, ovviamente anticomunista, classicamente borghese in alcuni aspetti del suo modo di vivere, mi urtavano non poco." 


Bernhard invece era un ebreo tedesco, socialista sionista, finito nei campi di concetramento fascisti, tra l'altro a Ferramonti, in Calabria, terra per ragioni biografiche cara a Màdera, e si prestava dunque bene a fungere da figura ponte per facilitare l'avvicinamento ad un mondo, quello della psicologia del profondo, che all'epoca Màdera viveva con più di qualche reticenza. Ma a fargli scegliere Bernhard e a spingerlo ad andare in analisi da un suo diretto allievo – Paolo Aite – era stato innanzitutto il titolo dell'unico libro riconducibile allo psicoanalista tedesco: Mitobiografia. In quella formula Màdera scorgeva la possibilità, già intuita autonomamente e trattata filosoficamente, di guardare alla "biografia come ad un punto di incidenza cosmico-storica". Ma, prosegue, "il titolo di Bernhard prometteva un altro scatto, qualcosa che disturbava da sempre ogni indagine razionale, il fondo oscuro del mito innestato nel vivo del biografico, senza troppi schemi e prevenzioni nei confronti dell'inevitabile racconto che in noi mescola, inestricabilmente, gli specchi dell'io ai suoi ideali e alla vita sottostante dell'inaccettabile, dello sgradevole, del rimosso e dell'incompreso. Il continente inconscio." 

 

 

In Bernhard Màdera trova anche riferimenti al taoismo, al buddhismo e all’ebraismo che gli fanno intravedere la possibilità di dare ospitalità, anche nella stanza d’analisi, ai temi e agli aspetti propri di quella che poi, sulla scia di Besret, chiamerà una “spiritualità laica” che “non sia dogmatica, non si appelli a nessuna rivelazione che pretenda di imporsi come l'unica via di passaggio verso la pienezza (…) una spiritualità che raggiunge così ciò che è alla radice delle diverse tradizioni, non in ciò che hanno di più specifico, ma al contrario in ciò che la loro specificità traduce di più universale”. 

 

Ernst Bernhard. 

 

Spiritualità laica, filosofia come esercizio di espansione nella vita quotidiana della ricerca di senso e analisi come clinica del processo di individuazione sono “i tre segmenti”, che compongono la personale maniera nella quale Màdera ha inteso “abbandonare Jung per rilanciarne l’insegnamento”. Un’idea dalla quale, dieci anni fa, è nata Philo, la scuola di pratiche filosofiche che forma alla professione dell’analisi biografica ad orientamento filosofico (abof) e dalla cui costola ha preso quest’anno vita Mitobiografica. Scuola del mestiere di vivere . Ad esse è dedicato l’ultimo capitolo di questa appassionata ed appassionante testimonianza sulla possibile eredità in senso individuativo dell’insegnamento junghiano particolarmente preziosa in questo tempo nel quale “la trasmissione del lascito culturale delle generazioni precedenti è diventata stentata, incerta, a volte impossibile, inutilizzabile, e il canone, generatore di mille variazioni, sembra ormai irricevibile.”  

 

Questo articolo è apparso in forma più breve su La Repubblica.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Romano Màdera. L’opera al rosso

Masochismi ordinari

$
0
0

Sono stato indotto a riconoscere un masochismo primario - erogeno - dal quale si sviluppano due forme successive, il masochismo femminile e quello morale. (Freud)

 

Il masochismo morale fa male… non solo al soggetto, ma soprattutto alla coppia, al partner, alle relazioni. È una conseguenza di quello che Freud ha chiamato il masochismo morale e che si sviluppa quando l’abbandono del masochismo primario erogeno – quello legato ai piaceri forniti dalla madre – risulta incompleto. E allora abbiamo storie che non decollano mai veramente: iniziano, sembrano promettenti ma s’incagliano contro uno scoglio fantasma e restano in secca anche per anni. La non elaborazione del masochismo erogeno, simbiotico, fa mancare il passaggio strutturante e umanizzante al masochismo fondamentale che da quei piaceri primitivi prevede la separazione.

 

Le forme di impasse che incontra un soggetto nel suo cammino verso il masochismo fondamentale e civilizzatore, si fanno intendere in un libro fresco di stampa – Masochismi Ordinari, Mimesis – della psicoanalista Marisa Fiumanò, la quale rileva la difficoltà che c’è oggi nel sottomettersi, appunto, al masochismo fondamentale, cioè a un regime masochista portatore di un limite, moderato, buono (come il colesterolo), temperato, direi, usando una metafora che prelevo dall’armonia musicale. Se questo temperamento riesce con difficoltà ne va di mezzo anche la musica della coppia e il masochismo morale che allora si produce, più spesso nel partner maschile, la guasta. Si tratta di una piaga il più delle volte non rimarginabile: spesso una donna, all’inizio della storia soprattutto, non vede nell’attaccamento alle figure del passato del proprio uomo ciò che impedisce la relazione. Oppure si tratta di relazioni a forti tratti adolescenziali in cui uno o entrambi i partner restano dipendenti, materialmente o moralmente, dai genitori. A volte, al partner che subisce il masochismo morale dell’altro, l’ostacolo non sembra visibile: è la madre immaginaria, quella dei falsi ricordi. È la Madeleine di Proust, quella mai più ritrovabile dopo il primo assaggio, dice Fiumanò. 

 

Pur essendoci anche dei masochisti morali d’eccellenza – come Dostoevskij per Freud, che guarisce dall’epilessia solo quando è deportato in Siberia; oppure Marx secondo Lacan il quale ritiene che un grande ideale morale spesso si connetta a una vita di sacrificio nella vita sessuale e/o sentimentale – i masochisti morali ordinari, quelli che incontriamo nella vita quotidiana, sono soggetti impossibilitati a scegliere una donna, un Altro, e dimostrano questa impossibilità o avendone molte – è il caso del triste dongiovanni, alla fine solo – , o non avendone nessuna; oppure si tratta di quei soggetti che non possono amare, che non ce la fanno a scegliere la donna che vorrebbero (e a volte proprio “dovrebbero“ scegliere, pur facendo la tara del fatto che ogni oggetto è inappropriato a placare la fame del desiderio). Nei masochisti moraliè quasi sempre presente una forma di impotenza, perché la potenza sta tutta dalla parte dell’Altro materno. Il partner che inconsciamente resta legato ai piaceri antichi prende la posizione erotizzata del neonato. Quando il masochismo originario erogeno insiste troppo, avvelena le vite, soprattutto degli uomini (ma, oggi, che siamo in difetto di Edipo, anche di alcune donne). E ciò avviene in maniera più marcata soprattutto laddove esiste un culto collettivo della sacralità della maternità che, dunque, finisce per sostenere il masochismo morale anche a livello del discorso sociale.

 

Ph Tina Modotti.

 

Il libro di Fiumanò non tratta del masochismo nella sua forma perversa, ma del masochismo nevrotico, quello che incontriamo tutti i giorni: quello dell’amica o dell’uomo che amiamo o, più semplicemente, il nostro. Parlare di masochismo sembra oggi fuori tema, dato che il nostro non sembra un tempo in cui ci si sacrifica ma nel quale, piuttosto, si pretende. Eppure, oggi i masochismi ordinari sono una cifra della contemporaneità: in essi ritroviamo sia la radice del narcisismo che quella della violenza, come vedremo più avanti.

 

Per spiegare come funziona il masochismo, Fiumanò sceglie una figura singolare: Totò. Lo sketch analizzato è il seguente: Totò viene schiaffeggiato ripetutamente perché scambiato per un certo Pasquale e non si difende. Interrogato dall’amico sul perché di questa sua arrendevolezza risponde: “Ma scusa, mica sono io Pasquale!” Cosa sta dicendo, Totò? Ci dice, rileva Fiumanò, che il dolore nell’uomo non è animale: non è il corpo animale che prova dolore, ma il corpo soggettivo, quello abitato da una storia. E nel corpo di Totò la storia di Pasquale non c’è, dunque, genialmente, Totò non può soffrirne. Non è a lui che l’ingiuria dell’Altro è rivolta. È qui che s’introduce il fatto che il dolore non è il fine del masochista, ma piuttosto egli accetta la sofferenza – come un corollario, per così dire – come conseguenza del fatto che ci possa essere rapporto con un Altro. Lo schiaffeggiatore non rappresenta un Altro significativo per Totò, quindi anche se la sua guancia è colpita non c’è vera sofferenza. Ciò che è importante per il masochista non è il dolore, ma l’Altro. Non è il dolore che viene cercato nella pratica masochista, tuttavia lo accetta pur di farsi oggetto dell'Altro. Se non c'è l'Altro, che il masochista stesso fatto sorgere, non è pensabile l’eccitazione. Totò non ha “approfittato” del dolore casuale per godere. No, Totò ci indica che per godere della sofferenza bisogna che gli schiaffi siano proprio destinati a noi.

 

Un altro riferimento “leggero” è la fiaba natalizia di Scrooge, tratta dal celeberrimo Cantico di Natale di Charles Dickens. La storia è nota: al vecchio spilorcio Scrooge è data la possibilità di “vedere” la sua vita sotto un altro angolo al risveglio da un terribile incubo e di liberarsi del suo… masochismo narcisistico. Scrooge, cioè, si libera dall’investire le sue energie libidiche unicamente sul proprio io e riesce a investirle anche sugli altri: sul suo dipendente che ha una famiglia con un bimbo malato, oppure accettando l’invito di suo nipote per il pranzo di Natale, invito che Scrooge aveva sempre rifiutato pieno di sdegno. È una fiaba che parla al masochista narcisista che c’è in ognuno di noi: “ognuno di noi rischia di essere Scrooge", dice Fiumanò. Il narcisismo è un masochismo nel senso che la libido è bloccata all’interno: si chiarisce, così, il legame tra narcisismo e pulsione di morte. Il narcisista è un masochista, non lo avremmo visto con tanta chiarezza senza la rilettura folgorante del personaggio di Scrooge. E questo ci fa pensare a ciò che si cela dietro l’immagine senza immaginazione dell’epoca mortifera in cui viviamo.

 

Scrooge è il cattivo per definizione, ma c’è anche il narcisimo del buono, ci ricorda Fiumanò. Chi è la persona buona? Le cosiddette persone buone non esprimono nessuna forma di aggressività perché schiacciate da un pesantissimo senso di colpa e manifestano un bisogno di punizione. I buoni sognano un mondo senza fratture né conflitti, vogliono pensarsi senza ambiguità e doppiezze. Non vogliono rinunciare a niente né perdere niente: questo masochismo morale in realtà copre un inguaribile e inconfessato narcisismo, il narcisismo di chi si vuole ad ogni costo intero, dice Fiumanò, non diviso. In un tempo in cui nessuno si sente più in colpa, il masochista morale ci appare proprio come una brava persona. In realtà il masochista morale – che abbiamo visto far naufragare, soffrendo per primo, la coppia – è colui che rinuncia al proprio desiderio. Cito da Masochismi ordinari: “In questo masochismo morale, nevrotico, si spende la propria vita per rispondere alla domanda dell’Altro – e dei piccoli altri concreti che lo incarnano – e non ci si cura del proprio desiderio, sessuato, di uomo o di donna.” 

Penso a più d’un uomo che quando trova una donna possibile e il legame si stringe, non può che scappare, soffrendo atrocemente. Penso anche ad amici, alcuni molto cari, tutti uomini intelligenti e, contemporaneamente, impossibilitati a fare il salto nel mondo adulto, nel mondo in cui si sceglie una donna e si lascia il passato rappresentato dalla madre. L’ostacolo fantasma è una separazione non fatta coi piaceri primitivi e mette in luce la pulsione di morte insita in alcune fedeltà familiari dall’apparente bontà. Ricorda Fiumanò che Hiltebrand, scherzando a uno dei seminari milanesi organizzati da ALI, ha detto che i comandamenti dicono di amare la madre, ma non di telefonarle ogni giorno. Né di dormire con lei, aggiungo io, per dire di una pratica oggi quotidiana. La psicanalisi contrasta l’incesto non per ragioni morali, ricorda Fiumanò, ma perché esso impedisce al desiderio del soggetto di emergere e di legare la pulsione di morte. La pulsione, quando va alla ricerca del tempo perduto, è mortifera. Nella analisi del geniale film greco The Lobster (di Lanthimos), che si trova in Epilogo a Masochismi ordinari, l’autrice scrive che il film dimostra come una dittatura sia possibile solo sollecitando proprio il masochismo originario, primitivo, del singolo.


I piaceri fuori tempo e senza argine diventano tossici. È il masochismo del Reale, di cui possiamo parlare dopo la teorizzazione del Reale di Lacan: è il masochismo più duro, quello delle dipendenze. È quello in cui una Sirena malevola chiama il corpo allo sfinimento e all’anestesia al dolore, come nell’anoressia, nella bulimia, e nelle malattie somatiche, e a volte anche in alcune degenerative o autoimmuni. Anche la malattia può essere una droga e può contenere una sua perversa ebrezza. Il masochismo è una forma di tossicomania, dice Fiumanò.
Il masochismo del Realeè un buco oscuro nei confronti del quale anche l’analista deve fare voto di castrazione, calmierare la sua hybris sanandi, per dirla usando un bilinguismo un po’ atroce, perché si tratta di godimenti più forti persino del godimento sessuale. Spesso più forti del transfert.

 

Ph Tina Modotti.

 

C’è una via d’uscita? Freud, lo sappiamo, non è molto ottimista per il futuro dell’umanità e taglia corto con l'idea del progresso: la civiltà è sempre messa rischio e non c'è bandiera politica che possa metterci al riparo una volta per tutte dalla barbarie pulsionale, ricorda Fiumanò.

Però, a questo proposito, il libro offre pagine intense sul masochismo fondamentale, vero cuore del testo, introdotto da un ricordo personale, affettivo, della maestra elementare di Marisa Fiumanò che bacchetta con tocchi lievi ma soggettivizzati (e soggettivizzanti) le mani degli scolari e delle scolare, introducendo così il tempo del lavoro e della differenza sessuale. Questo ricordo è collegato da Fiumanò al fantasma trattato da Freud e ripreso da Lacan, definito un bambino viene picchiato. Si tratta di un fantasma del masochismo fondamentale che mette in scena la sottomissione di entrambi i sessi alla legge del linguaggio e che è regolatore della differenza sessuale: il masochismo fondamentale consiste in questa forma di sottomissione… per non soccombere.


Nel masochismo fondamentale si tratta di rinunciare a un po’ di godimento tossico per lasciare che la castrazione faccia il suo, direi, democratico lavoro ed eviti, così, la perversione e la psicosi. Quando De Niro in C'era una volta l'America di Sergio Leone, alla domanda di Moe “cosa hai fatto in tutti questi anni?” risponde “sono andato a letto presto la sera”, cosa dice? Oltre che citare l’incipit del romanzo di Proust, ci dice forse che dopo una vita banditesca di eccessi e violenze, si può abbracciare quel masochismo fondamentale– che qui prende la forma del coricarsi presto invece di bere, drogarsi e compiere azioni criminali – e che ci fa accettare la nostra finitezza e quel limite che solo ci permette di riuscire nella vita: non a caso il senatore, cioè il vecchio compagno di banditismi di De Niro, che si è solo ripulito un po’ ma che non è passato dalla castrazione, si suicida. Il masochismo fondamentale è quello che ci permette di amare, lavorare, pensare, realizzare, in una parola sublimare, anche se non siamo artisti o scrittori o pensatori: e questo è un punto fondamentale della sublimazione, che tengo a sottolineare. Anche la lettura, se non è vissuta come essere riempiti dalla grande “tetta" del libro, ma se si trasforma in una lettura attiva che ci confronta col testo, è sublimazione. Ma anche apparecchiare una tavola per un ospite improvviso senza molte risorse in casa, lo è. La sublimazione è per tutti, anche lei è democratica! E, per tutti, passa da questo masochismo civilizzatore che si raggiunge attraversando la castrazione e che mi pare che offra anche un argomento solido al legame tra castrazione e democrazia, così come lo sprofondamento nell’assenza di limiti è ciò che la dittatura sollecita. Il masochismo fondamentaleè quello che subisce poderosi colpi nell’attualità e che invece va recuperato pena l’infragilimento strutturale dell’umanità stessa.

 

E arriviamo, infine, al masochismo femminile, quello che… non esiste. Le donne non sono masochiste, dice Lacan. Fiumanò puntualizza in maniera radicale che piuttosto che parlare di masochismo femminileè preferibile, seguendo la traduzione di Renata Colorni, dire femmineo. Oppure, secondo la definizione della stessa Fiumanò, a cui aderiamo, meglio ancora dire masochismo femminile dell’uomo. Cito da Masochismi ordinari: “Nei termini posti da Freud la questione non lascia adito ad alcun dubbio: il masochismo femminile riguarda gli uomini, sono loro a parlarne, è un fantasma maschile. Freud precisa che ha ricavato le fantasie masochiste dalle testimonianze dei suoi pazienti maschi (subire il coito, partorire)... Anche se ha a che fare con un fantasma maschile, le donne, in qualche modo, lo assecondano, lo incarnano, lo rappresentano. Questo fantasma fa parte del dialogo tra i sessi... le donne assumono il sembiante di "a"– l'oggetto causa del desiderio – ma non credono affatto di essere "a"... le donne danno solo a vedere di prendersi per l'oggetto”.

 

La donna non si prende davvero per oggetto causa di desiderio dell’uomo, ma fa sembiante di prendersi, si veste da “a”; “a” è un abito; è una finzione che serve alla causa dell’incontro, del dialogo tra i sessi, dice Lacan. Una donna si apparecchia da sembiante, indossa la sua “a” migliore. Purtroppo, a volte ci sono uomini che credono davvero ad “a”, a una donna scintillante, come se dovesse essere sempre così, anche quando, struccata, dorme. 

