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La materia immaginata: terra

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“In principio è la rêverie”, scrive Gaston Bachelard (1884-1962) ne L’aria e i sogni (1943). Se volessimo tradurre il termine francese, dove si conserva il richiamo al sogno (rêve), potremmo ricorrere a “fantasticheria sognante”, l’abbandonarsi del nostro animo alle seduzioni dalle immagini. L’ammissione di Bachelard è l’esito di un percorso filosofico che dall’iniziale rifiuto dell’universo dell’immaginario sfocia nel riconoscimento della rêverie come dimensione originaria dell’essere dell’uomo al mondo. Da storico delle scienze ed epistemologo, Bachelard aveva condannato nell’immaginazione la facoltà che mantiene l’uomo immerso nella natura, legato alle pulsioni dell’inconscio in cui si manifesta il caos emozionale. Le immagini e le metafore a cui fa costante ricorso la pre-scienza rappresentano nella psiche tendenze istintive che sorgono dall’interiorità corporea.

 

Sono dunque espressioni delle forze biologiche; il ricercatore che si affida ai dati immediati dei sensi proietta sulle cose germi onirici, le incrosta con le passioni che agitano il suo animo. L’immaginazione semina nuclei d’inconscio nella percezione degli oggetti; procede per analogia, accosta per somiglianza due dati, ne razionalizza uno con l’immagine di un altro (ad esempio, l’immagine della polvere nel costituirsi dell’atomismo), ma scambia la metafora per una corrispondenza oggettiva. Ecco perché tutte le immagini sono ingannevoli; costituiscono “ostacoli epistemologici” che vanno eliminati nel progredire delle scienze, col ricorso a quella che la Formazione dello spirito scientifico (1938) definisce una “psicoanalisi della conoscenza oggettiva”, una sorta di crociata iconoclasta per sgombrare dalla razionalità le immagini seduttive che vi si sono insinuate.

 

Esemplare in tal senso è il caso dell’alchimia. Nella pre-chimica che sopravvive fino al Settecento, le operazioni sulla materia, mosse dal fine ultimo di trasformare metalli vili in oro, sono simboli del processo d’iniziazione spirituale, in cui la materia è chiamata a purificarsi insieme all’anima stessa del ricercatore. Nei vaghi concetti del sogno alchemico, ogni fenomeno viene tradotto in termini viventi, la biologia del corpo diventa referente per spiegare la realtà fisica dell’inerte. “La parola vita è una parola magica”, scrive Bachelard: è una parola valorizzata, non descrive né spiega, enuncia e formula valori e credenze. Le reazioni fra le sostanze chimiche sono interpretate nella forma di relazioni sessuali, nei termini delle “affinità elettive” che Goethe ricorderà nel suo romanzo; il ricercatore è un voyeur che vuole “svelare” la natura intima dei corpi, vuole “penetrare” quanto si nasconde nel profondo, vuole accoppiare il principio maschile e quello femminile. In un universo governato da processi organici – digestione e nutrizione, concepimento e generazione –, le pietre preziose attendono nelle viscere della Terra di compiere le loro metamorfosi. 

 

Se nella Formazione dello spirito scientifico la ragione presume di ricondurre alla propria luce l’oscurità dell’immaginazione, in quello stesso anno 1938, Bachelard dà alle stampe la Psicanalisi del fuoco. È il testo con cui l’immaginazione inizia la conquista di una dimensione autonoma, diviene una contro-luce, opposta ma complementare rispetto alla ragione. L’uomo completo abita il giorno e la notte, vive la realtà della scienza ed anche l’irrealtà del sogno – o meglio, si tratta in entrambi i casi di surrealtà, cioè di costruzioni del soggetto. Non possiamo limitarci a pensare il mondo, abbiamo anche bisogno di sognarlo e cantarlo; e nei suoi ultimi libri, Bachelard ritiene che la coscienza umana acceda ad un cosmo puro e felice nella rêverie più che nei concetti. Pur rimanendo un pensatore della separazione fra le due culture – la scienza è anti-immaginazione e la rêverie resta estranea ad ogni dimensione concettuale –, Bachelard finirà per riconoscere che l’adesione poetica al mondo precede la conoscenza ragionale degli oggetti. “Il mondo è bello prima di essere vero”, è sognato prima ancora di essere percepito: all’inizio la rêverie, cioè la meraviglia, quella che anche lo scienziato contemporaneo, chiuso il laboratorio del lavoro diurno, prova contemplando il vagare delle nubi o, tornato a casa, il guizzare della fiamma nel camino, materie che diventano supporto dei suoi sogni.

 

 

Ed il primo oggetto della coscienza che immagina è appunto la materia perché è in essa che prendono corpo le tonalità affettive. La materia non è solo lo stimolo per immaginare, in essa il soggetto s’identifica, con essa si compenetra; le forme, anche quando si mostrano nella loro bellezza, non suscitano risonanza (retentissement) nell’animo perché non consentono all’immaginazione di scendere nel profondo, la tengono ferma al gioco delle superfici. L’indagine di Bachelard si rivolge così all’immaginazione materiale: alla psicoanalisi del fuoco, seguiranno i libri dedicati all’acqua, all’aria e alla terra, i quattro elementi della tradizione presocratica, le radici (rizomata) da cui, secondo Empedocle di Agrigento (V secolo a.C.), derivano per combinazione tutti gli enti naturali. Nella dottrina presocratica, gli elementi permangono identici a se stessi ma, aggregandosi fra loro secondo proporzioni diverse, producono la pressoché infinita varietà degli enti naturali. Nel ciclo cosmico che periodicamente si rinnova, al dominio della forza dell’Amicizia, che porta le cose a raccogliersi nell’unità dello Sfero, succede il periodo in cui predomina la Contesa e tutto si disgrega. Su queste basi è stato interpretato il mondo fisico fino all’avvento della scienza moderna; i quattro elementi, ripresi dalla cosmologia di Aristotele e fatti propri dal pensiero cristiano, unendosi alla dottrina delle quattro qualità – secco, umido, freddo, caldo –, formeranno la base di riferimento per la comprensione di tutti i fenomeni naturali, fino all’avvento nel Settecento della chimica e alla formulazione, nel 1869, della Tavola periodica degli elementi con cui lo scienziato russo Mendeleev classifica le sostanze in base al loro peso atomico progressivo.