Il masochismo in una donna è, dice Fiumanò, una “mascherata” della femminilità (fare la poverina, o la bambina). Un’astuzia che sostiene l’incontro sessuale: eroine del desiderio, le chiama l’autrice

Ma il sembiante di una donna non è coestensivo della soggettività di una donna: una donna è ben più del sembiante che gioca nelle relazioni sociali e amorose. C’è una specie di diplopia (essere e non essere “a”) che tocca il femminile: le donne sono costrette a vedere doppio, dice Fiumanò citando la tesi di Jean Marie Forget. Da un lato possono leggere i propri significanti e dall’altro riescono a leggere quelli dell’uomo. O anche, contemporaneamente: lettura del proprio fantasma e lettura del posto che l’uomo le assegna nel proprio di fantasma. È una lettura che, quando va bene, una donna impara dalla madre.


C’è un punto, però, che sembra contraddire l’inesistenza del masochismo femminile ed è il caso delle donne che subiscono violenza: l’estrema dedizione all’uomo che si nota in questi casi, dice Fiumanò, è ancora oscura, ma l’etichetta di masochismo non basta. È nella seconda tappa del fantasma “mio padre mi picchia” il luogo in cui va rintracciata la radice di una predilezione, quel “mi picchia, quindi mi ama” che troviamo nelle dichiarazioni di alcune donne. È un comportamento masochista – contingente, non strutturale, dice Fiumanò – che asseconda l’uomo fino all’eccesso (un eccesso imparato dove?, mi sono chiesta in un altro articolo pubblicato qui su Doppiozero:  e che preserva loro un posto d’elezione: essere scelta, essere riconosciuta come unica, fosse anche l’unica capace di sopportare la sua violenza. A costi altissimi, si preserva una identità (moglie, madre, compagna) – è la tesi di Fiumanò – una identità non più soggetta alle erranze perturbanti del femminile. La causa di tutto questo sopportare sarebbe, dunque, una ricerca d’identità. Un mezzo imperfetto, immaginario, per trovare un posto nell’ordine simbolico. E nell’“amore” dell’altro, aggiungerei. Una scorciatoia masochista, non un masochismo vero e proprio. 

 

Anche qui – e così concludiamo ricongiungendoci all’inizio del ragionamento – il soggetto attraversa il dolore purché l’Altro lo veda e ne definisca i contorni del corpo, foss’anche coi lividi. Le donne non vogliono essere rifiutate, dice Fiumanò e, paradossalmente, per questo possono prendere il posto di un oggetto di scarto ma solo sotto il segno di una scelta identitaria masochista che funziona da strategia per evitare modi più complessi per entrare nell’ordine simbolico. Certamente questa è una questione enorme e che resta aperta. Qui Fiumanò offre spunti di riflessione che vanno al cuore dell’enigma degli abissi femminili e di cui non è possibile squarciare definitivamente il velo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La radice del narcisismo e della violenza

Alain Badiou. Oltre il dire

$
0
0

Nel corso dell’anno accademico 1994-1995, Alain Badiou dedicò il suo seminario allo studio dell’opera di Jacques Lacan, definito dallo stesso Badiou un ‘compagno essenziale’: di quel seminario, pubblicato in Francia nel 2013, è finalmente uscita la traduzione italiana, (A. Badiou, Lacan. Il seminario. L’antifilosofia) grazie al pregevole progetto editoriale della casa editrice Orthotes e all’accurata e rigorosa traduzione del filosofo Luigi Francesco Clemente.

 

 

Come noto, questo seminario si inscrive in una più ampia operazione speculativa che vide il filosofo francese impegnato a misurarsi con le posizioni teoriche di quattro grandi pensatori – Nietzsche, Wittgenstein, San Paolo e, per l’appunto, Lacan – accomunati dalla medesima passione “antifilosofica”. La presenza di Lacan in questo elenco è giustificata da Badiou in virtù dello sforzo dello psicoanalista parigino nel promuovere un ritorno a Freud emancipato dalla deriva ermeneutica che qualificava (e, tuttora, qualifica) gran parte dell’arcipelago psicoanalitico postfreudiano, rivitalizzato, al contrario, dall’introduzione di una nuova categoria concettuale: il reale.

 

Questa è stata, in effetti, la vera ‘invenzione’ di Lacan, la sua autentica innovazione, il contributo più importante allo sviluppo della teoria psicoanalitica: la sistematizzazione teorica di una dimensione dell’esistenza umana che la cura psicoanalitica mette in evidenza in maniera inequivocabile, come insistenza, ostinazione, inerzia di un nocciolo di esperienza non simbolizzabile, non elaborabile, né conoscibile né inconoscibile, resistente alle lusinghe dell’interpretazione e al potere della parola. Ed è intorno a questo concetto che Badiou fa ruotare il suo intero insegnamento annuale, ponendo al centro della sua riflessione la grande questione dell’atto analitico, questione, a ragione, considerata come l’inequivocabile segnale del carattere antifilosofico del lavoro di Lacan. Laddove l’atto filosofico, infatti, è l’atto – sostiene Badiou – attraverso il quale il filosofo ‘si appaga’, raggiunge la beatitudine garantita da un guadagno di sapere, da un surplus di conoscenza, dalla ricerca di una verità che sembra finalmente rivelarsi, l’atto analitico è l’atto che il soggetto compie quando ‘non c’è che la possibilità di scelta’, l’atto al quale il soggetto è condotto per smarcarsi dalla propria (nevrotica) impotenza e assumere la condizione di impossibilità alla quale l’umano è strutturalmente condannato (elevazione dell’impotenza a impossibile che, secondo Badiou, dovrebbe contraddistinguere la filosofia in generale), l’atto che pone il soggetto di fronte all’orrore dell’assoluta assenza di garanzia.

 

L’atto analitico è la ‘postura’ attraverso cui il soggetto si misura con il limite dell’ermeneutica, con il reale inteso come scarto ineliminabile dell’operazione significante, con ciò che ogni analisi – aggiunge acutamente Badiou – ha il compito di ‘dimostrare’, de-montrer piuttosto che montrer. Laddove, pertanto, la comunità analitica postfreudiana pone la ricerca del senso del sintomo, del suo significato, della sua costruzione storica e soggettiva al centro dell’operazione di cura – supponendo (ingenuamente, direi) che una eventuale comprensione delle cause sia in grado di intaccare l’economia libidica – la psicoanalisi lacaniana muove in una direzione differente: consapevole dell’impotenza della parola di incidere compulsioni ripetitive di particolare gravità, afferma la necessità di passare attraverso un uso speciale del significante, attraverso un dire non più legato alla semplice decifrazione (dunque, allo svelamento di un senso sepolto, in attesa di essere riportato alla luce), ma all’indicazione del valore di godimento che lo stesso significante include (al di là di ogni riferimento a un possibile significato), alla ‘superficie’ del significante (per nulla superficiale), all’inconscio reale nel suo valore di lettera piuttosto che di significante.

 

L’atto analitico, pertanto, testimonia lo sforzo del simbolico di ‘toccare’ il reale, la sua unica possibilità di ‘raggiungerlo’: indica la sua ambizione di modificare l’attitudine pulsionale sintomatica e di intervenire nel dispositivo di godimento inconscio in modo permanente. Qualcosa, dunque, di assolutamente eccentrico rispetto all’operazione filosofica: la psicoanalisi di Lacan, afferma Badiou nell’introduzione, è un dialogo continuo tra nodo e taglio, labirinto e interruzione, sentieri tortuosi e schiarite rischiose, tutt’altro che un progressivo e lineare percorso di disvelamento della verità soggettiva. Si comprende, in questo modo, il profondo debito che il pensiero di Badiou ha nei confronti dell’elaborazione teorico-clinica di Lacan: debito che, come ci ricorda Clemente, lo stesso Badiou ha più volte dichiarato di avere, riconoscendo esplicitamente il legame di alcune delle sue proposte più innovative con spunti di riflessione provenienti dai seminari di Lacan. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
L'atto analitico: eccentrico rispetto all’operazione filosofica

Giuseppe Berto, Il male oscuro

$
0
0

Una volta, parlando di David Foster Wallace, un tale di mia conoscenza, con voce contrita, mi domandò: “Ma perché si è ucciso?”. Me lo chiese come se io fossi l’esecutore testamentario di David Foster Wallace, o il suo miglior amico, o – cosa ancor più improbabile – il suo psicanalista. “Immagino perché stava molto male”, furono le uniche parole che mi uscirono di bocca. Poi ci pensai un po’ e lo invitai alla lettura di Una cosa divertente che non farò mai più (in Italia è pubblicato da minimum fax con la traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo), il più comico, stralunato, angoscioso, farsesco reportage letterario moderno, la cronaca umoristica di una settimana di crociera ai Caraibi commissionata dalla rivista «Harper’s» in cui Wallace, attraverso l’osservazione della fenomenologia dell’industria delle crociere extra-lusso, arriva a toccare il cuore marcio dell’America e, con esso, il cuore marcio di tutti noi accoliti dell’internazionale dei depressi. 

 

In realtà lo stesso Wallace, in Infinite Jest, aveva scritto: “La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme”, donandoci quella che reputo una delle più azzeccate descrizioni dello stato d’animo di un depresso terminale. Ma se avessi portato ad esempio questo passaggio di Infinite Jest, probabilmente non avrei fatto centro. Capii che il mio conoscente mi aveva rivolto quella domanda, con quella precisa modulazione vocale, non perché si aspettasse da me una spiegazione ad effetto – niente teatro, né melodramma – ma perché ravvedeva in me una sorta di autorità in materia di depressione (non ho ovviamente, e per fortuna, alcuna autorità in merito, se non l’autorità che mi deriva dall’essere un habitué di lungo corso dei cosiddetti “scompensi depressivi”). O, insomma, seppure inconsciamente, sentiva che, riguardo al rapporto fra scrittura e depressione, avrei potuto forse avere qualcosa di interessante da dire, un mistero da svelargli, e non – si badi bene – un mistero qualsiasi, ma il mistero dei misteri, che avrei potuto portare insomma la luce nel profondo mattatoio emotivo di uno scrittore affetto dal male di vivere.

 

Sono convinto che oggigiorno ci sia in giro una gran voglia di ridere, più che in ogni altro tempo. Io stesso passo le giornate ad avere voglia di ridere, a cercare il comico in ogni cosa. Ma questo non significa che siamo persone allegre. Anzi, secondo me significa l’esatto contrario. Robert Musil, in Pagine postume pubblicate in vita, ha scritto: “Il cavallo, se così si può dire, ha quattro ascelle e perciò soffre il solletico il doppio dell’uomo”. C’è un risvolto nella depressione che spesso è sottovalutato quando si tenta di definire la depressione, e che a mio giudizio è invece essenziale. È qualcosa che ha a che fare con la disillusione, ma che rappresenta in fondo la principale difesa del depresso dalla canicola insopportabile del palazzo in fiamme: è la profonda, a volte feroce, inestinguibile, sete di ironia attraverso cui il depresso filtra la propria visione del mondo. Gli scrittori depressi ricorrono all’ironia più spesso degli scrittori non depressi. Questo è un dato di fatto. Lo scrittore depresso, in un certo senso, ha quattro ascelle. Come il cavallo.

 

Ph Joel-Peter Witkin.

 

Non è quindi un caso che due tra le opere letterarie che rispondono meglio alla domanda cos’è la depressione, o se si preferisce, com’è il mondo visto attraverso gli occhi di uno scrittore depresso, siano in buona sostanza – tra le altre cose – due testi potentemente comici. L’uno, appunto, il famoso reportage sulle crociere di David Foster Wallace, l’altro uno dei massimi capolavori in controcanto del Novecento italiano: Il male oscuro, di Giuseppe Berto. 

 

Il protagonista de Il male oscuro– recentemente ripubblicato da Neri Pozza con una postfazione di Carlo Emilio Gadda e una nota di Emanuele Trevi – è un intellettuale di provincia che, in seguito alla morte del padre avvenuta per tumore, entra in una fase di depressione acuta. Il pensiero del padre morto diviene il suo assillo principale, ma anche l’innesco di un’ossessione più ampia che riguarda i due diversi ambienti in cui il male può attecchire: il corpo, sottoposto alla minaccia-fantasma del cancro; e la psiche, insidiata da nevrosi di ogni genere. I due mali di cui soffre (o di cui crede di soffrire) arrivano a fondersi in uno solo, e trovano sfogo in un violento disturbo psicosomatico che lo conduce in sala operatoria, da cui poi uscirà senza che nulla gli venga riscontrato. La scrittura del libro diventa allora un procedimento di indagine su se stesso, la prima terapia contro quel particolare male che Gadda, ne La cognizione del dolore, ha definito oscuro.

 

La prima volta che lessi il romanzo di Berto lo feci su suggerimento di un amico scrittore, il quale me lo consigliò come farebbe un medico che prescrive a un paziente un farmaco contro l’insonnia. Ero naturalmente alle prese con uno dei miei periodici scompensi e avevo raggiunto quel fondo senza nome che noi depressi crediamo di toccare ogni giorno, con la stessa sorpresa dell’astronauta che conquista un pianeta vergine convinto di essere il primo nell’universo a metterci piede, salvo poi scoprire che sotto la polvere è pieno delle ossa degli astronauti che l’hanno preceduto. Il mio motivo sconfortante era direttamente legato ai tentativi di cimentarmi nell’arte del romanzo, tentativi che vado ripetendo da anni senza successo. Ciò che mi demoralizzava, tuttavia, non era – come nel racconto di Berto – l’assillo della gloria che non veniva (non sono questi i tempi che un giovane sano con delle aspirazioni letterarie possa vagheggiare una cosa tanto inconseguibile come la gloria); era tutt’altro: era la sopraggiunta sfiducia nelle possibilità del romanzo, la sostanziale convinzione che questo genere letterario non fosse lo strumento più adatto per disseppellire le mie pulsioni emotive, il magma che sentivo ribollire nel profondo della mia psiche e che aveva la pesante responsabilità di rendermi, per così dire, inabile alla vita. 

 

Quindi, ecco, ero depresso per colpa del romanzo, perché non credevo più nella sua funzione. Facile. Ma, a pensarci bene, mi sembrava già allora una colossale boiata con cui tentavo di chiudere gli innumerevoli conti che avevo in sospeso fin dalla più tenera età, e che giudico essere gli autentici responsabili delle mie nevrosi. Senonché, su quello che reputavo un pianeta vergine, erano sepolte nientemeno che le ossa di Francis Scott Fitzgerald, il quale – come riporta proprio Trevi nella nota di chiusura di quest’ultima edizione de Il male oscuro– nel 1936 pubblicò un reportage per «Esquire» in cui denunciava la propria malattia (guarda caso la depressione), additandone come principale causa proprio il genere letterario del romanzo, genere che – a lui sì – aveva già ampiamente garantito la gloria, e dichiarandolo ormai inadatto a “trasmettere emozioni e pensieri da un essere umano all’altro”.

 

E cosa trovai di salvifico ne Il male oscuro? A dire il vero niente. O niente di strettamente salvifico, ma forse tutto ciò che poteva essermi utile a distribuire il contenuto del mio personale vaso di Pandora in tanti vasetti più piccoli e maneggevoli. Poiché il romanzo di Berto non è che un’ossessiva ricerca della radice infetta che determina la disgrazia dell’io, ma è anche e soprattutto una gigantesca messa in discussione dei canoni della scrittura, o meglio, un’abdicazione della scrittura artistica in favore della scrittura terapeutica; vale a dire uno stravolgimento delle finalità del romanzo, e quindi la sua definitiva messa in discussione. La genesi stessa dell’opera, scritta in due mesi a Capo Vaticano in una casetta sospesa sul mar di Calabria, ci dice che Berto, su suggerimento del proprio terapeuta, tentò di sfidare un classico blocco creativo cimentandosi in un altrettanto classico tema psicoanalitico, ossia la “lunga lotta col padre” di cui si legge fin dall’incipit. E lo fece scardinando punteggiatura e sintassi com’era di moda nei medesimi anni presso gli scrittori beat. L’opera è quindi il resoconto di questa duplice lotta, da una parte contro il romanzo dall’altra contro il padre (è possibile perfino che il romanzo e il padre, alla fine, siano la stessa cosa). E tutto ciò per che cosa? Berto dice per la gloria.

 

“Io punto alla gloria che può venirmi anche dopo morto però lo saprò bene anche da vivo se mi verrà la gloria dopo morto”. Questo genere di gloria è la capacità che hanno i veri artisti di tramandare ai posteri il modo di pensare e di vivere della propria epoca, di condensare in una capsula l’odore del presente, di eternare se stessi e il proprio tempo; la gloria cioè è la capacità di ognuno di trasformare un ricordo diretto in un ricordo collettivo. Gloria quindi come liberazione, nominanza che corre per il mondo, fine d’ogni pena (o, di converso, riproposizione ad aeternum di quella pena).

 

Ph Joel-Peter Witkin. 

 

Ma la faccenda, nel caso de Il male oscuro, si tinge di sfumature grottesche. Perché la gloria a cui Berto puntava, qui transita per il racconto di un’ossessione, l’ossessione del padre morto di cancro, e per il cancro stesso che Berto teme sia passato dalla pancia del padre alla sua (come poi effettivamente succederà nel 1978, ponendo fine alla sua vita terrena), innervandosi come una condanna decretata a causa delle proprie distrazioni di figlio. “Vuoi vedere” – scrive Berto – “che io sono proprio così ho il mio cancro letale racchiuso nella pancia, santo cielo m’ero già accomiatato dal mondo e dalle disgrazie mie ed ora eccomi di nuovo qua a ricominciare da capo, chissà mai in quale modo tremendo avrà architettato di farmi morire colui che vuole la mia morte, ma che male gli ho fatto in fin dei conti, va bene l’ho abbandonato nel trapasso però lui ostentatamente non sapeva che farsene di me quando gli stavo vicino”. 

 

Trovo curioso il fatto che, sostituendo “il mio cancro letale” con “la mia depressione”, si otterrebbe una lettura diversa ma ugualmente sensata del sopraccitato periodo. O rimpiazzando “colui che vuole la mia morte” – qui inteso come il padre – con un riferimento al genere del romanzo, o al blocco dello scrittore, o ai tre capitoli dell’opera rimasta abortita a cui Berto allude continuamente nel corso del racconto autobiografico, si toccherebbe il senso profondo di questa colossale paralisi artistica: lui [il romanzo] ostentatamente non sapeva che farsene di me quando gli stavo vicino. Ed ecco servito il Novecento in tutto il suo splendore! 

Lessi quindi il romanzo di Berto in questa chiave, cioè mentre cercavo la cura per guarire dalla sfiducia nelle possibilità del romanzo, non facevo che trovare conferme al mio sentimento di inadeguatezza. Vale a dire, cinquant’anni prima di me, nelle pagine de Il male oscuro, Giuseppe Berto aveva sfidato il drago viso a viso, lo aveva combattuto e sconfitto (davvero sconfitto?), e in ogni caso adesso mi spingeva al cospetto della sua enorme carcassa purulenta. Fatto sta che, da allora, Il male oscuroè diventato per me il drago dai cento volti, l’incarnazione letteraria di tutti i miei fantasmi, i fantasmi letterari e quelli psicoanalitici.

 

Nell’appendice a Il male oscuro Berto scrive: “Della mia nevrosi potrei dire come del suicidio di Pavese: non mi è venuta per questo, ma sicuramente m’è venuta anche per questo. La nevrosi è una malattia basata sulla paura. Paura di tutto: della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futuro. Per uno scrittore è, particolarmente, paura di scrivere”. Non c’è al mondo, credo, un mestiere più legato alla depressione, di quello dello scrittore. La depressione è, semplificando all’estremo, la fatica di essere se stessi (Achille Campanile definiva così lo scrittore: “Spettatore di se stesso. Spesso, l’unico spettatore”). Ma solo dopo aver incrociato nella mia vita l’opera di Berto ho capito come avrei potuto replicare alla domanda di quel conoscente su David Foster Wallace – “Perché si è ucciso?”. 

Risposta: per la paura di scrivere. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La depressione e la scrittura

Il senso morale carta vincente dell'evoluzione

$
0
0

Da sempre, in forme più o meno ingenue, ci poniamo le stesse domande di BC, il protagonista dell'omonimo fumetto ambientato nella preistoria, creato dall'americano Johnny Hart negli anni Cinquanta: «Chi siamo? Donde veniamo? Ove andiamo?». Le risposte suggerite nel corso del tempo, oscillano tra sentimenti e visioni del tutto opposti, ciascuno tipico di una tappa o di una fase nel progredire della cultura. Così, dopo esserci immaginati umilmente servi degli dei, ci siamo sentiti orgogliosamente figli prediletti di Dio; poi, democraticamente, animali tra gli altri e infine, freudianamente, animali come gli altri ma dotati di spaventosi sensi di colpa e tremende frustrazioni. Il progresso delle scienze degli ultimi anni ci spiega sempre meglio, un tassello dopo l'altro, chi siamo e donde veniamo (molto meno ove andiamo) e, allo stesso tempo, riaccende e tiene vivo l'interesse per la questione della nostra posizione ontologica nel mondo. Un'attenzione confermata anche dal successo, presso un pubblico non necessariamente specialista, di saggi scientifici in cui ricercatori e studiosi di fama espongono, con dovizia di documentazione, i risultati delle loro ricerche sulle differenze-uguaglianze tra gli umani e altri animali, soprattutto quelli a noi più simili. 

 

Michael Tomasello, psicologo evoluzionista americano, co-direttore del Max Planck Institute di Lipsia, vincitore di numerosi premi internazionali tra cui il prestigioso Richard Hegel Prize conferito dalla Yale University, nel suo ultimo saggio: Storia naturale della morale umana (Raffaello Cortina editore), propone una stimolante teoria secondo la quale – vorrei quasi dire finalmente –, potremmo ragionevolmente supporre di essere animali, sì, ma diversi dagli altri, anche dai nostri cugini più prossimi, scimpanzé e bonobo. Senza nulla togliere alle indiscusse somiglianze, alle capacità straordinarie – nel loro genere – di tutti gli altri animali e, soprattutto, senza contraddire la teoria dell'evoluzione della specie attraverso la selezione naturale, potremmo addirittura riconoscerci per un qualcosa persino (oso?) superiori. Sempre che consideriamo la coscienza morale qualitativamente superiore ad altre facoltà.

La teoria di Tomasello è che la nostra specie abbia sviluppato, attraverso dei meccanismi evolutivi, quella particolare forma di coscienza che ci fa universalmente ritenere giusto o sbagliato commettere determinate azioni, come uccidere – soprattutto senza motivo e con crudeltà –, rubare il cibo al prossimo facendolo morire di fame, ingannare la fiducia altrui e così via. In realtà, non è tanto facile determinare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato fare, quando le circostanze sono ambigue e bene e male, giusto e sbagliato, finiscono per intrecciarsi inestricabilmente: ad esempio, uccidere per difendere qualcuno, rubare una medicina per curare una persona cara, staccare la spina a un ammalato terminale o abortire un feto malformato. Quando, insomma, il quesito può essere formulato in termini generali in questo modo: è lecito per un fine buono commettere un'azione ingiusta?

 

Ph Antanas Sutkus.

 

Il tema è molto intrigante e ce ne siamo già occupati presentando, su queste pagine, un altro saggio di grande interesse, Uccideresti l'uomo grasso? di David Edmonds. La capacità di agire non secondo un semplice criterio di personale utilità, ma subordinando il proprio tornaconto al bene di un altro o trattando «in modo equanime, i [propri] interessi e gli interessi degli altri, sentendo persino un senso di dovere a farlo», sarebbe esclusivamente umana per Tomasello, ed è ciò che egli definisce senso morale.

Mettendo insieme i suoi studi sui bambini molto piccoli – da uno a tre anni di età – e quello che sappiamo della nostra pre-istoria, dal momento in cui ci siamo separati dall'antenato comune tra noi e altri primati per evolvere, lentamente e avventurosamente, nell'Homo sapiens che siamo da circa duecentomila anni, Micheal Tomasello si è fatto un'idea precisa di come potrebbero essere andate le cose. Benché sottolinei ripetutamente che la sua è soltanto un'ipotesi – infatti nessuno potrà mai dirci come sono andate veramente le cose – il fatto che sia sostenuta con una logica persuasiva e supportata da molti dati sperimentali, la rende senz'altro convincente, o per lo meno, possibile. Egli ritiene che la morale umana sia il risultato complesso dell'interazione tra molteplici fenomeni altrettanto complessi, come d'altra parte è l'evoluzione biologica. A suo parere i passaggi fondamentali e tra loro concatenati, che ne avrebbero determinato l'emergere, sono stati i cambiamenti ecologici che avrebbero portato a un aumento della naturale interdipendenza e capacità cooperativa tra gli umani e, con l'avvento di agglomerati sempre più grandi, la coordinazione delle forme nuove di cooperazione. 

 

Partendo dall'assunto che la morale umana sia una forma di cooperazione, Tomasello vuole fornire una spiegazione evolutiva della sua comparsa mostrando come essa si differenzi da quella dei primati a noi più simili, in quanto prevede accanto a quella che definisce una morale della simpatia (comune a tutti i primati) la formazione di una morale dell'equità, più complessa ed esclusivamente umana. Proviamo a riassumere come potrebbero essere andate le cose. Nel corso della loro storia evolutiva – ipotizza l'autore – gli esseri umani avrebbero sviluppato una peculiare attitudine alla cooperazione, costretti dal cambiamento dell'ambiente circostante, a sua volta determinato dal cambiamento climatico in conseguenza del quale le savane hanno preso il posto delle foreste. Gli umani non potevano più sopravvivere con la sola raccolta integrata, eventualmente, con l'uccisione di piccole prede; hanno dovuto ricorrere alla caccia, anche di animali di grosse dimensioni, quale fonte primaria di cibo e, per garantirne la buona riuscita, imparare a cooperare sempre meglio.

 

In tale contesto, naturalmente, avevano le maggiori possibilità di successo e, quindi, di sopravvivenza coloro che si dimostravano i compagni migliori, non solo per le loro abilità ma anche per l'affidabilità nello svolgere il loro compito, per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda. Chiaramente erano tipi così quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e affinché non se ne andassero a cacciare con altri gruppi concorrenti, li si trattava equamente e lealmente. Questi hanno avuto molto probabilmente, più possibilità di sopravvivere e di generare figli ai quali hanno trasmesso le loro stesse caratteristiche, in tal modo consolidandole nella specie. 

Tomasello ritiene, pertanto, che la coordinazione necessaria per condurre con successo la caccia sia stata fondamentale a far sì che, accanto al sentimento naturale della simpatia in base a cui gli individui si sceglievano in modo diadico e che anche i primati possiedono, si sviluppasse un forte sentimento di cooperazione basato sul principio della interdipendenza tra gli individui dello stesso gruppo. Da qui il passaggio dal riconoscimento dell'altro come un tu a quello del noi come insieme di individui uguali, ciascuno depositario degli stessi diritti e delle stesse necessità. L'idea fondamentale di Tomasello è che alla base della morale umana ci sia proprio la capacità di cooperare per lo stesso fine e di riconoscere l'uguaglianza tra sé e l'altro di questi primi umani, obbligati dall'ambiente a procurarsi insieme il cibo. E ritiene che queste capacità abbiano inciso sull'evoluzione, selezionando i più dotati e altruisti, portandoli a prevalere, nonostante le inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

 

Un meccanismo affine a quello di cui parla lo psicanalista Luigi Zoja in un suo saggio molto interessante, Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri, 2000), in cui indagando l'origine della paternità la fa risalire alla preferenza accordata dalle nostre antenate sapiens, per l'accoppiamento, al maschio che si mostrava capace di tornare all'accampamento, portando cibo per la donna e il piccolo, e più generoso nel dividerlo. Più responsabile, insomma. Questo avrebbe favorito la selezione dei maschi più adatti a divenire, nelle società culturali, il padre. 

Il senso del dovere, che spinge il maschio a occuparsi dei propri figli – per la donna i meccanismi sono diversi –, secondo Tomasello, è una manifestazione della razionalità cooperativa tipicamente umana. La stessa che, quando la scoperta e la diffusione dell'agricoltura (circa 12/13 mila anni fa) ha portato alla costituzione di gruppi sociali sempre più grandi e più culturalmente identitari, ha permesso agli uomini di inventare «strumenti regolatori sopraindividuali» per convivere proficuamente. In questo modo «gli esseri umani svilupparono una nuova psicologia morale orientata al gruppo». 

 

Alla luce delle sue ricerche, Micheal Tomasello arriva a ipotizzare, in conclusione, che la capacità di formare un senso morale universale sia stata probabilmente l'elemento vincente grazie al quale Homo sapiens ha potuto sopravvivere e arrivare alla posizione predominante che ha oggi sulla Terra. Tuttavia, avverte, ciò non ci garantisce del tutto riguardo al futuro, perché siamo individualmente chiamati di continuo a compiere scelte concrete tra decisioni spesso tutt'altro che semplici, decidendo, di volta in volta, per il meglio. Nonostante tutto «bene o male che sia, non c'è alternativa a individui umani – sia pure dotati biologicamente e culturalmente – che prendano le loro proprie decisioni morali». In fondo, il pallino resta in mano nostra, il che è una grande responsabilità, ma anche una bella sfida nella quale siamo impegnati da almeno duecentomila anni.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Razionalità cooperativa

Il porno, la molestia e la cultura

$
0
0

In modo occulto o palese, il porno è l’anima della cultura contemporanea. Non si tratta solo di sesso, ma cominciamo da lì.

L’annosa questione della pornografia – intesa come quel modo di mostrare il corpo sessuato che si distingue dall’erotismo – è stata, per anni, controversa. Possiamo dire che il porno è un erotismo “pop”? Erotismo e pornografia stanno al limite di uno spettro dove ci sono “posizioni” intermedie? Oppure porno ed erotismo non hanno niente a che fare l’uno con l’altro? La differenza tra eros e porno corrisponde alla differenza tra sessualità e sesso, per cui “fare sesso” e “fare l’amore” sono due cose differenti?

 

Nel cinema, il porno è quel genere inaugurato negli Stati Uniti dalla figura di John Holmes, negli anni Settanta. Il porno hard consiste nelle riprese della penetrazione, come vedere un motore a scoppio mentre funziona, solo fatto di carne, noioso. Tuttavia i problemi tecnici con l’hard erano numerosi. Primo fra tutti l’irroramento del pene di Holmes che, come dichiara un suo collega in un documentario sull’argomento, sembrava un’enorme spugna. Dunque spesso era necessario passare dell’hard al soft. Non possiamo dire che il cinema porno fece scandalo, né allora né ora. In Italia veniva mostrato in appositi cinema, detti “a luci rosse”, dove andavano i soli maschi. Erano cinema squallidi, oggi sono scomparsi, li hanno sostituiti le sale da gioco. Il porno non fa scandalo perché è banale, mostra il sesso, crudo, senza sessualità.

 

Per Slavoj Žižek, non ricordo dove lo ha scritto, il “carattere nazionale” italiano si comprende guardando la commedia sexy all’italiana: Gloria Guida, Edvige Fenech, Carmen Villani, ecc. Lì viene fuori il vero modello del maschio italiano: ruffiano, profittatore, codardo, decisamente stupido, impersonato da Lino Banfi, Renzo Montagnani, Cristian De Sica, ecc., sono le figure più di spicco di questo ricco panorama cinematografico e culturale che ci ha tediato per oltre quarant’anni con le stesse scene ripetute all’infinito. Oggi queste commediole sono sostituite dal cine-panettone. In fondo il porno italiano è un po’ all’acqua di rose, almeno sul versante della nudità e del sesso.

 

Edwige Fenech.

 

Se ci spostiamo in Germania, il panorama cambia enormemente. Non è necessario andare al cine, basta passeggiare. Troviamo interi quartieri pornografici, con giovani donne che si spogliano dietro le vetrine di un postribolo, con gli uomini che si affacciano e concordano il prezzo di mezz’ora di sesso crudo. Più recentemente, nella zona di Theresienwiese, a Monaco di Baviera, si incontra il contrasto tra la passeggiata di donne col chador, il niqab, il burka e i night club, club privée, bordelli con immagini di donne nude all’esterno, dalle quali si evince che dentro si svolgerà la danza sul palo. Basta scendere le scale e pagare per l’ingresso.

A ciascun paese la propria pornografia. Potremmo dire che la pornografia è ripetizione del sesso senza differenza, senza creazione. Oggi abbiamo una pornografia globale, su internet, nei televisori degli hotel, negli spam delle mail, e nei social network. Ci sono social network con chat di scambio di rapporti di vario tipo. Molte persone si rivolgono allo psicoterapeuta perché non riescono a liberarsi dalla dipendenza da questo tipo di chat, molte donne chiedono aiuto perché i mariti passano la notte a chattare con qualche porno-linea. Fanno sesso col computer.

 

Reeperbahn, Amburgo

 

L’ultima novità sono le immagini e i messaggi porno che repentinamente appaiono, in particolare su facebook, pinterest e altri luoghi simili. A volte te li ritrovi sulle tue pagine, o nelle mail, senza sapere da dove vengano, a volte appaiono come inviati da “amici” che, interpellati, non ne sanno nulla e si scusano, pensando di non avere attivato qualche dispositivo di privacy. Questa è la novità. Da dove vengono questi nuovi porno? Chi li invia? Come accade che sulle tue mail giungano messaggi in cui ti si chiede se vuoi allungare il pene, frequentare una donna che abita vicino a te, della tua età circa, ecc., ecc.? Come fanno a sapere dove abiti, quanti anni hai e che hai il pene inesorabilmente corto? Se la terza è facile da indovinare – ogni maschio, tranne il povero Holmes e Siffredi, ha il pene troppo corto, per definizione, è tautologico – l’età e l’indirizzo richiedono una sintesi a posteriori, come fanno a conoscerli?

Da tempo sappiamo che essere su internet significa essere sotto il controllo delle istituzioni pubbliche, dei servizi sanitari, dei servizi segreti, dei gruppi bancari, delle agenzie delle entrate, ecc. Che si sappia quanto guadagniamo, dove andiamo in vacanza, che lavoro facciamo, che auto possediamo, quanti amanti abbiamo, a che ore ceniamo, di che umore siamo, va bene. Anche se non sappiamo come raccolgono le informazioni possiamo immaginarlo: gliele diamo noi, sui social, in particolare su facebook, che è diventato una sorta di diario confidenziale segreto/pubblico. Ma possibile che, oltre ai servizi segreti, queste cose le sappiano anche i pornografi? Come ci controllano – e da dove – gli occulti signori del mondo porno? Di più, com’è possibile che su facebook appaia che un “amico” inserisce un “post” porno a sua insaputa? Che vergogna! Chi crede davvero che non l’ha fatto lui? Chi crede che non ha un doppio maligno, che non ha una personalità multipla, che non è una sorta di Dottor Jekyl e Mister Hyde? O, meglio, Dottor Dick e Miss Pussy?

 

Il porno ha certo questo aspetto comico, ma c’è anche un aspetto tragico. Anni fa, nel 1993, Catherine MacKinnon aveva fatto una proposta di legge per la messa al bando della pornografia negli Stati Uniti. Si era appellata al quattordicesimo emendamento della Costituzione Americana, che sancisce la dignità umana. MacKinnon, un’avvocata che aveva aiutato un certo numero di donne stuprate a sostenere il processo, pubblicò un libro intitolato Only Words. Negli Stati Uniti si aprì un ampio dibattito sui rapporti tra la pornografia e la molestia sessuale, compreso lo stupro. In quel bel libro, tra le altre cose, MacKinnon sostiene che una donna che entra in un ufficio, dove un uomo ha appeso un calendario di corpi femminili nudi, è già in condizione di molestia. Ecco allora l’arcano del porno, il porno è incitazione allo stupro. Il porno si distingue dall’erotismo perché è molesto, impositivo, autoritario e crudele. È il gesto che mostra la differenza, la molestia è maleducazione, mancanza di cultura, rozzezza, violenza.