 

Ma l’immaginazione continua a fantasticare su quanto la scienza moderna ha abbandonato: i suoi temi – lezione che Bachelard riprende da Jung – restano invariati nei secoli perché attengono al fondo della natura umana, come suggerisce anche lo studio antropologico degli invarianti mitico-religiosi. A differenza delle idee scientifiche che rettificano gli errori del proprio passato, le immagini restano vive e vivificate di continuo nelle opere dei poeti, nelle pagine degli scrittori, sulle tele dei pittori come nelle forme degli scultori. 

Fra i quattro elementi, la terra è stata riconosciuta per prima come una realtà non semplice e unitaria; molteplici sono gli aspetti in cui si presenta, sabbia dispersa e fango umido, pietra e metallo, molteplici le forme in cui si racchiude, caverne, grotte, montagne. Nella voce “Terra” dell’Encyclopédie, d’Holbach comincia a distinguere la pluralità delle terre a seconda di come reagiscono all’azione del fuoco (si vitrificano, s’infiammano o entrano in fusione), ma l’elemento terra conserva un carattere precipuo, quello di essere base dei corpi solidi e loro principio di coerenza. Non solo i metalli, ma anche animali e vegetali contengono parti terrose, ed infatti è un residuo terroso, la cenere, quel che rimane quando vengono sottoposti al fuoco. Anche una goccia d’acqua evaporata lascia un residuo solido, argomenta d’Holbach, e l’aria è piena di polvere, come sapevano gli atomisti antichi alle prese con l’agitarsi browniano di particelle in un raggio solare. E dunque la terra è base anche degli altri elementi, di essa meno pesanti: sua qualità essenziale è la solidità, la consistenza, dei quattro elementi rappresenta la stabilità, la resistenza. 

 

Qui Bachelard si trova nel suo elemento, e lo conferma il fatto che ad esso dedica due libri, La terre et les Rêveries de la volonté nel 1947 e La Terre et lesRêveries du repos l’anno successivo. I due libri corrispondono ai momenti polari con cui la psiche reagisce alle sollecitazioni della materia, l’estroversione e l’introversione: da un lato, l’immaginazione attiva che ci invita ad agire sulla materia, soprattutto per intervento delle mani nel lavoro, dall’altro, l’immaginazione intimista, che valorizza la dimensione accogliente, il desiderio di rifugio. Due poli che corrispondono al dualismo del lavoro e del riposo, del giorno e della notte, della volontà di potenza e del bisogno di protezione, dell’ostilità e dell’intimità materna. Quando la natura appare aggressiva nei nostri confronti, la nostra immaginazione attivista tende a replicare aggredendo a sua volta le cose. La volontà si definisce proprio come un volere attaccare che sorge dal timore di essere attaccati: rêveries della volontà sono appunto le visioni energiche in cui ci si immagina alle prese con la materia, allo scopo di brutalizzarla o di modellarla. Così, scrive Bachelard, “la terra, a differenza degli altri tre elementi, ha come primo carattere una resistenza”, che si manifesta sia nella materia dura che nella “ipocrita ostilità” della materia molle. L’immaginazione della resistenza della materia, che coordina le nostre azioni sulle cose, si rivela in particolare nel lavoro; proprio perché il mondo ci resiste, possiamo divenire coscienti della nostra potenza dinamica, uscire dall’inerzia del vivere e diventare degli esseri risvegliati, ricchi di energia.

 

È un tema su cui Bachelard torna a riflettere nel suo testo di filosofia della chimica, Il materialismo razionale (1953): la prima istanza che il chimico rintraccia nella materia è la resistenza, nozione estranea alla contemplazione filosofica, al predominio dell’istanza visiva del pensiero. Nel lavoro, del fabbro come del minatore, si esperisce la materia come campo di ostacoli: all’ostilità della materia l’uomo che lavora apprende a rispondere con la propria coscienza ostinata. Si tratta di una lezione che il chimico più noto della nostra letteratura ben conosce; nel Sistema periodico (1975), Primo Levi, neolaureato assunto clandestinamente (in quanto ebreo) nel 1941 in una miniera di amianto sopra Lanzo, racconta di come avesse il compito di estrarre Nichel da materiale di scarto. Per le difficoltà disperanti dell’impresa, “nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea”; a differenza degli alberi della valle, in cui scorre la vita, che si modificano al mutare delle stagioni, la pietra, spenta, priva di energia, appare “pura passività ostile”, una fortezza massiccia da assediare, da “smantellare bastione dopo bastione”, secondo la metaforica tradizionale della conoscenza come caccia. La lotta che nel corso del lavoro si intraprende contro l’ostilità e la durezza della materia, da cui sorge la soddisfazione del mettersi alla prova, superando gli ostacoli, è allora per Levi l’espressione eminente del mestiere di vivere: anch’esso implica una lotta contro l’ostinata resistenza del mondo, una lotta in cui si diventa fabbri anche di se stessi. 