A questo punto, cominciano a sorgere altre domande che con il corpo nudo, femminile o maschile, non hanno a che fare: il porno riguarda il corpo? Oppure il corpo è, nel porno, mera apparenza? Per esempio: se escludiamo, in modo categorico, che una trasmissione di Bruno Vespa sia erotica, possiamo escludere che sia pornografica? Non c’è bisogno di essere moralisti, non è questo. Il moralista si scandalizza per il cambiamento di costume, indipendentemente da quanto questo cambiamento abbia effetti sociali molesti. Qui ci stiamo domandando se l’imposizione di una ripetizione senza differenza, se una coazione a ripetere – la donna in vetrina, la scopata a stantuffo, il cine a luci rosse, la chat; ma anche la sala giochi, la tele trasmissione, il centro commerciale, ecc. – non siano già produzione inconscia di pornografia di massa.

 

  Catharine MacKinnon

 

In questo senso il porno ha tanti volti diversi: le attuali “cartolerie” franchising, con commessi che trattano i libri come fossero cellulari o carne in scatola, non sono porno? La scomparsa del libro, inteso come tomo cartaceo da tenere tra le mani, sfogliare, sottolineare con la matita, strapazzare, con il libraio che ti consiglia cosa leggere; tale scomparsa non è porno? Se pensiamo a come si costituì una grande casa editrice a partire da una cesura culturale, negli anni di Bianciardi, dei franchi narratori, delle sfide alla saggistica, con le pubblicazioni di autori come Elvio Fachinelli, Gisela Pankow, Herbert Marcuse, Gavino Ledda, ecc., e le confrontiamo con le attuali cartolerie, dove trovi commessi che non conoscono la differenza tra un saggio e un romanzo… beh: non è che siamo in piena pornografia culturale?

negli speciali in home: 
Non in Box

Quelle lettere tra Jung e Neumann

$
0
0

Chissà se è vero che, come scrive Joseph Roth a Stefan Zweig, l’amicizia è una patria. A sfogliare il lungo carteggio tra Jung e Neumann (Jung e Neumann. Psicologia analitica in esilio. Il carteggio 1933-1959) si direbbe piuttosto un ponte che congiunge sponde opposte. A tenerle unite un centinaio di lettere che, per un quarto di secolo, viaggiano dalla Svizzera, una terra tutto sommato risparmiata dalla seconda guerra mondiale e della successiva guerra fredda, all’allora Palestina, dove parte del popolo ebraico sopravvissuto alla Shoà cercherà invano la pace. Ma questa non è che una delle tante sponde opposte dalle quali i due si scrivono; Jung, che ha 59 anni, è chiaramente il maestro del secondo, che ne ha 28 ed è il suo più promettente allievo; il primo, dal ‘33 al ’34, è anche suo analista didatta; l’uno è uno svizzero che, secondo le logiche dell’epoca, può considerarsi espressione del “germanismo ariano”, l’altro un tedesco che non può considerarsi tale perché “di razza ebraica”.

 

Colpisce il modo in cui i due abbracciano queste categorie, seppure in un’accezione evidentemente diversa da quella propagandata dall’ideologia nazista, che la cultura dell’epoca, evidentemente anche alta, non considerate politicamente scorrette. Ne abbiamo una chiara testimonianza in una lettera che Neumann, poco prima di trasferirsi a Tel Aviv per sfuggire alla persecuzione ebraica e abbracciare convintamente il sionismo, scrive a Jung per chiedergli conto di alcune sue infelici ed ambigue affermazioni appena apparse in un saggio intitolato Situazione attuale della psicoterapia che gli era costato molte polemiche e persino accuse di antisemitismo e di acquiescenza nei confronti del nazismo.

 

Nel testo Jung afferma, tra altre grossolanità, che “l’inconscio ariano dispone di un potenziale più elevato di quello ebraico”, che quest’ultimo non affonda su radici proprie ma si sviluppa per gemmazione dalle culture nelle quali s’innesta (giudizio in questo consonante con l’idea nazista degli ebrei come parassiti). Pur difendendolo pubblicamente da ogni accusa di antisemitismo, in questa lettera Neumann, con vero spirito di parresia (l’antica franchezza filosofica propria di chi, per amore della verità, è disposto a mettere in gioco se stesso e la sua relazione con l’interlocutore) attacca e decostruisce una per una le tesi del maestro chiedendogli conto, senza infingimenti, delle sue affermazioni: “Da dove tra le sue conoscenze della razza e del popolo ebraico, caro dott. Jung? Alla fine dei conti non Le pare possibile che la Sua valutazione erronea sia causata anche da una mancata conoscenza di questioni ebraiche e da una segreta avversione medioevale nei confronti di esse? E che di conseguenza lei sappia tutto dell’India di 2000 anni fa e nulla sul chassidismo di soli 150 anni addietro?” Poco dopo avanza l’ipotesi che Jung “confonda Freud – che oltretutto aveva classificato come pensatore sociologico-europeo – con l’ebreo prototipico”, lasciando intendere che il suo conflitto irrisolto con il padre della psicoanalisi possa avergli giocato qualche scherzetto proiettivo. Ma oltre a contestare l’infondatezza dei diversi pregiudizi junghiani sulla “psicologia ebraica” Neumann rigetta con fermezza, e in maniera persino commovente se si tiene conto del contesto storico, l’equazione junghiana tra nazismo e germanicità: “mi creda se Le dico, proprio come ebreo, che senz’altro adoro la fecondità germanica, per quanto riesca a vederla e intuirla. Ma l’equazione nazismo = germanismo ariano potrebbe essere fatalmente erronea. E devo dire non concepisco per quale via Lei vi sia arrivato”. La lettera è dunque molto ferma e non priva, come ammetterà lo stesso Neumann, di una certa dose di aggressività che tuttavia non sfocia in rancore né mette a rischio la relazione di amicizia e stima reciproche, anzi: è un segno di piena fiducia in essa: “Non mi sento di cambiare nulla di questa lettera. Così è scritta e così rimane. Spero che sia comprensibile l’intenzione con cui l’ho scritta. Credo che sia proprio la mia gratitudine nei Suoi confronti a impormi la sincerità”.

 

Jung, Neumann, Eliade

 

Jung pare essergliene grato: è importante che sia un ebreo a difenderlo da queste accuse ed è certo favorevolmente impressionato dalla sua capacità di muovere critiche stringenti e radicali senza tuttavia prendersela personalmente – cosa che in altre circostanze, su altri temi, non sempre gli riuscirà. Non senza imbarazzo, Jung prova a difendersi dalle critiche del collega rivedendo e spiegando meglio qualche sua affermazione ma ammette gli errori e lo invita convintamente ad approfondire autonomante il tema della psicologia ebraica, invitandolo di fatto a superarlo e mostrandosi in questo, come nota nella sua bella introduzione Luigi Zoja, un maestro migliore di quanto non si fosse rivelato, in questo, Freud nei suoi confronti. Neumann, da parte sua, ne uscì forse rafforzato psicologicamente: il discorso si spostava ora su argomenti rispetto ai quali era oggettivamene più competente del maestro del quale, tuttavia, poteva constatare la capacità di accettare le critiche. Buona parte della corrispondenza tra il 1934 e il 1940, quando l’entrata in guerra dell’Italia isolerà la Svizzera e renderà impossibile la corrispondenza, verterà soprattutto su quella che Neumann vivrà come “l’esigenza di spingere Jung a scrivere qualcosa di fondamentale sull’ebraismo”.

 

Colpiscono, nelle lettere di questo periodo, alcune dinamiche transferali, da parte di Neumann, ben gestite da Jung che sceglie con accortezza parole e tempi di risposta, tanto da indurre Luigi Zoja – ottimo curatore di un’edizione italiana arricchita di 150 nuove note e migliorata dalla scelta di presentare in due parti, relative alle due trance di corrispondenza, il saggio del curatore dell’edizione originale, originariamente unico e posto all’inizio del testo – a parlare di “un’analisi condotta per lettera (…) per gli scopi e i risultati dell’evoluzione e del flusso individuativi che fluiscono ininterrotti dal discorso del paziente-allievo”. E come spesso accade in analisi, alcune delle elaborazioni personali più feconde e importanti si compiono proprio quando si è costretti a fare i conti con una sospensione, o con la fine, della relazione analitica. Come osserva Martin Liebscher, curatore dell’edizione tedesca e autore del saggio sopracitato, “sembrerebbe quasi che i cammini dei due si siano scambiati durante gli anni in cui non erano in contatto: Neumann (…) spostò il centro della sua attenzione su questioni di etica e psicologia dello sviluppo; mentre Jung, dopo la guerra, s’interessò sempre di più del misticismo ebraico e del simbolismo riguardante la separazione e la riunificazione tra l’aspetto maschile e quello femminile di Dio, rispettivamente Tiferet e Malkuth”, che giunse persino sognare.

 

Quanto a Neumann è davvero straordinario, e commovente insieme, il fatto che proprio durante gli anni della secondo guerra mondiale, quando mezza Europa proietta la propria Ombra sugli ebrei e l’altra metà non sembra preoccuparsene troppo, di fronte a l’esperienza della Shoah che in molti considerano l’esempio per antonomasia del male assoluto, vivendo in un paese in cui l’odio antisemita sta già facendosi sentire e armando gli eserciti, elabori una teoria che chiama Nuova etica, il cui centro è la rinuncia a considerare il male come assoluto ed esterno a noi, per abbracciare una visione che rigetti la concezione del bene e del male come opposti che si escludono a vicenda. Essi abitano al contrario l’interiorità di ogni uomo che, quanto più rimuoverà e reprimerà questo aspetto, tanto più sarà portato a proiettarlo fuori di sé, come era accaduto durante la seconda guerra mondiale, come stava per accadere con la nascente guerra fredda e come non smette ancora di accadere per la cosiddetta questione palestinese. In Psicologia del profondo e nuova etica Neumann propone una nuova etica che provi al contrario a fare i conti con la propria Ombra, si disponga a riconoscerla, ad accettarla e provi ad integrarla – “venirne a capo”, scrive Jung correggendo l’ottimismo del collega, “non è possibile”; riuscirvi, sarebbe proprio di un “superuomo”.

 

 

Il libro ruota attorno alla tesi per la quale “com’è dimostrato da una quantità di esempi della storia, ogni forma di fanatismo, ogni dogma e ogni tipo di comportamento unilaterale compulsivo alla fine è soppiantato esattamente da quegli elementi che aveva represso, soppresso, ignorato”. Il che vale, scrive con assoluta lucidità e onestà intellettuale a Jung già negli anni ’30, vale anche per il nascente stato ebraico: “Temo che in Palestina si manifesteranno tutti i nostri istinti repressi, tutta la nostra brama di potere e di vendetta, tutta la nostra insensatezza e brutalità nascosta”.

Jung legge e in parte corregge (come dimostra l’interessantissima appendice numero 3 che riporta la proposta di correzione e modifica che questi invia a Neumann) le prime bozze del testo che saluta subito con entusiasmo battendosi, con alterne fortune e qualche atteggiamento equivoco, per la sua pubblicazione. Apprezzamento ed entusiasmo analoghi saluteranno la lettura della Storia delle origini della coscienza che Neumann scrive sempre in quegli anni riuscendo, scriverà Jung nella sua prefazione, sviluppare e portare avanti molti temi meglio di lui, giungendo dove egli si era arenato.

La tormentata storia della pubblicazione di queste opere è per altri versi una impietosa denuncia delle dinamiche di potere, e di ottusità, insite allo Jung Institut di Zurigo, che ne osteggerà la pubblicazione nella collana ufficiale dell’istituto, considerandole, nonostante il parere favorevole di Jung, troppo poco ortodosse e mettendone persino in discussione la fondatezza scientifica. Dalle lettere appare però anche uno spirito di confronto e di apertura maggiore che caratterizza i seminari di Eranos, ai quali Neumann parteciperà spesso, grazie anche all’intercessione di Jung, che ne difenderà il valore.

 

Problemi di salute, lutti, bombardamenti, entusiasmi per la ricchissima produzione saggista di entrambi e delusioni per questioni personali e politiche scandiscono la lunga corrispondenza che s’interrompe improvvisamente il 5 novembre del 1960 (ma l’ultima lettera di Neumanna a Jung è dell’11 settembre dell’anno precedente) quando Neumann muore di un tumore fulminante, a soli 55 anni. C’è da chiedersi, data la sua eccezionale produttività, quali altri tesori avrebbe potuto lasciare in eredità se fosse vissuto più a lungo. I pochi libri che ci lascia sono comunque sufficienti a farne, per usare un’espressione buddhista, l’autore di un vero e proprio secondo giro di ruota della psicologia del profondo che si svela e si propone apertamente come una pratica intrinsecamente etico-pedagogica capace di guardare anche alle dinamiche collettive e di farsene cura. La sua assoluta attualità non sarà certo sfuggita al lettore. In tempi in cui si innalzano nuovi muri c’è bisogno di un pensiero che costruisca ponti tra gli opposti.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
"L’equazione nazismo = germanismo ariano potrebbe essere fatalmente erronea"

Amore. Il punto di vista delle amebe

$
0
0

L’uomo di oggi sa meglio dei suoi predecessori che gli uomini non si “possiedono” l’un l’altro, che si conquistano e si perdono in ogni momento della vita, e che l’amore “c’è” solo quando il suo effetto si fa sentire in noi in modo concreto e spontaneo. Per questo motivo oggi è più difficile distinguere un vero sentimento d’amore dalla frivolezza o dal gioco, eppure i due concetti non sono più confusi di un tempo. È anzi meno indifferente che mai chi si ama e come si ama. Ma mentre un tempo perfino una relazione piuttosto insignificante e povera di sentimenti e poco fertile poteva cercare di durare una vita in forza di una sua presunta approvazione divina, adesso in determinate circostanze si può rinunciare a un legame comparabilmente ricco e profondo dopo un tempo non più lungo di quanto durasse prima un “gioco” , perché si arriva a pensare che tale legame non offre tutto quello che può concedere l’amore ed è meglio andare avanti da soli. Tale consapevolezza nasconde una certa crudeltà, ma non è diversa affatto da quella che ci fa superare mancanze assodate e nasce spesso dalla massima serietà amorosa. È consapevolezza del fatto che la nostra forza amorosa è condannata a morte senza possibilità di salvezza in tutte le situazioni in cui si dimostra sterile per la nostra vita interiore. È rendersi conto che se l’amore vuole essere più di un passatempo sensuale o uno stato di esaltazione temporanea, esso deve collaborare allo stesso grande compito della vita a cui appartengono i nostri obiettivi più elevati e le nostre speranze più sacre, deve superare i confini del proprio territorio per conquistarsi la vita pezzo per pezzo. L’amore più perfetto sarà sempre quello che riesce a portare a termine tale conquista nel maggior numero di situazioni e ambiti possibili, finché una persona vive tutto attraverso il tramite dell’altra, finché essi sono in grado di essere tutto l’uno per l’altra: amanti, consorti, fratelli, amici, genitori, compagni, bambini che giocano, giudici severi, angeli misericordiosi.

 

Rodin, L'eternelle idole

 

La concezione dell’amore si trasforma seguendo le silenziose trasformazioni del nostro sviluppo. Se diamo uno sguardo al regno degli esseri viventi inferiori, troviamo che le piccole amebe si accoppiano e riproducono premendosi l’una nell’altra, fondendosi in modo assoluto in un unico essere e dividendosi di nuovo in amebe figlie. A noi sembra naturale non poter procedere più in questo modo per quanto riguarda l’ambito fisico, ci sembra naturale che il nostro corpo, che ha raggiunto un alto grado di differenziazione, si accontenti di concedere solo una particella di sé nell’accoppiamento, di parteciparvi solo con una funzione strettamente circoscritta, e rimanere intatto per il resto. Per quanto invece riguarda l’ambito psichico, troviamo stranamente più degno di noi il punto di vista delle amebe, il quale, per così dire, considera un dovere sciogliersi completamente, scomparire l’uno nell’altro. È come se la nostra differenziazione psichica fosse rimasta indietro rispetto a quella fisica. Altrimenti dovremmo capire che dalla passione amorosa vogliamo la stessa cosa sia per la psiche sia per il corpo: non sciogliersi nell’altro, ma al contrario diventare fertili attraverso il contatto con lui, rafforzarci fino all’eccesso. Il nostro diventare fertili, infatti, non è più come per le amebe un dividersi in pezzetti, ma già in sé una funzione parziale, uno stato elevato di unicità, uno stato di eccesso. Nello stesso senso anche l’artista distacca da sé la sua opera, proprio perché è più di un’ameba, senza rimanere incorporato all’oggetto che ha fecondato la sua fantasia.

 

Questa totale analogia dei modi di espressione fisici e psichici del sentimento erotico non può mai essere messa in risalto con sufficiente forza, poiché si tratta delle due facce dello stesso processo.

 

Come l’eccitazione artistica ha la sua radice in processi della fantasia che coinvolgono l’intero essere dell’artista, così accade anche per l’eccitazione erotica nella vita sessuale. Come il processo artistico non può avere il suo centro fertile che nella fantasia, per quanto voglia accogliere in sé, per quanto voglia abbracciare il mondo intero, così anche il processo erotico non può uscire dall’ambito sessuale, per quante forze spirituali possa coinvolgere o per quanto lontano possa estendere i suoi effetti. Gli si fa torto se lo si vuole relegare a un ruolo puramente fisico, limitato e rozzo, e non riconoscergli tutto il resto, attribuendolo ad altre forze sentimentali: ma gli si fa non meno torto cercando di falsare la sua natura sessuale dandole una veste morale o estetica. L’erotismo è tutto quello che è proprio in virtù della forza elementare con la quale supera ogni apparente divisione ed estraneità tra le espressioni fisiche e spirituali del nostro essere, sapendo mettere l’accento sul momento fisico in ambito spirituale e viceversa. Il suo mondo fisico racchiude già in sé tutto il resto, compreso il tumulto spirituale, come da una nuvola gravida di tempesta, con la scossa elettrica, si scatenano intorno a noi indifferentemente fulmini, tuoni e scrosci di pioggia. Nello stato fisico dell’ebbrezza amorosa varrebbe la pena, e sarebbe possibile, rintracciare tutto il gioco del nostro spirito che vibra in esso, così come, viceversa, ricercare nelle esaltazioni più elevate dello spirito l’ardore dei sensi eccitati. Anche se entrambi gli elementi si mescolano con intensità e in modi diversi, l’essenziale resta che si tratta di un unico fenomeno totale; proprio questo permette all’erotismo di essere presente nel cieco desiderio come nel contatto di due esseri nei campi più spirituali della vita: se due persone si amano, la medesima scintilla erotica vibra dall’uno all’altro e anima la mente così come anima il corpo.