 

Il lavoro sulla materia è un potente catalizzatore d’immaginazione. Il diretto contatto della mano “dà vita alle qualità dormienti nelle cose”; così, la materia immaginata non è mai inerte, è sempre animata, dotata di vita. La volontà dell’uomo non accetta di sottomettersi all’essere delle cose, ha bisogno di illudersi di essere onnipotente; nel lavoro, l’uomo si pone al centro dell’universo, prova le soddisfazioni di un demiurgo che crea gli enti sotto le sue mani: “Il demiurgo del vulcanismo e il demiurgo del nettunismo – la terra fiammeggiante o la terra inzuppata – offrono i loro eccessi contrari all’immaginazione che lavora il duro e a quella che lavora il molle. Il fabbro e il ceramista comandano due mondi differenti. Grazie alla materia stessa del loro lavoro, nell’impresa delle loro forze, essi hanno delle visioni d’universo, le visioni contemporanee di una Creazione. Il lavoro è – al fondo stesso delle sostanze – una Genesi.

 

Esso ricrea immaginativamente, in virtù delle immagini che lo animano, la materia stessa che si oppone ai suoi sforzi” (Bachelard). Ma poiché la mano che affronta nuda la pietra si scontra con una resistenza intollerabile, la volontà incisiva di penetrazione nella materia cerca conforto nella mediazione degli strumenti: basta mettere uno strumento in mano ad un bambino per rendersi conto di come un oggetto duro sia l’occasione di una rivalità, di una lotta con le cose. Lo strumento risveglia il bisogno di agire contro, è “un complemento di distruzione, un coefficiente di aggressione contro la materia”; solo dopo interviene il momento piacevole, quando la materia è ormai domata e dominata. 

 

Quanto più la materia è solida tanto più si richiede una percussione che unisca la forza all’abilità ed in cui il lavoro delle due mani svolga funzioni diverse: è allora che la materia diventa educatrice della volontà umana, secondo una maturità psicologica proporzionale alla scala crescente di durezza delle materie lavorate. Il bambino comincia facendo dei buchi con le dita nella sabbia, poi si educa lavorando il legno ed infine giunge alla virilità reagendo alla provocazione della materia, alla testardaggine della pietra o alla fierezza del marmo. La durezza delle cose dice già la loro ostilità; ma, oltre alla mano che, incontrando un ostacolo solido, reagisce alla minaccia contrattaccando, è anche l’occhio a percepire una minaccia a distanza quando osserva una roccia. Ritroviamo qui l’ambivalenza di amore e odio tipica delle immagini primitive: nella sua stessa immobilità, la pietra dà un’impressione attiva di resistenza, il mistero stesso della potenza della terra che mostra la sua forza e ci sfida a sentirci più forti, a superare la nostra debolezza. La pietra fa pesare sulle nostre spalle la minaccia dello schiacciamento; ma lo slancio verticale delle montagne fornisce già una determinazione a farsi portatori di pesi, come Atlante immaginiamo di sostenere il mondo. 

 

La roccia lancia una sfida al coraggio umano, nella sua contemplazione leggiamo un destino di annientamento, la pesantezza della roccia ne fa la pietra tombale naturale; alla sfida è quindi associata la paura perché l’impassibilità della roccia è già di per sé una minaccia. La vera materia della Sfinge non può essere che la roccia, ed è per questo che ci inquieta; un paesaggio custodito da mostri di pietra produce desolazione ed induce un’enigmatica tristezza. È l’ostilità che si esprime nelle rocce dantesche o in tante leggende, ma la roccia è anche una scuola di moralità. Primo Levi confessa che senza la preparazione data dalle arrampicate in montagna, dalla condivisione che si crea nella cordata, avrebbe vissuto la guerra partigiana e la deportazione meno bene: “Abbiamo proprio imparato là, credo, alcune delle virtù fondamentali che sono quelle del sopportare, del resistere, del non perdere la fiducia, del prepararsi al pericolo e all’imprevisto”. È il tema al centro di un racconto del 1961, La carne dell’orso (che, con ampie modifiche, diverrà poi il capitolo “Ferro” de Il sistema periodico), dove Levi traspone la scuola di vita dal mare alla montagna, riprendendo il passo di Giovinezza in cui Joseph Conrad ricorda che “il mare non fa mai doni, se non duri colpi e, qualche volta, un’occasione di sentirsi forti”.

 

L’importante nella vita è “non già di essere forti, ma di sentirsi forti, di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa …”. La capacità d’insegnamento morale della roccia, la sua scuola del coraggio, Bachelard la scorge in particolare nell’immagine della lotta tra il mare e lo scoglio. Nel Valéry del Cimitero marinoè l’onda che si frange sugli scogli ad invitare l’uomo all’azione, anche se effimera; in Bachelard invece, il rêveur si identifica con la roccia invincibile: dinnanzi al mare immenso, la roccia è l’essere virile che insegna la fermezza e la perseveranza.   

Se possiamo immaginare Sisifo felice, come chiedeva Albert Camus, è perché ha appreso che la dignità dell’uomo è nella tenacia della rivolta contro la condizione assurda dell’esistenza, nella perseveranza di uno sforzo ritenuto sterile. Nell’anno in cui Camus componeva Il mito di Sisifo, sull’altra sponda dell’Atlantico, Roger Caillois dedicava alla figura del mito La roccia di Sisifo: nell’epigrafe ricordava che “non esistono lavori inutili. Sisifo si faceva i muscoli”. Sisifo è cosciente del proprio tragico destino, sa che la pietra trasportata sulla cima del monte tornerà a ricadere a valle; è questo a renderlo superiore alla sorte che lo condanna, a renderlo più forte del suo macigno. È perché trasporta una roccia che Sisifo apprende l’ostinazione; non si abbandona alla tristezza, che sarebbe la vittoria della pietra, anzi la pietra stessa, rileva Camus. Vive con gioia la sorte che gli è destinata, quella di sollevare i macigni: “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”.