 

 

La sovrana autonomia con cui l’erotismo rappresenta il suo mondo assolutamente peculiare, in tutte le manifestazioni fisiche e psichiche, è alla base dei suoi molteplici conflitti con gli altri mondi dei sentimenti e con i modi diversi che le persone hanno di giudicare. Il conflitto si può basare, per esempio, sul fatto che – come si suole esprimere tanto spesso con sdegno velato di biasimo – le persone possono amare e disprezzare allo stesso tempo. Non considero ovviamente il caso molto frequente in cui il “disprezzo” è solo frutto dell’educazione e in realtà l’amore coincide con la nostra valutazione individuale delle cose. È infatti possibilissimo amare qualcuno, percepire attraverso di lui tutto l’influsso fertile e vitale che deriva da tale sentimento, e tuttavia rifiutarlo con tutte le forze vigili e consapevoli del nostro spirito e della nostra anima. Come esistono persone che non hanno sensazioni erotiche e persone che non ne hanno quasi, può anche succedere che qualcuno ci attragga eroticamente nel profondo e oscuro centro del nostro essere, senza che questa attrazione sia sufficiente o raggiunga un grado di elevatezza tale da far vibrare anche altri ambiti del nostro sé. Resta un’ebbrezza forte,un’ebbrezza del nostro intero essere, ma si percepisce solo in certi punti, mentre in altri lascia il posto allo scoraggiamento, al disinganno. Se questo avviene in punti molto sensibili, se la nostra personalità è consapevolmente orientata in un altro senso e le contrappone attitudini e valutazioni molto forti, allora chiamiamo il conflitto lotta tra amore e disprezzo e stranamente ci aspettiamo che ogni persona per bene superi la sua passione, anche se nessuno, nemmeno lei stessa, riesce a immaginare quali dèi in fondo stiano lottando per il suo cuore e chi subirà la perdita maggiore, la mutilazione più grave. Poiché è vero che l’uomo non vive solo dei suoi impulsi elementari, ma vive ancor meno solo della ragione.

 

Espressa in termini più generali, la domanda suonerebbe: perché l’oggetto amato è spesso molto meno adatto a noi della maggior parte delle altre persone con inclinazioni diverse dalle nostre e perché comunque per noi tutto dipende da lui? Quasi in tutte le relazioni amorose altrui ci sono aspetti che portano a chiederselo involontariamente a bassa voce, ma in alcuni casi straordinari è lo stesso interessato a stupirsene e a non riuscire a spiegarselo.

 

Da Devota e infedele, BUR 2009.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Ottant'anni fa moriva Lou Andreas Salomé

Muriel Drazien lettrice di Joyce e Lacan

$
0
0

Il libro di Muriel Drazien Lacan lettore di Joyce, per Portaparole, è un testo denso e complesso sull'opera di James Joyce e sulla lettura che Jaques Lacan fa di Joyce. Si tratta dell'incontro tra i due autori più criptici e difficili del Novecento. Non c'è dubbio. Complimenti all'autrice, che li conosce e li tratta con grande competenza.

Drazien si è formata a Parigi con Lacan e ha ascoltato direttamente i suoi seminari. Madrelingua inglese, newyorkese di origine, mostra una conoscenza rara e approfondita dell'opera di Joyce, letto a partire dalla comune lingua materna. Al lettore che non ha questa lingua materna, la lettura di Joyce assegna giri supplementari, si tratta di trovare altre soluzioni, il percorso si fa più tortuoso. Inoltre, essendo psicoanalista, conosce altrettanto bene le parole di Lacan, non solo per averlo letto, ma per avere avuto il privilegio di conoscerlo personalmente. Dà a Lacan, virtù rara per un lacaniano, spessore umano.  

Drazien dunque usa l'inglese come lessico familiare, ma certo non è tutto qui. 

Joyce non scrive solo in inglese, o meglio, l'inglese non è la sola lingua materna. La vita di esule gli permette di scrivere anche un po' in italiano, come per esempio nel frammento di un testo su William Blake. 

I figli di Joyce, per lingua materna, sono anche italiani, essendo nati e avendo passato l'infanzia a Trieste. Come diceva Sam Levenson: “La follia è ereditaria, la si prende dai figli”. 

 

Glossolalie joyciane

 

Ma la questione di fondo è che Joyce ha scritto glossolalie, ha parlato in lingua. Così nel caso di Finnegans Wake, opera che si legge ad alta voce, come faceva lui stesso, e di altre opere che si trovano raccolte in Poems and Shorter Writings.

Finnegans Wakeè l'opera che avrebbe dato lavoro agli accademici per i prossimi trecento anni, gli accademici infatti si ostinano intorno alla semantica. Glossolalia, invece, significa parlare secondo l'accento, il tono, la melodia, significa espressione. Il testo andrebbe letto come una partitura musicale, teatrale. Si producono xenolalie, ruminazioni, manducazioni. In questo l'ultimo Joyce somiglia un po' all'ultimo Artaud. Insomma, nel caso di Finnegans Wake, la lingua della lettura è sempre altra, dipende dal soggetto che la pratica. La lettura ad alta voce richiede preparazione, esercizi di ritorno all'oralità; la voce diventa uno strumento musicale polifonico.

 

https://www.youtube.com/watch?v=M8kFqiv8Vww

 

Obiezioni a Lacan

 

Lacan è colpito da Joyce al punto da modificare le proprie posizioni intorno alla psicoanalisi quando lo incontra, all'epoca dei nodi borromei, anni Settanta del Novecento. Su questa questione rimando il lettore al libro di Drazien, che non merita un succinto riassunto, ma la lettura diretta di un testo che viene da esperienze vissute.

Nelle mie osservazioni critiche al libro mi limito a discutere due aspetti, o due obiezioni, che mettono in questione la posizione di Lacan riguardo a Joyce, così bene illustrata nel libro di Drazien, le cui linee fondamentali si trovano nel testo di Lacan intitolato Il sinthomo.

 

La prima obiezione è di origine clinica: la questione delle epifanie in Joyce non rimanda, a mio avviso, alla psicosi. 

La seconda ha a che fare con la storia della clinica: la presunta schizofrenia della figlia. Lucia Joyce – manicomializzata per 48 anni, fino alla morte, presso il manicomio di Northampton, nel 1982 – non era affatto schizofrenica, era una di quelle numerose donne “inquiete” che la chirurgia (clitoridectomia, lobotomia) e la psichiatria hanno “aggiustato” al fine di rendere tranquille le famiglie “per bene” durante il secolo breve. 

Il problema che pongo è se la questione Joyce, nel suo complesso, nonostante la lettura di Lacan, e, prima di lui, di Jung, abbia o meno a che fare con la schizofrenia o, più in generale, con la psicosi.

 

Le epifanie

 

Che cosa sono le epifanie? Sono allucinazioni? 

Io credo che le epifanie siano un fenomeno diverso dalle allucinazioni. Nell'allucinazione l'oggetto è il prodotto di una visione, l'epifania è invece un modo singolare di percepire l'oggetto. L'oggetto, nell'epifania, a differenza dell'allucinazione, sta là fuori, è presente, pone una resistenza, ma si manifesta, per così dire, in ritardo, come per indugiare. L'epifania è un modo per girare intorno all'oggetto, per adombrarlo. 

Tenterò una mia traduzione di alcuni passi di Stephen Hero.

 

Una sera passava per Eccles St, una sera fosca (misty, confusa? nebulosa?), con tutti quei pensieri, che danzano, nel suo cervello la danza dell'inarrestabile, quando un banale evento (incident) lo portò a comporre alcuni versi ardenti che intitolò una “Villanella Tentatrice”. 

Osserviamo la prima frase, sembra trattarsi di qualcosa che fa coincidere il dentro e il fuori: la foschia è parte del clima di Dublino, ma in quel momento è parte dei pensieri di Stephen. In quel momento c'è coincidenza. Questa foschia non è allucinazione. 

Più oltre:

 

Questa banalità gli fece pensare di raccogliere molti di quei momenti in un libro di epifanie. Per epifania intendeva una manifestazione spirituale repentina, sia nella volgarità del dire o gesticolare, sia in una fase memorabile della mente. Credeva fosse prerogativa dell'uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, guardandole come fossero i momenti più delicati ed evanescenti (James Joyce, Stephen Hero, trad. mia).

 

 

Appena dopo appare Cranly, e Stephen gli dice che l'orologio di Ballast Office è capace (capable) di un'epifania. L'epifania è dunque un incontro in cui l'oggetto “è capace”, l'oggetto va incontro al soggetto. Questo mi pare il grande capovolgimento di Joyce: non solo il soggetto incontra l'oggetto, ma l'oggetto incontra il soggetto, lo attrae, per via di una banalità, non per una qualche proprietà speciale riconoscibile da ognuno, ma per una proprietà nascosta, segreta, che interessa solo quel soggetto e quell'oggetto. Si tratta di qualcosa che appartiene a un differente registro ontologico?

Questa qualità estetica, in Dedalus, che è la riscrittura triestina di Stephen Hero, anni dopo, è rappresentata dalla lettura, eretica e sacrilega, dell'estetica di San Tommaso. 

In questo caso l'interlocutore di Stephen è Lynch. Qui Stephen fa l'esempio di un cesto:

 

Per vedere quel cesto, la mente anzitutto separa il cesto dal resto dell'universo visibile che non è quel cesto. La prima fase dell'appercezione è un limite segnato intorno all'oggetto da percepire. L'immagine estetica ci viene presentata o nello spazio o nel tempo. Ciò che è auditivo ci si presenta nel tempo, ciò che è visivo, nello spazio. Ma, temporale o spaziale, l'immagine estetica è anzitutto chiaramente percepita come un insieme, limitato e contenuto in sé, sullo sfondo incommensurabile dello spazio e del tempo che non è questa immagine (Dedalus, p. 258).

 

Joyce usa un termine latino per definire questo evento: quidditas. La quidditasè il risultato che, in Joyce, sembra conseguire dal triplice movimento appercettivo descritto da Tommaso: integritas, consonantia e claritas

La svolta eretica e sacrilega di questa scelta si mostra quando Stephen emenda Tommaso dall'idea che claritas sia “una luce di un qualche altro mondo”, la “rappresentazione del divino disegno che è in tutte le cose”. L'incanto del cuore di Shelley, per Dedalus è “stato spirituale” come la condizione cardiaca descritta da Luigi Galvani.

Se fosse necessario definire una condizione clinica privilegiata in relazione alle epifanie, direi che questa condizione non è la schizofrenia, quanto piuttosto l'autismo. 

Da diversi anni, le persone autistiche adulte raccontano storie di vita e nel raccontarle hanno creato un linguaggio che descrive la loro esperienza, come se potessero mostrarcela dall’interno. In numerose descrizioni si parla del modo in cui la condizione autistica percepisce la realtà esterna. Non si tratta di allucinare oggetti o eventi che gli altri non vedono, si tratta di scomporre e ricomporre l'esperienza percettiva, come se fosse esperienza estetica. Di regredire dal percetto alla sensazione immediata delle parti, per poi comporle e orlarle, incorniciarle. L'appercezione estetica sembra costituirsi come una sintesi delle sensazioni e dei percetti. Il movimento si costituisce di tre parti: l'integrazione dell'oggetto – il renderlo una quidditas, qualcosa di unico, che emerge da uno sfondo – la consonanza – l'incontro, tra il percettore e il percepito – e, infine, l'emergenza della quidditas, dell'oggetto come oggetto.

Ciò che si dà per scontato nelle nevrosi quotidiane – come per esempio “il padre”, o “un cesto” –, per il soggetto autistico è tema di continuo riconoscimento, si ripresenta sempre come un insieme di parti da comporre e ricomporre; non c'è per lui alcun “dato immediato della coscienza”, se non nei termini di un significante primitivo, antecedente a ogni significazione, un'ombra affascinante. Il riconoscimento è sempre procrastinato e passibile di interferenze esterne, distrazioni, distruzioni del senso. Tuttavia, quando avviene, si realizza una epifania joyciana. 

 

Mentre Schreber cerca una lingua fondamentale (Grundsprache) delirante, Joyce cerca di distruggere la lingua che è dominante: l'inglese dei dominatori britannici. Joyce non ha una missione da compiere, non sente voci che lo trasformano in donna, non ha un padre pedagogista autoritario, al contrario. Infine la stile letterario di Joyce è assai diverso, ma su ciò andrebbero spese pagine e pagine di considerazioni.

 

Lucia

 

La tesi condivisa, quasi unanime, fino alla biografia di Lucia Joyce scritta da Carol Loeb Schloss, è che Lucia fosse schizofrenica. 

Come noto a chi conosce la biografia dell'autore, l'unico a non crederci fu proprio James Joyce. Ante litteram, Joyce cercò di salvare la figlia dal potere psichiatrico dominante negli anni Trenta del Novecento. La recente biografia di James Joyce scritta da Gordon Bowker riprende le considerazioni di Schloss, e rilegge le tappe dell'internamento della figlia dello scrittore. 

Certo Lucia aveva crisi isteriche, con ululati e pianti, ma non sembra avere avuto deliri o allucinazioni permanenti. Molti psichiatri dell'epoca prescrissero isolamenti e contenzioni ingiustificate, tipiche dell'era manicomiale. Benché il dottor Fontaine avesse diagnosticato crisi di nervi e Maier avesse parlato di nevrosi grave, altri, prima di loro, avevano decretato che Lucia era affetta da catatonia. La diagnosi le è rimasta addosso, come un marchio indelebile, fino ad ora. Joyce, convinto che Lucia fosse chiaroveggente, si rivolse a Jung, che studiava i fenomeni telepatici, e che, meno di dieci anni dopo, avrebbe scritto un saggio sulla sincronicità in cui esaminava casi clinici di persone telepatiche. In quel testo sulla sincronicità Jung menziona le ricerche dello psicologo inglese F.W.H. Myers (1843-1901), fondatore della Society for Psychical Research, che aveva descritto casi di telepatia, come quello di Mollie Fancher – conosciuta come Enigma di Brooklyn – in relazione alla patologia isterica.

Riguardo al caso Lucia Joyce, Jung sembra invece essersi adeguato all'ondata dominante che l'ha voluta schizofrenica e, a posteriori, dichiarerà a Ellmann, il primo biografo di Joyce, che, gettatisi padre e figlia nella stessa corrente, James ha nuotato, Lucia è affogata. Ciò però non prova che Lucia fosse schizofrenica e le ricerche rigorose della Schloss mostrano che non ci sono stati, nella sua vita, episodi che possano essere francamente definiti psicotici.

 

Il cambiamento di Lacan di fronte a Joyce

 

Ho imparato che un'ipotesi è scientifica quando non ci si innamora troppo di essa. Il saggio di Drazien è molto bello. Se letto come ricostruzione storica rigorosa dell'incontro di Lacan con Joyce, è la migliore ricostruzione di quell'incontro, un importante capitolo di storia della psicoanalisi. Tuttavia credo che oggi, alla luce di nuove biografie critiche e di una rilettura del testo joyciano, si tratti di mettere in questione l'ipotesi di Lacan su Joyce, che adatta la biografia di Joyce e della figlia alle teoria di Lacan, anziché fare il contrario. 

La messa in discussione delle ipotesi di Lacan su Joyce non mette, a mio avviso, minimamente in dubbio la grandezza del massimo psicoanalista francese. L'incontro di Lacan con Joyce è stato comunque fecondo e ha dato alla psicoanalisi nuovi strumenti. L'ipotesi, formulata da Lacan dopo l'incontro con Joyce, che il sinthomo non sia interpretabile, ha un'importanza straordinaria; rompe con ogni ipotesi semantico-ermeneutica della psicopatologia. 

L'idea stessa della non interpretabilità del sintomo rinvia a quel significante primitivo che il soggetto autistico trasforma nello sguardo estetico. Si trattava forse di andare solo un po' più in là. Tuttavia la schizofrenia, a mio avviso, non c'entra nulla con Joyce. 

Lacan, come Jung, si è sbagliato. Per essere fedeli a un maestro, a volte, bisogna smentirlo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Lacan, come Jung, si è sbagliato

La passività delle masse

$
0
0

Le società contemporanee hanno bisogno della massa, ma questa ha costituito un problema sin dal momento della sua apparizione, nelle prime forme di metropoli sviluppatesi durante l’Ottocento. Non a caso scrittori lungimiranti come Poe e Baudelaire, all’epoca, hanno avvertito l’esistenza di tutto ciò. La massa è problematica perché si presenta come un aggregato estremamente ampio di individui, ma privo di organizzazione e composto di soggetti isolati e incapaci di interagire tra loro in modo significativo. Gustave Le Bon, alla fine dell’Ottocento, nel celebre volume Psicologia delle folle (Longanesi), ha interpretato la massa come il risultato di un processo di omologazione: «Quali che siano gli individui che compongono la folla, per simili o diversi che possano essere il loro modo di vita, le loro occupazioni, carattere e intelligenza, il solo fatto di essere trasformati in massa li dota di una sorta di anima collettiva, in virtù della quale essi sentono, pensano e agiscono in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe o penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa». 

 

La massa inoltre è un’entità in costante cambiamento, all’interno della quale gli individui si trovano insieme provvisoriamente, ma per proseguire poi ciascuno il proprio percorso. Ne deriva che siamo di fronte a una realtà che presenta un’identità instabile e non precisamente definita. La massa dunque suscita ansia anche a causa di queste sue caratteristiche. Gli individui che ne fanno parte sono difesi e protetti, ma in cambio di ciò non sono più guidati dalla loro volontà e dalla loro razionalità, bensì dai bassi istinti stimolati dalla folla. Si trovano «in uno stato particolare, assai simile allo stato di fascinazione dell’ipnotizzato nelle mani dell’ipnotizzatore».

 

Marco Melgrati. 

 

La massa, dunque, è anch’essa ambigua, come la modernità che incarna: protegge e impaurisce nello stesso tempo. Consente di perdersi al suo interno e di non essere più reperibili, ma è anche una fonte di ignoti pericoli. Per questo, sin dall’inizio, è stata percepita anche come una possibile fonte di rischi.

L’analisi di Le Bon è stata contestata pochi anni dopo la sua formulazione da Sigmund Freud, il quale ha sostenuto che questi fenomeni non sono occasionali, ma rappresentano delle costanti del comportamento umano. Vale a dire che lo stato di regressione e la disponibilità degli individui alla sottomissione sono presenti in tutte le civiltà. Resta comunque il fatto che la storia ha fornito numerose conferme dell’interpretazione di Le Bon secondo cui gli individui appartenenti alle masse sono facilmente suggestionabili e sono dunque disponibili a essere guidati da un soggetto forte, da quella personalità che essi hanno irrimediabilmente perduto. Le masse cioè sono disposte a seguire un leader che, come ha messo in luce pochi anni dopo la celebre analisi di Max Weber in Economia e società (Edizioni di Comunità), fondi la sua legittimità sul potere carismatico e sia in grado di infondere fiducia attraverso immagini e simboli. 

 

Jean Baudrillard ha sostenuto invece alla fine degli anni Settanta, nel volume All’ombra delle maggioranze silenziose ovvero la morte del sociale (Cappelli), la tesi che il sociale sta scomparendo e che la responsabilità di ciò è da imputare alla massa, che si presenta come passiva e si rifiuta di fare tutto quello che la società tenta di imporle. La massa è composta cioè di individui che rifiutano di fare il loro dovere di cittadini e consumatori e di consentire perciò alla società di funzionare in maniera efficace. Rappresenta dunque una sorta di “buco nero” che tende a contrapporsi a ogni istituzione rappresentativa, a neutralizzare tutto quello che riceve, ad annullare ogni possibile significato.

Per Baudrillard, ciò rende la massa affine al terrorismo, il quale, come esse, è totalmente privo di qualsiasi forma di rappresentatività sociale o di classe. E si presenta dunque anch’esso ai nostri occhi come privo di senso. Se non fosse così, si tratterebbe infatti di un fenomeno di banditismo oppure di un’azione militare di commando. Invece l’atto terroristico rappresenta una sfida al senso e ciò l’avvicina nella nostra percezione alla catastrofe naturale, fuori dal controllo degli esseri umani e dunque, in quanto tale, insensata. Oppure l’avvicina al blackout che può colpire un sistema tecnologico, anch’esso del tutto indipendente dal controllo umano. 

 

Baudrillard era pienamente consapevole del fatto che tra la massa, il terrorismo e i media sussiste un rapporto particolarmente intenso. Sosteneva però che la massa non sviluppa più rispetto ai messaggi mediatici delle strategie di resistenza basate sulla reinterpretazione e sulla riappropriazione, come affermavano in passato le teorie sociologiche relative alla ricezione dei messaggi dei media. Essa, infatti, non cerca di attribuire un proprio senso ai messaggi che riceve, ma vi oppone la sua indifferenza. Accetta passivamente tutto quello che le viene inviato e lo fa scivolare in uno spazio caratterizzato dall’indeterminazione. Ne consegue che, come ha affermato lo stesso Baudrillard, «le masse sono un medium più forte di tutti i media».

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La disponibilità degli individui alla sottomissione

Al di là del principio di prestazione

$
0
0

La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro”(Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).

 

Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie - il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento - ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”. 

 

Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro – con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente – rivendica “l’andare in analisi (…) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (…) lo psicologo (…) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.

 

 

 

La porta di Magda Szabó, Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère, ad esempio, ma nel solco di quanto già affermava Freud per il quale “nella psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato di mio vecchio maestro, Goethe”. Nella letteratura che chiama il lettore a prendere parte allo svolgimento emotivo della narrazione, a empatizzare con i personaggi, a interrogarsi su quanto farebbe al loro posto, Janigro scorge un’analogia con la seduta di psicoanalisi nella quale “l’idea e l’immagine originale nascono in due” e in cui “il momento estetico”, come scrive Bollas, “evoca in noi una sensazione profonda di essere stati in rapporto con un oggetto sacro (…) in un’esperienza dell’essere e non della mente”. Così, mentre Lacan invitava gli aspiranti analisti ad esercitarsi a risolvere i cruciverba, Janigro ritiene che “analizzante e analista possono farsi l’orecchio” alle conversazioni che intrattengono con se stessi, con “la poesia, la narrativa e la musica”. 

 

Insieme a questo esercizio, ampiamente suffragato da citazioni di diversi indirizzi analitici che ne confermano l’importanza, l’autrice propone un lavoro sulle immagini – oniriche, emerse dal gioco della sabbia, scaturite dall’immaginario collettivo, profondamente individuali, reminiscenze del passato e prefigurative del futuro – che “in quest’epoca di inflazioni di immagini dove il tutto-detto, tutto-esposto è privato di ogni possibilità simbolica”, si fa sempre più urgente, delicato ed importante. In questo contesto la centralità del lavoro immaginale di Jung incontra la lezione americana sulla Visibilità di Calvino e porta l’essere umano in una dimensione che apre all’al di là del principio di prestazione – titolo dell’ultimo capitolo del libro. Superare questo imperativo categorico del nostro tempo e fare i conti con le proprie incapacità e debolezze, non più vissute come deficit ma come tratti personali umanizzanti, può fare della psicoanalisi, come scrive Franco Borgogno, un laboratorio esistenziale dove sperimentare “un’educazione alla vita e al vivere (…) un apprendimento dell’esperienza delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una nuova fiducia e un nuovo inizio”, che ha radici antiche che affondano in un patrimonio terapeutico non meno che culturale di cui il libro ci offre una breve ma puntuale sintesi, appassionata che, senza nascondere le polemiche e i colpi bassi che hanno attraversato la sua storia, si muove, anche biograficamente, alla ricerca di punti d’incontro che ne rilancino la funzione e l’attualità, al di là degli aridi steccati dei particolarismi.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Psicoanalisi. Un’eredità al futuro

Cosa sono i mostri

$
0
0

Luca Santiago Mora e gli artisti dell'Atelier dell'errore saranno presenti alla Festa di doppiozero (qui il programma).

 

Atelier dell'Errore nasce nel 2002 da un progetto di Luca Santiago Mora come laboratorio di arti visive al servizio della neuropsichiatria infantile della Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia”. Così si apre la nota che chiude il formidabile Atlante di zoologia profetica (Corraini edizioni, 2016). Il catalogo presenta i lavori dell'Atelier commentati con passione e dottrina da poeti, psicoanalisti, critici e scrittori. Operazione mirabile di cui non saremo mai sufficientemente grati a chi l'ha promossa (in primis Luca Santiago, che è il responsabile dell'Atelier e Marco Belpoliti, che ha curato il catalogo). E, tuttavia, quella breve nota è costruita ad arte per omettere tutta una serie di parole-stigma che affiorerebbero naturalmente alla bocca di chi, anche con le migliori intenzioni, volesse spiegare in poche battute chi sono gli artisti dell'Atelier. Inutile elencarle. È sufficiente indicare il tratto che le accomuna tutte: è la mancanza, una mancanza che incrina i corpi e che lacera l'unità della mente. Ma se quelle parole non ci sono ciò non si deve al “tatto” dei curatori.

 

Non è il senso ipocrita dell’“accoglienza” o del rispetto per la “diversità” a motivarne l'assenza. Non è, diciamolo francamente, l’“amore” la causa dell'Atelier. L'insensibilità manifesta fino alla sfacciataggine per la dimensione nella quale i moderni credono di trovare la soluzione di tutti i problemi di “relazione”, l'amore appunto, è, anzi, uno dei tratti dell'Atelier.

Sfogliate il libro e andate all'osso (anzi alle ossa...), trascurando magari per un attimo le riflessioni pur acute che accompagnano le varie sezioni. Guardate le figure e leggete i titoli delle “opere”, leggete soprattutto le favolose ekphrases che le introducono (registrate e trascritte dalla voce dei loro autori). Cito a caso qualche titolo: Pangolino Che Sta Vomitando Per Farsi Notare Da Una Femmina, Carniforo Tortura Ossa, Furia Buia Morte Susurrante, della cui ekphrasis riporto l'incipit: “ha ossa allungabili per poi farne una corazza indistruttibile fatta di osso (e) un cirquito di scosse che fa esploddere il quore degli uomini in un secondo, poi lui suchia la vita del quore delle persone per poi evolversi...”. Ebbene, ciò che si troverà come tema pressoché unico dell'Atelierè il mostruoso: pochi mammiferi, nell'Atlante, quasi sempre insetti, degenerazioni di pesci, uccelli così orrendamente aguzzi da sembrare metamorfosi di cavallette. È come se delle due linee della evoluzione che Bergson individuava all'origine della vita animale, imenotteri e vertebrati, gli artisti dell'Atelier avessero deciso di seguire solo la prima, trascurando la seconda e sbeffeggiando il suo prodotto più sublime: l'uomo. L'Immane Ragnoferro di Curnascoè, per loro, l'essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. 

 

I sentimenti implicati da queste immagini non sono quelli reattivi dell'odio o del rancore, che, seppur negativamente si relazionano ancora ad un amore rifiutato e ricercato, ma quelli che Nietzsche avrebbe catalogato tra gli affetti affermativi, a causa della loro esuberanza e della loro aggressiva cecità: l'ira vendicatrice, la distruzione sommaria e quella metodica, in una parola, la pulsione lasciata a se stessa come pura coazione a ripetere, una pulsione “al di là del principio di piacere”. 

Siccome sono stato educato alla filosofia, sfogliando lo spietato bestiario, mi tornano alla mente le parole del vecchio Parmenide che, nell'omonimo dialogo platonico, sentenzia, rivolgendosi ad un inesperto Socrate, che la filosofia sarebbe potuta cominciare se e solo se avesse abbandonato l'iperuranio per pensare “capello, fango, sudiciume”. Se non raffiguri l'immondo – vale a dire il mondo divorato (e vomitato) dal Pangolino crudele – non avrai alcun diritto di fregiarti del nome di filosofo, dice Parmenide. E le famose “Idee”, se stiamo all'etimo della parola greca, altro non sono che raffigurazioni: “aspetti” delle cose nelle quali queste si trascrivono nei loro tratti essenziali dismettendo quelli accidentali. Per i filosofi-artisti dell'Atelier, le Idee sono allora dei mostri. L'Idea non è la cosa afferrata all'acme della sua manifestazione quando la sua essenza abbaglia lo sguardo e costringe ad un atteggiamento di venerazione. Non è il cavallo così cavallo da essere il cavallo ideale, perfetto nella sua differenza da tutti i cavalli empirici, che cavalcano goffamente nelle praterie della “dissomiglianza”. Cavallo perfetto nella sua metafisica separatezza.

 

I mostri non sono archetipi, come sotto sotto pensano gli amici psicoanalisti junghiani quando commentano i disegni dei nostri giovani artisti. Essi, dicono, vedrebbero l'invisibile, come capitava agli aedi ciechi e come faranno i filosofi platonici attrezzati con il terzo occhio nonché loro stessi. No. I mostri dell'Atlante sono piuttosto dei “prototipi”. Il Pangolino Che Sta Vomitando Per Farsi Notare Da Una Femmina, come la Mosca Cieca Che Combatte Matteo Che Picchia la Giente E Soprattutto Me, è un prototipo. I prototipi differiscono radicalmente dagli archetipi perché sono macchine che funzionano come schemi operativi. L'Archetipo-Idea è un fatto. L'Archetipo è un modello trascendente che può essere solo imitato in modo più o meno adeguato, ma comunque, sempre difettivamente. L'archetipo è un Simbolo. Il prototipo, invece, è qualcosa che non può prescindere dal suo ulteriore sviluppo, è un essere che è fatto tutto di divenire, che ha bisogno del divenire (un divenire altro) per essere quello che (non) è. Se è un prototipo, non è per definizione compiuto, ma è sempre da fare. Nel corso del suo sviluppo cambia incessantemente. Deve cambiare. La sua essenza lo richiede. L'errore lo costituisce da capo a piedi perché se non fosse errante non sarebbe affatto un buon prototipo, cioè una macchina da sviluppare. 

 

 

Lo stesso grande precetto che fonda la poetica dell'Atelier conferma questa ipotesi. Tutto è permesso, spiega Luca Santiago, tranne una cosa: cancellare. Si cancella, infatti, quando si è in presenza di modelli da imitare “correttamente”. Si cancella quando si è a scuola. Si cancella per ovviare una mancanza che misura tutta la nostra ontologica differenza dall'Idea-Archetipo di cui il Maestro (o il Terapeuta) è l'intercessore. Ma se i mostri sono prototipi essi potranno solo continuare, foglio dopo foglio, per aggiustamenti, revisioni, assemblaggi. Un verso di Wallace Stevens ben illustra il clima che regna nell'Atelier: “La complicata armonia dell'accumulo”, scrive il poeta americano, riferendosi, forse, alla complessità di una qualsiasi esistenza. 

 

A differenza degli archetipi che sono fatti di passato, i prototipi pendono tutti sul futuro. Non percorrono un sentiero prescritto, ma lo producono marciando. Cambia così lo statuto dell'errore: esso si libera dall'abbraccio mortale con il falso, per farsi via, cammino, sperimentazione. Una sperimentazione però non astrattamente libera, come era nei sogni di una certa avanguardia che, quando si rivolgeva all'infanzia o alla malattia mentale, lo faceva vagheggiando ingenuamente un territorio vergine dove “tutto fosse possibile”. Un prototipo detta infatti delle condizioni per il suo sviluppo, impone dei vincoli. Con il passato lo sviluppatore della macchina deve incessantemente “negoziare” per aprirsi dei varchi nel futuro. Il nuovo lo si crea con i materiali che sono a disposizione, astutamente, con un lavoro da bricoleur. Un mostro-prototipo è perciò una specie di memoria revisionista, centrata sul presente, che, come un ragno, secerne bave di futuro, ridando continuamente forma alla totalità (passata) della tela, che non è mai compiuta, ma sempre in fieri, sempre esposta alla necessità, per sopravvivere (“per poi evolversi...” diceva l'ekphrasis della Furia Buia Morte Susurrante), di continuare la marcia in avanti. 

Si resterà allora delusi se in questi disegni si cercherà la “libertà” e la “freschezza” dell'infanzia. Perché non ci sono. C'è piuttosto una angoscia particolare, che niente ha a che fare con quella celebrata nelle pagine dei filosofi esistenzialisti. È l'angoscia che io chiamo del non poter non, un'angoscia al di là del possibile come dell'impossibile: non poter non proseguire, non poter non ricominciare, non poter non aggiungere, per contiguità, un nuovo segno ad uno vecchio, cambiando ad ogni passo il senso dell'insieme... Che altro infatti comporta l'interdetto “Non cancellare!” se non questa assegnazione a un destino? E che cosa è un destino se non “un'indeterminatezza determinabile” (Husserl)? “Libertà” e “freschezza” sono miti generati da adulti che tutto hanno dimenticato dell'infanzia, i bambini sanno invece benissimo quanto è implacabile la vita. 

 

Ma se tale è la natura del mostro-prototipo, ecco allora che l'arte dell'Atelier si rivela fatta della stessa pasta di cui è fatta la vita. Non la “vita” dei feticisti della vita, non la vita-valore, ma la vita reale e “immonda”, la vita biologica. Chi ha anche soltanto sfogliato i testi sull'evoluzionismo di Stephen Jay Gould, ad esempio, sa bene che il vivente procede errando, mai cancellando. La piuma che nel dinosauro fungeva da isolante termico è rifunzionalizzata dall'uccello, suo discendente, per volare. Nuovi usi di vecchie facoltà, errori felici, cioè fogli che si aggiungono ad altri fogli per continuare in nuove e impreviste direzioni, prototipi che si sviluppano differenziandosi e trasformandosi fino a diventare irriconoscibili. I mostri sono insomma degli embrioni*, delle uova, delle larve, più simili nella loro non-forma ai lemuri o agli zombi, che a corpi armoniosi e compiuti. 

 

Si comprende allora perché nella nota che chiudeva il catalogo, non si facesse accenno alla “mancanza” che, ad uno sguardo superficiale, sembrerebbe essere il tratto che accomuna gli artisti dell'Atelier. Non era una questione di tatto o di correttezza politica. È che la mancanza – così cara ai filosofi del Novecento che ne hanno fatto il loro “credo” – nell'Atelier proprio non c'è e non c'è nemmeno la malattia, sua parente stretta. C'è piuttosto la salute, la “grande salute” di cui parlava il valetudinario Nietzsche. I mostri sono pure potenze affermative, la loro crudeltà è festiva. La “politica” implicita in queste opere non ha, quindi, niente di rivoluzionario, non proclama nessuna palingenesi. La rivoluzione suppone un presente malato che deve essere redento. Il metodo dell'Atelierè invece pragmatico e riformista: sposa il farsi l'esperienza, la riscatta dall'insufficienza che l'adulto (il Terapeuta, il Maestro, l'Intercessore del Modello) fa gravare su di essa e ne fa occasione di una terribile jouissance: Isopode Fango e Sangue Mi Dicono Mongoloide E Io Mi Difendo.

 

* devo l'associazione prototipo-embrione alle ricerche sulla filosofia della biologia condotte da Daniele Poccia.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Atelier dell'Errore, Atlante di zoologia profetica

I tre passi fondamentali della perversione

$
0
0

Possiamo riassumere l’illusione perversa in tre passi distinti. Il primo passo è quello critico. Il perverso ambisce a denunciare la Legge degli uomini come un’impostura, a smascherarne la falsità e l’ipocrisia, a sviluppare una serrata critica alla dimensione disciplinare, repressiva, assoggettante della Legge. Per Sade la Legge assomiglia ad un “serpente velenoso”. La Legge degli uomini è un veleno perché trasforma la vera virtù – la spinta acefala della pulsione – in vizio, perché associa la virtù al giudizio morale imboccando la strada superegoica dell’esaltazione idealizzante del sacrificio e della colpa.