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Storia della mia depressione

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Dopo molti giorni in cui mi svegliavo di cattivo umore, con un peso nel petto, difficoltà a deglutire, senso di oppressione, una mattina mi sono svegliato chiedendomi: perché mi sveglio sempre di cattivo umore? E ancora: perché dovrei invece svegliarmi di buon umore? Ma soprattutto: cos’è il buono e il cattivo umore? Dove sta la verità dell’umore? Fingo di più quando sto di buono o di cattivo umore? E fingo rispetto a cosa? Rispetto alla realtà del mio umore, o rispetto alla fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda? E quindi come dovrei essere, una volta accertata la fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda, di buono o di cattivo umore? E se riesco con ragionevole obiettività ad accertare la fisionomia della realtà che mi circonda, ossia se mi riscopro dotato della qualità psicologica necessaria a giudicare con ragionevole obiettività la fisionomia della realtà che mi circonda, perché allora il mio umore sembra insensibile a questa realtà, perché il mio umore reagisce come se questa realtà non esistesse, ma anzi come se la realtà di riferimento fosse un’altra, come se quest’altra realtà fosse, diciamo, tendenzialmente più brutta della realtà oggettiva? 

 

Di norma nella genesi del nostro umore sono coinvolte diverse componenti che si combinano tra loro in modo imperscrutabile. Per esempio se me ne sto seduto in giardino considero questo: la brezza tiepida che mitiga l’afa d’agosto; quattordici piante vive, una morta, due in via di avvizzimento; la signora del palazzo di fronte che sbraita all’indirizzo di un cane che abbaia ininterrottamente da due mesi; le punture di zanzara che fioriscono sulle mie gambe e sulle mie braccia; il cielo limpido; l’erba infestante che cresce in mezzo al ghiaino; il canto delle cicale. Elementi questi che nella composizione del mio stato d’animo possono avere segno + o segno – e che sommati o sottratti stabiliscono il tono del mio umore. 

Tuttavia un computo del genere vale per gli animali, ma non per gli uomini. Soprattutto non per me. Il meccanismo che contribuisce a costruire il mio cattivo umore è il seguente. La brezza tiepida che mitiga l’afa d’agosto mi ricorda le agghiaccianti, infinite estati solitarie di quando ero bambino e la testa mi tuonava in un vuoto ancestrale.

 

Le quattordici piante vive, quella morta, e le due in via di avvizzimento sono il segno che nell’arte del giardinaggio, come in tutte le forme d’arte in cui mi sono cimentato, sono destinato al fallimento (tempo due settimane e il numero delle piante morte supererà quello delle piante vive). La signora esasperata dall’abbaiare del cane è la materializzazione di ciò che accade di norma nella mia testa (c’è un cane che abbaia ossessivamente, nella mia testa). Le punture di zanzara, il cielo limpido, l’erba infestante, il canto delle cicale mi riportano col ricordo alla parte disabitata e selvaggia di un’isola greca che visitai all’età di diciotto anni, a una madonnina sul bordo della strada che digradava verso il mare, agli occhi della madonnina fatti con due pietruzze bianche, i quali, nel biancore della luce mediterranea e nell’ampio silenzio soffice di quel vuoto terracqueo mi restituì l’impressione della più vasta, totale, assoluta solitudine concepibile in natura, all’atto di vandalismo che compì uno dei ragazzi che erano con me il quale scagliò una pietra contro la madonnina spaccando il vetro che proteggeva quegli occhi gelidi. Tutto questo accade mentre me ne sto seduto in giardino convinto di non essere immerso in una fase particolarmente riflessiva né drammatica né emozionante, ma in uno stato che giudicherei neutro. 

Eppure, ecco, è così che prospera il mio cattivo umore. Non è quasi mai in connessione con la realtà che mi circonda, e se lo è, lo è solo perché quella realtà è il treno sul quale salgo per arrivare a più remote destinazioni. Tutto questo, mi è stato spiegato di recente, avviene per delle infinitesimali produzioni di sostanze chimiche, per questioni “organiche”, “cromosomiche”, “genetiche”. Quindi il cane, le estati di quando ero ragazzino, la madonnina con gli occhi di pietra, non sono altro che delle entità molecolari, ioni, miscele. Niente è vero, nessuna realtà. Solo il mio cattivo umore è vero.

 

Quello che chiamo cattivo umoreè in realtà una vera e propria malattia. Tuttavia non ha la forma di una vera e propria malattia, e dunque per secoli è stata relegata al rango di non-malattia. Una non-malattia il cui effetto era, per Teresa d’Ávila, “di oscurare e disturbare la ragione, cui non riesce a far arrivare le nostre passioni”. Più una bizzarria della mente quindi, un capriccio, se non addirittura uno strumento nelle mani del demonio. Ma anche una devianza congenita, di quelle forme di devianza che, nelle loro manifestazioni più gravi ed evidenti, meritavano di essere trattate in manicomio. La mia malattia non ha una fisionomia precisa. Due malati della mia stessa malattia possono mostrare sintomi totalmente differenti l’uno dall’altro, provare dei propri sentimenti, esacerbazioni, sempre nuove corruzioni del sistema nervoso. 

Soffro di questa malattia che la comunità scientifica definisce sommariamente depressione maggiore da quando ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per decifrare la realtà che mi circonda, perciò direi dalla più tenera età. Il mio problema è sempre stato quello di non attribuire dignità di malattia al modo in cui, appunto, decifro la realtà. Nella mia famiglia questa percezione è sempre stata bollata in quattro parole: “Hai un carattere difficile”. Qualcosa che, di volta in volta, aveva a che fare con la suscettibilità, con la timidezza, con l’ombrosità, con l’asocialità, con il peso di un’infanzia travagliata, con una generale intrattabilità, nei momenti peggiori con un’inguaribile indolenza. Ma non era niente di tutto questo, o forse era la somma di tutto questo, il complesso dei sintomi caratteristici della mia malattia, la malattia che la mia famiglia non riconosceva come tale. La mia ostilità, il cattivo umore, sono stati i cupi compagni di viaggio con cui ho condiviso tutti i miei giorni. La presa d’atto di cosa si nascondesse in realtà dietro tutto questo è avvenuta molto presto. Sapevo che c’era qualcosa in me che non poteva essermi attribuito come una colpa, ma non trovavo le parole per spiegarlo. E quindi per decenni mi sono preso la colpa, la colpa di avere un carattere difficile.

 

Nell’epistolario di Freud si legge: “Nel momento in cui un individuo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che oggettivamente non esiste nessuna delle due cose”. Questa, che è la tipica frase di un depresso, è un’istantanea realistica e feroce della depressione, poiché contiene in sé il gioco assurdo, il paradosso impazzito in cui si dibatte il depresso. Sono malato nell’istante in cui dico a me stesso che la vita non ha significato. Ma se è – oggettivamente – così, ossia se la vita è realisticamente priva di significato, allora gli altri, coloro che invece intravedono nella vita un significato, sono colpevoli di rimozione. Dunque si può dire che la malattia è insita negli esseri umani, ma solo coloro che riconoscono di essere malati vengono considerati tali, tutti gli altri si ritengono integri, e quindi l’integrità è la loro malattia. Il depresso si dibatte tutta la vita in questo cortocircuito alimentato dal proprio realismo e dalla propria lucidità.

 

Nell’ultimo anno la gravità della mia malattia si è estesa, ha subìto, per così dire, un’accelerazione significativa; nell’ultimo anno la mia malattia ha fatto un salto di qualità. Con l’arrivo della primavera i sintomi sono emersi a un grado mai sperimentato prima. Il male che si era radicato in me silente per quarant’anni mi ha tutt’a un tratto mostrato i segni di una sconvolgente fioritura. Apatia, nausea, panico, dolorosa percezione di insignificanza, sono esperienze che ho provato più e più volte nel corso della mia vita, ma sempre accompagnate da una traccia più o meno evidente di malinconia – chiamiamola – sentimentale, il segno che qualcosa dentro di me fosse inequivocabilmente, perfino eccezionalmente, vivo. Ma con l’arrivo della primavera il dolore ha perso questa coloritura, è diventato esso stesso insignificante. Se prima la percezione che la vita è realisticamente priva di significato era accompagnata da tormento, amarezza e inquietudine, ora l’insignificanza non mi suscitava più nulla, era diventata a sua volta insignificante. La presa d’atto dell’irrilevanza della realtà non mi toccava più i gangli vitali, e perciò io non potevo più ritenermi, a rigor di logica, un essere vitale. 

 


Dopo settimane di crisi nervose, di vuoti mentali, di spossatezza, di avvisaglie, tutto ciò ha avuto il suo apice alla fine del mese di giugno. Una mattina mi sono ritrovato a vagare nel parcheggio deserto della scuola in cui lavoro, e tutt’a un tratto ho provato il dolore più acuto e al contempo irrazionale, il dolore che deriva dal non essere più qua, su questa terra, in questo luogo fisico, ma fuori dal mondo, in una landa abbagliante di sole, privo di pelle, esposto a feroci scottature, con la sensazione di percepire una specie di colata di metallo gelido che scende nell’esofago. In quel momento la vita, il mio essere al mondo, la somma delle attività umane, il dispositivo stesso di natura che alimenta le creature viventi dell’universo, in una parola sola, tutto– un “tutto” che il lettore, per comprendere fino in fondo ciò che voglio dire, dovrà estendere al punto da contenere grandezze inconcepibili per la mente dell’uomo – era privo di valore. E questa grandiosa presa di coscienza, a sua volta, al di là del dolore fisico, non era accompagnata in me da alcun senso di avvilimento o di inquietudine. Era piuttosto una realtà chiara e pacifica, indiscutibile, una realtà che semplicemente non prevedeva che io fossi ciò che sono, vale a dire un essere senziente capace di provare gioia e paura e tristezza e tutte le infinite voci presenti nel catalogo delle passioni. Insomma, nell’immensa, assurda architettura della realtà, che io fossi o non fossi non aveva alcuna importanza.