 

 

La critica della Legge è un punto fondamentale del pensiero perverso. Non a caso Sade assume l’atto perverso come una sorta di “negazione della negazione”: negazione di quella negazione morale che la Virtù eserciterebbe sul Vizio. Nega la negazione della vita promossa dalla Legge; solo il Vizio, non la Virtù, sarebbe, infatti, l’espressione naturale – “senza Legge” – della vita. Il carattere di impostura e di artificio simbolico della Legge consiste invece nel fatto che essa allontana l’uomo dalla Natura rendendolo schiavo, prigioniero della Legge stessa, la quale non sarebbe altro che una manifestazione della difesa impaurita del soggetto nei confronti dell’eccesso indomabile del godimento. È la prossimità paradossale che Lacan sottolinea tra Kant e Sade: eleggere il godimento – la “volontà di godimento” sadiana – come nuovo imperativo universale della Legge al quale vengono subordinate le vite individuali e i loro interessi più empirici. 

 

La colpa e la maledizione della Legge degli uomini è negare la realtà della Legge del godimento. La Legge degli uomini aliena la vita dalla sua Origine, da quel godimento compatibile col corpo che Sade vede incarnarsi nella vita della Natura. Non è quindi un caso che il progetto sadiano consista nel tentativo di rinaturalizzare l’uomo, di ricuperarne l’Origine, l’innocenza della vita al di qua dell’esistenza della Legge. 

Il secondo passo è quello fondazionista. Il progetto perverso non può essere contenuto nella sola critica alla Legge. La sua esigenza è assai più radicale. Esso non si accontenta della versione paolina della Legge nella sua dialettica col desiderio (interdizione-trasgressione), ma pretende di riscrivere ex-novo la Legge, di rifondare la Legge, di dare alla Legge un nuovo fondamento. Il “senza Legge” del godimento perverso non è quindi un vero “senza Legge” perché il godimento diviene la nuova e unica forma possibile della Legge una volta abbandonata l’impostura della Legge degli uomini. Il vero perverso non gode, infatti, nella trasgressione della Legge – è questo è semmai il tratto perverso che può accompagnare il desiderio nevrotico –, ma  aspira alla sua rifondazione radicale.

 

Quale? Qual è la Legge delle Leggi alla quale il perverso si vota come un “crociato”, come un “cavaliere della fede”, per usare le espressioni che Lacan propone nel Seminario XVI? Qual è la Legge delle Leggi che dovrebbe oltrepassare la maledizione colpevolizzante della Legge degli uomini? Questa Legge – nella lettura perversa della vita – è la Legge della Natura che, non a caso, Sade concepisce come una sorta di “armonia invertita” e che Pasolini sintetizza nella prima battuta di uno dei membri del diabolico quartetto del suo Salò : “l’eccesso è Bene”. Battuta che eleva l’eccesso alla sola forma possibile della Legge, alla sua forma compiuta, ovvero inumana.

Il terzo e più fondamentale passo è però quello metamorfico. Il passo più essenziale della perversione non è infatti né quello della critica alla Legge, né quello della spinta alla sua rifondazione. Il passo più essenziale – il più decisivo passo – è quello della metamorfosi dell’umano. Quale metamorfosi? Quella che Lacan nel Seminario X descrive come trasformazione del Soggetto sbarrato nell’oggetto piccolo (a). Si tratta di una metamorfosi masochista.

 

Il perverso non si limita a realizzare il godimento di fronte alla negatività infelice del desiderio, ma punta a trasformare il soggetto stesso del desiderio, il soggetto diviso, sbarrato, mancante, il soggetto che non può mai coincidere con se stesso – il soggetto dell’inconscio – in un oggetto inerte che non conosce mancanza, non conosce divisione, non conosce desiderio, non conosce negatività. In Sade questa metamorfosi rinvia alle figure di Dio e dell’animale come due forme di vita che escludono la distanza che separa il corpo dal godimento. L’esito ultimo della metamorfosi perversa è quello di assimilarsi a Dio (“Dio è presente ovunque in Sade”, ha scritto Lacan ) o, ma è, paradossalmente, la stessa cosa nella logica perversa, all’animale. Dio e l’animale sono, infatti, due forme di vita nelle quali la disgiunzione che distanzia e che separa il godimento dal corpo viene annullata. 

 

La metamorfosi perversa eleva il masochismo a forma compiuta della perversione. Solo nel masochismo può realizzarsi pienamente la soppressione del soggetto diviso come indice della forma umana della vita perché nel sadismo sopravvive ancora una quota di soggettività, una quota di volontà, di intenzionalità. Il sadico vuole godere, agisce per sottomettere l’Altro al suo regime volontaristico gettandolo nell’angoscia, ma non può mai coincidere con l’oggetto del suo godimento. La sua resta ancora una spinta a godere che denuncia paradossalmente lo scarto che continua a sussistere tra corpo e godimento. Nel sadismo – come mostrano le pagine sartriane de L’essere e il nulla dedicate al desiderio sadico – sussiste una spinta a godere che mentre vorrebbe annullare la distanza insopprimibile tra il godimento e il corpo è costretto a rivelarla eternamente. Questa distanza può essere soppressa (illusoriamente) solo nell’inerzia della posizione masochista. Per questo secondo Lacan, diversamente da Freud, non esiste alcuna simmetria tra sadismo e masochismo; l’uno non è il polo attivo (sadismo), né l’altro quello passivo (masochismo) di una identica economia pulsionale. Piuttosto secondo Lacan è il masochismo a realizzare la metamorfosi compiuta del soggetto alla quale punta il disegno perverso.

 

Nel masochista più che nel sadico ci troviamo di fronte a una totale abolizione del soggetto diviso del desiderio. Il masochista si gode, infatti, solo in quanto oggetto; si rende oggetto compatto come un minerale, una pietra, un “cane”, un “detrito”, uno “scarto”, come afferma Lacan. Puro oggetto, impersonalità pura dell’oggetto e del godimento Uno. 

L’aspirazione più estrema della perversione è quella di realizzarsi – come scrive puntualmente Lacan in Kant con Sade– in una “vicinanza” assoluta con la Cosa. Il masochista è un Dio che non conosce la morte: essere un cane, uno scarto, un detrito significa realizzare una forma di vita (inumana) in cui la mancanza e il desiderio siano finalmente aboliti. La sua impersonalità spurga la vita dall’angoscia per la morte e per l’eccesso anarchico della vita. Essa vuole restituire al corpo – sottratto alla Legge del linguaggio – la sua integrità assoluta di corpo di godimento, compatto come il cemento, libero da ogni forma di mancanza. In questo senso il masochismo è il tentativo più radicale di raggiungere, in vita, una forma di vita (impersonale) che non conosce più l’assillo della mancanza. Una vita che è già non-vita; quella di un Dio o di un animale. Operazione di messa a morte della forma umana della vita. Per il masochista il desiderio è morto e, di conseguenza, il godimento può finalmente darsi, nel corpo, come assoluto. Essere cane, scarto o detrito realizza una forma di vita dove la mancanza è dichiarata illusoriamente estinta. Il desiderio morto e il godimento reso assoluto; la vita finalmente libera dall’angoscia della morte. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Maître del godimento del corpo

Il silenzio della psicoanalisi di fronte all’arte

$
0
0

A che cosa serve un sintomo? L’ultimo Lacan lo diceva provocatoriamente ma molto chiaramente: il sintomo non serve a niente. Serve soltanto a godere. È un’affermazione che evidentemente ribalta quello che è ancora oggi uno dei luoghi comuni più diffusi riguardo all’esperienza della psicoanalisi. Ovvero, il fatto che si tratti di una pratica che produce una conoscenza riguardo al sé, alla propria interiorità, al proprio – ma il termine andrebbe chiarito – inconscio. Che cos’è infatti l’inconscio? È un insieme di significati che riguardano noi stessi e che sono nascosti alla coscienza? È un archivio di esperienze passate che sono successivamente state represse per il loro contenuto traumatico? Che cosa vuol dire “fare esperienza” dell’inconscio durante l’analisi?

 

Giorgio Celiberti, 1992-1995 Teorema magico

 

La psicoanalisi, inventata dalle isteriche alla fine del XIX secolo, è nata come obiezione nei confronti di un’eziologia medica che non riusciva a trovare la causa di un malessere che pur manifestandosi oggettivamente sul corpo sembrava non avere ragione d’esistere. È stata l’isterica a inventarsi un messaggio cifrato, iscritto sul proprio corpo, indirizzato a un interpretante che doveva comprenderne il senso. Freud all’inizio non mise in discussione il paradigma medico dello scire per causas, semplicemente provò a renderne più complesso il dispositivo. Il sintomo allora diventò innanzitutto un enigma – un significante dirà Lacan – che attendeva di essere compreso: il tassello mancante di una conoscenza del sé che doveva essere ripristinata. D’altra parte è quello che accade ancora oggi durante l’esperienza d’analisi: l’analizzante porta un sintomo in seduta perché vuole comprenderne il significato. Perché soffro? Perché questo sintomo continua a ripresentarsi nella mia vita indipendentemente dalla mia volontà? Qual è il suo significato? Che cosa dice di me? Secondo lo scire per causas, il sintomo deve essere “compreso”; deve essere ricondotto alla sua causa, alla sua significazione. La psicoanalisi deve dirmi “chi sono”, deve essere una pratica di “conoscenza” di ciò che pur essendo in me, è così nascosto da essere invisibile alla mia stessa coscienza. 

 

Giovanni Frangi, Adige

 

Eppure tutto questo dice solo una parte della storia. Prima con il Freud di Al di là del principio di piacere e poi con il Lacan della teoria del significante, ci si accorse che invece c’è qualcosa che impedisce al sintomo di avere una significazione che lo esaurisca una volta per tutte. Che dietro al sintomo non c’è una causa che lo muove secondo un movimento verticale, ma che semmai il movimento del suo dispiegarsi è orizzontale. Dopo che una formazione sintomatica si scioglie, se ne ripresenta un’altra, e poi un’altra ancora e poi un’altra ancora… È per questo che Lacan utilizzò la formula dell’inconscio strutturato secondo il principio della catena significante: non esiste un solo referente o significato che muova e spieghi il sintomo; dietro al sintomo c’è un altro sintomo, e poi un altro ancora etc. Esattamente come per Saussure dietro a un significante non vi era un significato ma solo un altro significante. 

Bisogna allora assumere che la scoperta più sconvolgente del freudismo sia stata la pulsione, o per meglio dire, il fatto che l’inconscio non voglia dire letteralmente niente; che l’illusione della sua profondità sia stato il più grande degli inganni di Freud. La psicoanalisi non è un’ermeneutica. Sembra paradossale affermarlo riguardo a una pratica che invece viene sempre presentata come una specie di “scandaglio” negli abissi dell’animo umano. L’inconscio è tutto in superficie. “La verità è là fuori”, come ama dire Slavoj Žižek citando X-Files. Non c’è un segreto che possa far guarire dalla “malattia” dell’essere umani. Il sintomo non vuole “dire qualcosa”. O meglio, se qualcosa dice è dell’ordine del linguaggio del Joyce di Finnegan’s Wake: una sorta di eterno blablabla spiraliforme che gira attorno al nulla e che non vuol comunicare letteralmente nulla.

 

Bisogna cambiare prospettiva. Evitare la pretesa di ridurre il sintomo nell’alveo dell’Uno del senso: la stoffa di cui è composto è invece quella di un godimento intransitivo e superficiale. Quello per cui si parla solo per il godimento di parlare, non per dire qualcosa dell’ordine del significato. Lacan ribalta allora la prospettiva del primo Freud: la ricerca di senso non è la guarigione, ma semmai la malattia. L’esperienza dell’analisi non è ricerca di significati e di profondità, ma un attraversamento superficiale della radicalità del non-senso. Non c’è niente di più inaccettabile che pensare che dietro alla superficie non ci sia nient’altro. Che tutto il mondo sia composto di superfici e di superfici di superfici, come in Lewis Carroll. La psicoanalisi allora più che essere vicina alla psicologia, all’antropologia o allo studio dei miti è invece più strettamente imparentata con la matematica e la poesia, due pratiche che hanno da sempre avuto più dimestichezza con la dimensione intransitiva, superficiale e insensata del linguaggio. Un mondo dove le parole non sono nient’altro che parole, e dove le lettere non sono nient’altro che lettere. E non dicono nulla oltre se stesse.

 

La psicoanalisi allora non crea un sapere – quanto meno non nella sua accezione corrente – semmai compie un’operazione di taglio nei confronti dei saperi che già esistono. La seduta lacaniana, enfatizzando il momento dell’interruzione e della punteggiatura del discorso dell’analizzante, lo mostra nella maniera più chiara nella sua stessa pratica. Non ricuce il nostro rapporto con l’Io, semmai lo disfa. Non dice qualcosa, ma rompe il legame narcisistico che si costruisce con un sapere. Esattamente come per Althusser il sapere si costituiva nelle rotture epistemologiche, non nelle false unità costruttive della rappresentazione. È importante fare questa premessa, perché sta ritornando in auge negli ultimi tempi un’idea della psicoanalisi come “disciplina del senso”: che cosa ha da dire la psicoanalisi sulla politica? Sui dilemmi dell’etica? Sull’arte? Non deve forse la psicoanalisi spiegarci le cose e aiutarci a comprenderle? No, non deve farlo. Il silenzio analitico non è un vezzo narcisistico, è una precisa postura etica. L’atto analitico è un atto di dis-identificazione nei confronti dei saperi costituiti.

Dunque, che cosa ha da dire lo psicoanalista nei confronti dell’esperienza artistica? Se lo chiede Massimo Recalcati ne Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti (Feltrinelli, 2016, pp. 266, 29€), volume che costituisce il punto di arrivo di un confronto che lo psicoanalista milanese porta avanti da anni con il mondo dell’arte, e soprattutto con quello della pittura. Riprendendo alcuni temi che già erano stati sviluppati in passato in altre sedi, come ne Il miracolo della forma (Bruno Mondadori, 2007), Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e Giovanni Frangi, diventano nomi propri attraverso cui Recalcati riflette su uno dei temi più importanti che hanno attraversato il suo pensiero negli ultimi anni: la sublimazione. Di che cosa si tratta?

 

Jannis Kounellis, 'Untitled' 1969

 

Già all’inizio del libro viene ricordato come per Freud “la radice ultima dell’ars poetica [fosse] quella di sopportare la “ripugnanza” verso l’assenza di senso della vita” (p. 11). “Sopportare” dunque, e non “dire qualche cosa” o “significare”. La pratica artistica non riporta la dimensione del non senso a quella della significazione come fanno le ideologie della rappresentazione. Semmai quel non senso prova – come viene detto nel libro – a “circoscriverlo”, a “resistergli”, a “dargli forma”: manipolandolo al livello della superficie, e abbandonando ogni pretesa di vedere “che cosa ci stia sotto”. L’atto di spalmare la pittura sulla tela, di manipolare la materia, così come il poeta fa con le parole e il matematico fa con le lettere e gli assiomi, sono il modo attraverso cui viene preservato l’impossibile; o meglio, di come viene fatta esperienza della plasticità morfologica dell’impossibile e del non senso. La sublimazione non è l’elevazione verticale del reale al livello della “bella forma” come vorrebbe l’estetica borghese, ma è il modo attraverso cui si abita l’impossibile nella sua orizzontalità e nella sua immanenza.

 

Lo psicoanalista allora non dovrà fare un’operazione di “spiegazione” del lavoro dell’artista e di applicazione di categorie interpretative che facciano da didascalia a quello che si vede. Troppo spesso ancora oggi quando uno psicoanalista (o un filosofo) si confronta con l’arte, il cinema o la letteratura sembra non riuscire a liberarsi da questo fraintendimento di fondo. È una cattiva abitudine che tuttavia non manca di padri nobili, tra cui lo stesso Freud che in Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci provò a ricostruire i tratti della personalità dell’artista a partire da un’interpretazione della sua opera (anche se a dire il vero fu lui stesso ad ammettere il carattere approssimativo e dimostrativo del suo saggio). Lo psicoanalista, se è davvero capace di dimostrarsi fedele all’etica di un sapere insostanziale e sottrattivo, dovrà invece semplicemente testimoniare del contenuto di verità dell’operazione artistica, senza provare a spiegarla o a “verticalizzarla” verso un contenuto significante. Muoversi lungo la superficie esattamente come fa un pittore. 

 

William Congdon, New York City (Explosion) 2, 1948

 

Tuttavia non tutto il lacanismo è dell’avviso che il reale – o per meglio dire, il reale-in-quanto-impossibile – si costituisca in questa forma: immanente, intransitiva e superficiale. Il lacanismo, soprattutto negli ultimi anni, sta prendendo direzioni anche molto diverse a questo riguardo. È lo stesso Recalcati che in questo libro, utilizzando formule come “mistero dell’assoluta assenza e dell’assoluta presenza” “assoluto” e “irraggiungibile”, sembra avvicinarsi a un’altra idea di reale, non completamente divergente ma nemmeno del tutto sovrapponibile alla prima; un’idea che in effetti è stata da sempre parte integrante sul suo pensiero, come si evince chiaramente da questo passo: 

Questo significa che l’evento dell’opera d’arte, quando è tale, vive della sua sola immanenza anti-illustrativa – ogni opera non vuol dire niente, non significa niente se non se stessa –, ma proprio per questo, proprio perché il suo evento è al di là di ogni riferimento ad esso esterno, deve rifiutarsi a ogni riduzione tautologica preservando la sua trascendenza interna. (p. 13). 