 

Allora ho chiamato A., mia moglie. Le ho detto che quella mattina, in quel parcheggio, vedevo qualcosa che non avevo mai visto prima. O meglio, quella cosa l’avevo vista centinaia di volte, ma mai con una tale precisione, in una prospettiva così netta, soffusa di una luce così estesa. Che cosa vedevo? Vedevo una completa, farsesca mancanza di senso. Nella mia testa non c’era più niente, e intorno un’afa repellente, trentasei gradi all’ombra, una luce bianca che confondeva tutto, la mente e lo stomaco, un silenzio da disastro nucleare, una riga orizzontale, tremula, che mi attraversava i pensieri come un filo di metallo arrugginito, una morte bianca, i vecchi che uscivano dal vicino centro anziani arrancando con le camicie sbottonate fino all’ombelico e le ginocchia slavate, gli occhi arrossati, le bocche asciutte e nere, le strade del quartiere che puzzavano di cadavere, i fiumi secchi, le lamiere delle macchine incandescenti, i cumuli di aghi di pino ammassati ai bordi dei marciapiedi, gli insetti succhiasangue. Intorno a me c’era questo, e dentro di me, dentro, niente

 

Allora A., che pure è a conoscenza della mia malattia, che ne ha per così dire dimestichezza, stavolta si è intimorita. Mi ha imposto di non muovermi di là, di non fare niente, di restare assolutamente immobile finché non mi avesse richiamato, cosa che sarebbe successa non più tardi di un quarto d’ora. Nel frattempo ha fatto delle telefonate e ha preso appuntamento per la sera stessa con questo medico psichiatra – consigliatissimo, dice – mi ha imposto di andare la sera stessa, senza concedermi il diritto di replica, perché ne ha abbastanza di questo mio cattivo umore, e forse stavolta davvero temeva che potessi fare qualche follia. 

E così, la sola idea di avere un appuntamento con un medico psichiatra, un appuntamento per la sera stessa, questo un poco mi ha calmato l’animo, e mentre continuavo a vagare senza meta nel parcheggio deserto della scuola in cui lavoro ho provato a rimettere ordine nella mia testa squassata dagli assalti, e lentamente, con pazienza e disciplina, sono ritornato tiepido, imperturbabile. 

 

Il mio medico psichiatra riceve i pazienti in uno studio al secondo piano di un bel palazzo umbertino nel quartiere Prati. È un appartamento vecchio stile, di quelli che piacciono a me, soffitti alti con modanature, pavimenti in graniglia, infissi di legno bianco. La porta era aperta e dentro non c’era nessuno. Mi sono infilato nel primo stanzino sulla destra, c’erano delle sedie di plastica nere, un separé a vetro con una piccola scrivania, telefono, computer e tutto. Sul soffitto roteavano lente le pale di un ventilatore. Faceva molto caldo e sudavo, mi sono asciugato la fronte con un fazzoletto di carta e ho sbirciato sulla bacheca in cui erano esposti vecchi programmi di convegni di psichiatria. Ho aspettato così per venti minuti, finché dal corridoio non ha fatto capolino il medico psichiatra col quale avevo l’appuntamento. È un uomo alto e magro, capelli bianchi e fisico da maratoneta, mi ha teso la mano e si è presentato, poi mi ha fatto strada verso lo studio, una stanza grande, con una scrivania in un angolo fra due finestre, librerie alle pareti, una bella luce vespertina che faceva tremolare l’aria. Lui si è seduto e io ho fatto altrettanto. 

 

“Ho sentito sua moglie stamattina”, ha esordito. “Mi ha accennato qualcosa, ma vorrei che me ne parlasse lei più diffusamente”. 

Allora ho iniziato a parlare e gli ho raccontato dell’episodio del mattino, ma non trovavo le parole giuste, e soprattutto badavo al suono della mia voce, ovverosia ascoltavo la mia voce come se fosse la prima volta, la rilevavo, aveva un tono lento e basso, ogni parola si concludeva con una scia roca, la mia voce era quasi salmodiante, la tipica voce di un malato di depressione, uno che però si sforza di avere ancora il controllo, un malato calmo, che sa di essere giunto nel porto e che per oggi non dovrà attraversare altre burrasche. Il medico psichiatra mi ha chiesto soprattutto una cosa, mi ha chiesto di raccontargli la storia della mia depressione. E così mi sono imbarcato in questo racconto, parlando della mia malattia come se fosse un personaggio di una storia più grande, un personaggio tra i più importanti, come se illuminassi questo personaggio con una luce talmente potente da isolarlo da tutto il resto, rendendolo l’unica cosa veramente interessante di tutta la mia vita, e soprattutto come se i fatti accaduti nella mia vita fossero totalmente irrilevanti nella costruzione della mia malattia, come se la mia malattia insomma fosse la gramigna, spuntata e proliferata largamente e in fretta e in modo del tutto scollegato dalla mia volontà. Ho parlato della storia della mia malattia come se la malattia non fosse un aspetto di me, ma un altro me fuoriuscito per gemmazione, un altro me parassita che ha occupato il tempo della mia vita succhiandomi la linfa vitale destinata alle cose migliori.

 

Ho parlato della mia malattia attribuendole un volto, un carattere, addirittura una certa fama, il nemico sfidato a un interminabile duello, noi due da sempre spalle contro spalle, e, al segnale, caricare, sparare. Sparare in eterno, in eterno voltarsi l’uno verso l’altro, me stesso verso il mio nemico, la mia malattia, e ogni volta, all’arrivo del segnale, nell’atto di voltarsi, non trovare nulla, nessun nemico, solo un campo desolato, un refolo di vento, la pistola scarica che fa un roboante, gelido clic, e perciò chiedersi se il nemico non sia stato più veloce, non abbia sparato per primo, e quel non trovare nulla non sia in realtà nient’altro che la faccia spoglia della morte. 

Ho parlato di questo, e il medico psichiatra mi ha ascoltato, mostrando perfino un certo interesse, ma credo che fosse un aspetto del tutto professionale, una qualità sviluppata in anni di servizio. Mi ha fatto domande del tutto prevedibili, niente che potesse sorprendermi o interessarmi più a fondo alla scienza della psichiatria. Una su tutte mi è sembrata la più scontata, mi ha chiesto: “C’è stato un momento della sua vita in cui può dire di essere stato BENE?”. Lo ha detto calcando con la voce sull’ultima parola, gonfiandola di senso. Ci ho pensato un po’, ma era del tutto evidente che stessi concedendo qualcosa che altrimenti non avrei concesso. Vale a dire una riflessione.

 

Come quando cerchiamo qualcosa che sappiamo di avere perduto ma facciamo comunque un tentativo, nella speranza di esserci sbagliati, o nella speranza che, per un misterioso e incomprensibile caso, la cosa che stiamo cercando e che ormai davamo per perduta si trovi in realtà in un posto al quale non avevamo mai pensato. Tuttavia il massimo che sono riuscito a dire è stato: “Sono stato bene ogni volta che sono uscito per andare a correre”. E lui è sembrato perfino soddisfatto della mia risposta, come se la mia risposta gli avesse fornito la conferma a qualche sua teoria, o a qualche idea indiscutibile appresa sui libri negli anni di studio. Dev’essere anche lui un patito della corsa, ho pensato. In effetti erano passati molti mesi dall’ultima volta che ero andato a correre, “L’ultima volta è stato prima del trasloco”, ho sospirato. Al che mi ha chiesto del trasloco, e io ho fatto come se mi fossi appena risvegliato da un coma profondo. Ad aprile ho cambiato casa. È stata un’impresa superiore alle mie forze, e credo che la cosa non sia estranea a questa violenta ricaduta nel male di cui soffro.

 

Il medico psichiatra mi ha osservato con attenzione, respirando con assoluta calma. Era del tutto a suo agio nella posa sghemba, rilassata, nel modo in cui riempiva la poltrona girevole in vacchetta nera, il viso cauto e disteso, il brillio appena mosso negli occhi attraverso il quale lasciava intendere di aver già compreso tutto, di avere una diagnosi bella e pronta, e tutto il tempo delle chiacchiere che mi stava concedendo sembrava non avesse altro scopo che dare un senso ai cento euro che avrebbe preteso al termine della visita specialistica. Ha annuito a ogni frase che pronunciavo, convalidando ogni mia teoria. Il vero medico psichiatra qua sono io, ho pensato. Ho una capacità di autoanalisi formidabile, non sono ancora del tutto fottuto. Forse in definitiva non mi occorreva neppure recarmi da un medico psichiatra. Mi occorreva bensì uno specchio, o qualcuno che semplicemente annuisse a ogni mio sproloquio. 

Il punto a cui non potevo tuttavia arrivare è la somministrazione di una terapia farmacologica. Non ne possiedo la scienza. Il medico psichiatra invece sì, la possiede. C’è un gesto elegante, bello, che mi incanta da quando ero ragazzino, è il gesto che fanno i medici quando prendono il blocco di fogli bianchi e iniziano a scrivere la terapia, il modo in cui scrivono su quei fogli bianchi è una delle meraviglie dell’universo, un apice glorioso delle qualità umane, il movimento sciolto del polso, quelle penne che non si inceppano mai, dalle quali scaturisce un inchiostro incantevolmente blu, riempiono il foglio in pochi secondi, poi lo strappano e te lo porgono, ripetendo a voce alta posologie e nomi di farmaci che suonano come personaggi da fantasy medievale.

 

Tutto qui. Alla fine era un caso semplice la mia depressione maggiore, una cosa da perderci pochi minuti, nulla di tanto grave e complesso da non poter essere curato con tre farmaci: un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, un ansiolitico e un ipnotico simil-benzodiazepinico. Gocce e pillole capaci di sfidare l’oscuro abisso turneriano in cui appena poche ore prima avevo gettato l’universo intero con dentro me stesso. Ho provato un senso di profondissima delusione, ma anche di sollievo, come se due dita enormi e leggere sgravassero Atlante pilastro del cielo del peso del mondo che porta sulle spalle, un peso che per il padrone di quelle dita dev’essere del tutto irrilevante. E mi sono sentito un organismo minuto, un granello di sabbia riflesso in una singola goccia chimica. Uscendo dallo studio medico con in pugno la ricetta su cui era trascritta la soluzione al mio male sentivo che le cose d’ora in avanti sarebbero andate meglio.

 

Nelle pagine conclusive di Questo buio feroce, Harold Brodkey ha scritto: “Trovo che il silenzio di Dio sia bellissimo, anche quando il silenzio è diretto a me”. In questo libro Brodkey, condannato dall’aids, narra del suo cammino verso la morte e della sua condizione di malato terminale. La terminalità, ossia la fase irreversibile di una malattia mortale, è una delle esperienze umane più alte e più significative. Il depresso vive la propria condizione come perenne terminalità, ricorre continuamente al pensiero dell’immaterialità del proprio essere e del proprio destino, è ateo nei confronti di Dio e dell’uomo. Un giorno mia madre, dopo aver infine ceduto all’idea che la depressione è una categoria delle malattie umane, mi ha chiesto: “Che senti?”. Non mi ha chiesto Come stai?, ma Che senti?, che a me pare una meravigliosa prova di empatia. In quel momento in me non c’erano parole abbastanza esaurienti per fornire una risposta alla sua domanda. Ma se ci penso adesso, il termine esatto che avrebbe incluso le infinite venature della mia depressione è silenzio, come il silenzio di Dio che Brodkey trovava “bellissimo”.

“Che senti?”.

“Silenzio.”

(Frastornante, immoto silenzio).