 

L’idea insomma è che vi sia una trascendenza interna; che non tutto dell’opera d’arte possa essere ridotto a una geometria di superfici e spazi lisci. Recalcati non ne hai mai fatto mistero, intraprendendo negli ultimi anni un confronto sempre più serrato con il pensiero cristiano, come mostrano alcuni termini come “invocazione”, “preghiera laica” o “apertura inaudita sull’invisibile”. La pittura sarebbe dunque un aprirsi verso un reale – ma più volte nel volume compare il termine di “sacro” – che pur nella sua immanenza rimarrebbe radicalmente eterogeneo: è ciò che mostrerebbero le bottiglie di Morandi, i sacchi di Burri, le Delocazioni di Parmiggiani, gli abiti trafitti da croci di ferro di Jannis Kounellis e le molte altre figure che accompagnano Il mistero delle cose

 

Senza alcuna pretesa di risoluzione, ma per provare a compiere un movimento “a lato” di questo problema, un aiuto potrebbe venire dal pensiero di Alain Badiou secondo cui l’arte non sta tanto in rapporto al reale dal lato della rappresentazione quanto da quello dell’atto. L’arte insomma – o per meglio dire, alcune singolarità artistiche – sarebbero operatori che producono quel taglio capace di dividere il tessuto costituito dei saperi e di mostrarne la natura antagonistica o non-tutta, più che un’allusione a dimensione eterogenea o “inaudita”. Come avviene anche per l’atto analitico, una singolarità artistica può essere in grado di spezzare l’Uno del senso attraverso i suoi effetti più che con la sua forma. Il problema non sarà allora tanto quello di contemplarla e stabilire la distanza del suo rapporto al reale, quanto quello di stabilire cosa farsene delle conseguenze della sua azione. Una domanda che più che l’estetica non può che convocare la dimensione della politica. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Massimo Recalcati. Il mistero delle cose

Adolescenza, stato interminabile

$
0
0

“Come va?”, “Tutto ok”, “Com’è andata a scuola?” “Solito”. L’adolescente è laconico. Quando è costretto a comunicare con il mondo altro, quello adulto, adotta un sistema monosillabico e risponde per gentile concessione a quell’evidente tentativo di estorsione. La comunicazione tra i grandi e chi cammina nelle sabbie mobili di un’età storicamente ingrata, ora incerta, è la parte più ardua di quella missione formativa che già Freud definiva impossibile.

I testi che parlano di adolescenti appaiono spesso stereotipati, gli usi e i costumi dell’età incappano nelle definizioni della patologia, in ammiccamenti verso le forme che assume la sessualità: lo sguardo dall’alto di una generazione rivolto verso il basso di quella che cresce ripropone, ogni volta e di nuovo, il confronto tra passato e futuro, modelli sociali e aspettative genitoriali e, a ognuno, i propri ricordi di gioventù. Ai miei tempi non era così, né poteva esserlo perché ogni generazione che avanza costruisce il proprio volto in un mondo diverso. 

 

Tiziana Iaquinta, pedagogista, e Anna Salvo, terapeuta di formazione psicoanalitica, evitano le trappole della moralizzazione e della demonizzazione, e partono da un punto di osservazione terzo: che empatizza, senza far comunella, con il soggetto adolescente. Generazione TVB. Gli adolescenti digitali, l’amore e il sesso (il Mulino, 2017) indaga, in particolare, la sfera degli affetti, quella zona inesorabilmente inquietante attraversata da ambivalenze e contorsioni segrete. La ricerca, che vuole costruire ponti tra la teoria e la pratica di diverse discipline, è comune, ma ogni capitolo, con inserti di racconti dei ragazzi, è scritto al singolare.

 

L’adolescenza non esiste più nel suo ruolo di transizione, si annuncia piuttosto come l’esordio di una lunga durata. Emerge una figura mobile, insieme tarda e precoce, che l’allungamento della vita media dilata e contrae. Come nella nostra epoca capita a ogni passaggio d’età, anche la pubertà si annuncia fin da subito come una perdita, uno stato ignoto che allontana dal paradiso perduto dell’infanzia – e un film come Inside out aiuta genitori e figli uniti dal desiderio di un infinito postpone.  

 

Ph Mike Brodie.

 

“Cosa accade quando la fine dell’adolescenza viene costantemente rimandata? Quando viene tollerato se non addirittura promosso il fatto che questa età della vita straripi e invada il tempo che dovrebbe consegnare all’ingresso nell’epoca adulta? Accade (…) che l’ideale di perfezione trovi poco freno e scarso contenimento e insista a esercitare la propria tirannia ben oltre gli anni delle turbolenze e delle battaglie interne fisiologiche del teatro psichico adolescenziale. Più semplicemente, ciò che voglio dire è che l’abbraccio mortale con cui l’ideale stringe in genere il soggetto adolescente, sembra stringere e dominare, da qualche tempo a questa parte, anche soggetti apparentemente adulti”.

Anna Salvo usa il termine di furto per descrivere il rovesciamento del costume che può portare una madre a volersi vestire come la figlia, un padre a fumarsi una canna insieme al figlio. Un processo di mimesi, dove è il mondo adolescente a contagiare quello adulto. 

Una mescolanza che annulla i confini, mette un punto interrogativo al senso del limite. Dalla verticalità di una gerarchia all’orizzontalità del genitore emotivo, il primo a temere il no. 

E già cinquant’anni fa il lavoro dello psicoanalista americano Peter Blos si interrogava sugli effetti perversi dell’idillio in famiglia, quando tra genitori e figli prevale l’armonia. E se un conflitto non è più tale, il genitore non ha ragione di provare a “resistere”.

 

Troppo quieti, tranquilli, solo apparentemente rassicuranti in pubblico: il mondo interno dei nativi digitali può spaventare l’adulto che riesce a intercettarlo.

Per entrambe le autrici sono ancora le riflessioni di Winnicott quelle capaci di descrivere una figura dove l’azione prevale sulla riflessione, dove l’apatia pare depressione e l’anaffettività crudeltà. Proprio Winnicott ha parlato di odio nella relazione terapeutica a partire dalle sue esperienze con adolescenti. 

Secondo i dati più recenti, la popolazione tra i 14 e i 17 è di circa due milioni e 300 mila persone, di cui circa 190 mila stranieri. Il 92,6% non abbandona mai il cellulare nel corso della giornata, il 64% dichiara di consumare alcol, tabacco o cannabis, l’11,5 gioca d’azzardo on line, uno su due dice di aver subito azioni di bullismo o di cyber bullismo.

Per i nativi digitali, separati fisicamente ma in connessione permanente, è nel silenzio dello schermo che la comunicazione si fa pervasiva: sembrano vivere in una bolla per il timore di doversi staccare dal contatto visivo. 

 

“La costante presenza in Rete del gruppo degli amici (…) o l’invio continuo di immagini di sé, scrive Tiziana Iaquinta, mettono in rilievo quanto per questa generazione sia importante l’apertura o la chiamata in causa dell’altro. All’altro ci si rivolge con differenti sfumature e attese: di volta in volta può essere destinatario, interlocutore o testimone. Ma l’altro è sempre presente, viene sempre chiamato a interagire, a sostenere, a chiarire o a definire”. 

Un botta e risposta che muta le modalità della comunicazione, un incessante dialogo verbale, non orale ma scritto, che lascia il tempo di avere sotto controllo le emozioni e di agire anche l’aggressività attraverso la rete.

 

Nell’adolescenza di oggi età mentale ed età cronologica non coincidono, come è più evidente nella sfera della sessualità e dell’affettività. L’ambiente che sollecita alla precocità, all’ostentazione, produce in parallelo stati di sospensione, rimandi infiniti, accelerazioni brusche. Il desiderio si teme e si astiene. Sono saltati gli stadi tradizionali, la sessualizzazione è precoce, la latenza può essere una fase che arriva dopo le prime esperienze sessuali. Ora che l’orientamento sessuale è una materia scolastica – un libro come L’insegnante di astinenza sessuale lo descrive con grande ironia –, la repressione della spinta sessuale risulta meno necessaria. Rimane comunque difficile interrompere la relazione così gratificante con gli adulti, accettare l’eros del proprio corpo. L’assenza di codici produce ansia, tutto può diventare un modello – la pubblicità, la moda, una serie televisiva, un racconto romantico.

Definirsi sessualmente vuol dire andare incontro all’altro, sentirsi pronti a un contatto non virtuale, accettare l’insormontabilità del corpo. Che, liberato dall’etica, è diventato dominio dell’estetica. Il corpo, feticcio e limite, delude la rappresentazione di un sé splendido. È il corpo il soggetto impresentabile, che non può mostrarsi nudo all’altro, perché c’è sempre qualcosa che impedisce la perfezione – il seno, i glutei, il pene. 

 

Da ritoccare e da rifare. Così il sesso, una volta invisibile, ardentemente fantasticato, è diventato ora una “cosa sessuale”, dove la troppa realtà inibisce l’immaginazione. 

Non ci sono, per le autrici di Generazione TVB, conclusioni da proporre, ma aperture e inviti alla riflessione per alfabetizzare le emozioni, educare ai sentimenti, senza spaventarsi per l’incontro con un soggetto inedito. D’altronde, il passaggio in pochi decenni dalla famiglia etico-normativa a quella affettivo-soddisfattiva, da un rapporto genitori-figli autoritario a uno paritario, in un “rapporto dialogico” che nasce già durante la vita intrauterina, non prevede risposte univoche.

Un mondo emotivo e affettivo che, con la crescita dei figli, rischia di deludere le aspettative di tutte le figure in gioco, costrette improvvisamente ad affrontare l’estraneo, a rischiare la mancanza di riconoscimento, a scoprire i lati in ombra e le comuni fragilità. Fragilità, la parola che nessuno vuole sentire.

L’identità insicura e l’irresolutezza nella relazione amorosa non appartengono più solo al giovane Holden, sono diventati la condizione umana della contemporaneità. Dove siamo tutti eterni ragazzi e ragazze.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Generazione TVB

Enzo Bonaventura e la psicoanalisi

$
0
0

Quel che mi è accaduto ha dell’incredibile. Una vicenda che ha qualcosa di misterioso e attraente mi spinge a scriverci sopra. Ma cominciamo dall’inizio. È uscita dopo molti anni, per Marsilio, una nuova edizione critica del libro di Enzo Joseph Bonaventura (1891-1948): La psicoanalisi, a cura e con introduzione di David Meghnagi.

 

Bonaventura non era medico, era laureato in filosofia e si occupava di psicologia sperimentale. A quei tempi la psicologia sperimentale era altra cosa rispetto alle attuali “scienze cognitive”. 

In quegli anni gli autori più importanti, i fondatori della psicologia sperimentale, erano Wilhelm Wundt (1832-1920) e Franz Brentano (1838-1917). Brentano, era, a sua volta, maestro di Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della filosofia fenomenologica, e di Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore della psicoanalisi. Entrambi, Husserl e Freud, avevano ascoltato Brentano a lezione. 

Di particolare importanza era la nozione di “intenzionalità”, che Brentano aveva ripreso dalla filosofia medievale, distinguendola dal concetto di “intenzione”. Il tema dell'intenzionalità sarebbe stato al centro della filosofia di Husserl, fino al concetto di Einfühlung, oggi tradotto con “empatia”. In psicoanalisi questa ricerca filosofica assumerà la denominazione di “traslazione”, o “transfert”.

 

Grazie a questa sua formazione filosofica, Bonaventura rileva la scarsa conoscenza da parte degli psicoanalisti medici riguardo alla psicologia sperimentale che, dalla psicologia della percezione alla psicologia sociale, aveva avuto un'impostazione marcatamente fenomenologica, per esempio con la psicologia della Gestalt di Max Wertheimer (1880-1943) e Wolfgang Köhler (1887-1967) e la teoria del campo di Kurt Lewin (1890-1947). In altri termini, proprio passando attraverso la psicologia sperimentale di quel tempo, che traeva spunti e fondamenti dalla filosofia fenomenologica, si chiariva un punto chiave della psicoanalisi: la relazione terapeutica, che i medici tendevano a trascurare a vantaggio di una concezione oggettivante del “paziente”.

 

Tuttavia questo libro ha per me un suo fato. Mesi fa discussi una tesi con uno studente ebreo, Mirco Ferrari, sulla vita e l'opera di Silvano Arieti, amico e collega di Bonaventura. Tra le sue opere, Arieti scrisse una memoria sul caso clinico del Parnàs, Abramo Giuseppe Pardo, Presidente della Comunità ebraica di Pisa. 

 

Pardo soffriva di una grave forma di fobia che gli impediva di uscire di casa per il timore di venire sbranato da animali domestici. La sua auto-reclusione facilitò la cattura e la sua uccisione da parte dei nazifascisti nel 1944, poco prima della liberazione della città. Proposi a Ferrari di intervistare David Meghnagi, che, oltre a essere il massimo studioso italiano riguardo ai rapporti tra ebraismo e psicoanalisi, ha indagato a fondo proprio la patologia del Parnàs a partire dall'opera di Arieti. Mirco Ferrari va a Roma per parlare con Meghnagi, per la tesi. Durante il colloquio Meghnagi gli parla di un altro psicoanalista ebreo: Enzo Bonaventura, forse perché in quel momento è impegnato a lavorare su questo libro, oppure perché Bonaventura e Arieti erano in rapporto di amicizia tra loro, per contiguità. 

Durante la giornata di martedì scorso ricevo in università la nuova edizione Marsilio di La psicoanalisi, con l'introduzione di Meghnagi. Rientro a casa e trovo un pacco con dentro l'edizione Arnoldo Mondadori del 1950 dello stesso libro, insieme a una lettera di Mirco Ferrari, che, tra le altre cose, mi scrive: 

 

 

Nella Torah troviamo scritto “Tzedeq, Tzedeq, Tirdof” (Deu: 17:2). Letteralmente significa “la giustizia, la giustizia inseguirai”. Tramandando la memoria di Bonaventura e di Arieti e del Parnàs, inseguendo la loro storia e tentando di comprendere la loro vita, noi partecipiamo attivamente a un cambiamento di cui il mondo necessita ancora oggi, attraverso questo nostro agire stiamo inseguendo la giustizia.

 

Una curiosa coincidenza, una sincronicità junghiana, una convergenza di interessi che confluisce in un martedì particolare, una “buona ventura”, una catena che risale da Bonaventura ad Arieti, da Arieti al Parnàs, poi a Meghnagi e a Mirco Ferrari, oppure da Arieti, analista di Luigi Boscolo, fino a Luigi Boscolo, il mio primo analista. 

 

Dopo avere letto il libro, guardo l'edizione del 1950, è certo appartenuta a qualcuno. Trovo una piega al margine destro di pagina 205. Date le circostanze, già così misteriose, mi affido; come Agostino al momento della conversione: prendo e leggo il primo paragrafo della pagina a fronte, la 204 (pagina 153 della nuova edizione).

La nascita ha il suo simbolo nell'acqua. Secondo il Freud, questa è la semplice trascrizione per cui il feto nel seno materno è immerso nel liquido amniotico, sì che la nascita è un vero uscir dall'acqua. La mitologia offre numerosi esempi a controllo di questo simbolo: si pensi tra l'altro alla nascita di Venere che sorge dalla spuma del mare, come nella mirabile figurazione di Sandro Botticelli; si pensi ai molti racconti di eroi che appena nati sono stati “salvati” dalle acque, come Mosè nel racconto biblico, Romolo e Remo nella leggenda latina, Sargon in quella babilonese. Uno studioso psicoanalista, O. Rank ha raccolto in un volumetto gran miti di tutti i popoli intorno alla nascita degli eroi, confermando la generalità del simbolo. Nel sogno salvare una persona dall'acqua significa riconoscere un rapporto di maternità con quella persona.

Oltre che nei contenuti, la prosa di questo testo riserva una serie di ammaestramenti letterari su quel modo di scrivere che caratterizza la saggistica a cavallo tra Otto e Novecento, dove l'articolo determinativo davanti al nome (“il Freud”) mostra la deferenza dovuta verso l'autore così come l'uso di espressioni eleganti, come “mirabile figurazione”, o il troncamento dei termini, come in “uscir dall'acqua” rende alcune sonorità poetiche dell'italiano di quei tempi.

 

Tzedeq, Tzedeq, Tirdof, giustizia, giustizia inseguirai: La psicoanalisi di Bonaventura esce nel 1938, nello stesso anno in cui vengono introdotte le leggi razziali e il fascismo si allinea pienamente alla politica di sterminio programmata da Hitler. Per contrasto, la citazione di pagina 204, come una voce nella folla, richiama le origini della vita nella nascita e l'acqua come simbolo generativo. L'epoca distruttiva e psicotica di quegli anni nel nostro paese verrà spazzata via da un mare rigenerante, la resistenza e la vittoria delle potenze democratiche.

 

Tuttavia Enzo Joseph Bonaventura muore in Israele in un agguato arabo nell'aprile del 1948, poco tempo prima del riconoscimento dello Stato di Israele e nella “disattenzione” delle forze del protettorato Britannico. Enzo Bonaventure è stato emarginato dall'università italiana, prima e dopo il fascismo, l'accademia italiana lo ha sempre tenuto ai margini, senza promuoverlo, Meghnagi lo racconta e io lo ribadisco, perché l'accademia non è affatto cambiata e, anche su ciò, si tratta di inseguire una giustizia che non arriva mai.

 

Il volume di Bonaventura è un vero e proprio compendio di psicoanalisi, tratta delle sue origini dal fenomeno isterico, propone una definizione e una descrizione ricca e articolata del fenomeno dell'inconscio, elegantemente scritto e pronunciato come “incosciente”, e contiene due capitoli chiave dell'essenza del discorso psicoanalitico: la rimozione e il sogno. Al pari dell'Interpretazione della schizofrenia, di Silvano Arieti, recentemente riedito, il testo di Enzo Bonaventura è un classico tra i contributi che gli ebrei italiani hanno dato allo studio della psicoterapia e della psicoanalisi. La giustizia, a furia di inseguirla, la si ottiene; anche ripubblicando questo volume altamente scientifico e altamente divulgativo insieme.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Tzedeq, Tzedeq, Tirdof, giustizia, giustizia inseguirai
Viewing all 327 articles
Browse latest View live