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L’analisi sotto sequestro

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Realtà è l'unica parola che senza virgolette non significa niente”.  (Vladimir Nabokov, Intransigenze.)

 

L’episodio al centro di questo libro, avvenuto in una stanza d’analisi di Bruxelles esattamente cinquantanni fa – era il dicembre del 1967 – non smette di interrogarci: “Che cos’è la realtà?” chiede il paziente Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, al suo psicoanalista che lo accusa di essere “pericoloso perché misconosce la realtà”. Abrahams è sicuramente un paziente delirante e dunque, in più punti e in ripetute occasioni, sembra davvero mancare l’appuntamento col principio di realtà, ma il dottor Van Nypelseer, da parte sua, pare aver dimenticato l’insegnamento di Nabokov che ho scelto di porre in epigrafe, appare cioè troppo sicuro di sapere che cosa sia la realtà o, se si preferisce, come stiano le cose. Egli, commenterà Jean-Paul Sartre, “decide da solo, sovranamente, di quel che è il reale”, lo fa dall’alto dell’autorevolezza che gli viene dalla mancata reciprocità della relazione terapeutica, dal fatto di essere un dottore sano e non un paziente malato. Eccoci allora al cuore dell’analisi, quale che sia il suo indirizzo – come le molte differenti voci di questo prezioso libro testimoniano.

 

Essa deve certamente sempre fare i conti col principio di realtà ma deve altrettanto bene sapere di muoversi sul piano delle interpretazioni, delle narrazioni, delle fantasie, delle ricostruzioni e delle rielaborazioni di qualcosa che è sempre sfuggente e che trascende ogni possibilità di essere definitivamente afferrato, com-preso, tradotto nel proprio linguaggio, ossia nella propria visione del mondo. Ogni presunzione di conoscere la verità, non solo sul discorso dell’altro ma persino sul proprio, la allontana dalla sua più profonda peculiarità. Ma procediamo per ordine: tre anni dopo aver unilateralmente interrotto la sua terapia analitica, Abrahams torna dall’analista dal quale, sin dalla prima adolescenza, il padre, non sappiamo per quale motivo, lo aveva obbligato ad andare. Porta con se un magnetofono con il quale intende registrare la seduta nella quale chiede al suo analista di rendere conto di quanto accaduto durante i quindici anni di analisi, svoltisi con due, tre sedute a settimana. Il dottor Van Nypelseer si oppone a questa richiesta e pone un aut aut al paziente: o spegne il magnetofono o la seduta non avrà luogo e dovrà abbandonare la stanza d’analisi.

 


Abrahams si oppone a sua volta e di fatto tiene sotto sequestro l’analista: stacca violentemente il telefono con il quale questi voleva chiamare la sicurezza, gli getta a terra gli occhiali, si pone di fronte all’unica porta che permette di uscire tanto che, verso la fine dell’ora, Van Nypelseer cercherà persino di fuggire dalla finestra. L’uomo col magnetofono gli muove diverse accuse: lo psichiatra non l’ha curato perché l’analisi non è in grado di guarire le persone, come millanterebbe di poter fare; anzi: con il suo modo di procedere l’analisi gli ha fatto disimparare  a guardare le persone, a relazionarsi con loro: “non si può guarire là sopra (dice indicando il divano). È impossibile! E lei stesso, lei non è guarito perché ha passato troppi anni là sopra. Lei non osa guardare la gente in faccia. Poco fa lei ha cominciato a dirmi di guardare in faccia i miei fantasmi. Non avrei mai potuto guardare in faccia nulla. Lei mi ha obbligato a voltarle le spalle e non è così che si guarisce la gente” (riferimento alla posizione che il paziente assume nel lettino rispetto all’analista). Senza entrare nel merito delle questioni sollevate – non lo farà mai – lo psichiatra accusa Abrahams di essere violento proprio perché impone, contro la sua volontà, lo strumento di registrazione. Questi ribatte: “e la tortura morale? Come la mette con la tortura morale”, operata, a suo dire dalla psicoterapia che gli è stata imposta? “La sua è una violenza fisica”, risponde Van Nypelseer, sottointendendo che, come tale, è necessariamente più grave e minacciosa di quella psicologica o morale.

 

Lo psichiatra è comprensibilmente, davvero spaventato; prega sua moglie Lulù di chiamare la polizia che effettivamente arriva e arresta Abrahams, che verrà internato in un ospedale psichiatrico dal quale, però, riuscirà a fuggire. Sbobinerà disciplinatamente l’intera discussione e, un anno dopo, la spedirà alla celebre rivista francese Les Temps Modernes di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Nonostante i pareri negativi dello psicoanalista Pontalis e dello scrittore Pinguad, membri della redazione della rivista, l’articolo verrà pubblicato nel 1969: Sartre pubblicherà sia le ragioni della sua scelta sia quelle contrarie di Pinguad e Pontalis. Da qui nascerà una serie di citazioni e rimandi a questo episodio che passeranno per L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, (1973) L’erba voglio (1977) di Fachinelli, Anversa di Roberto Bolaño (2002) e molto altro ancora. Oggi un libro pubblicato da Ombre Corte con la curatela di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, (Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono) ripropone nella prima sezione, come già aveva fatto Fachinelli nel 1977, l’intero dialogo, le considerazioni di Sartre, Pontalis e Pinguad nella rivista e l’articolo dello stesso Fachinelli ma li arricchisce, nella parte seconda, con contributi che ripercorrono la vita di Abrahams e si interrogano sull’attualità della sua contestazione da punti di vista decisamente originali e differenti ai quali, qui, posso solamente accennare in maniera necessariamente parziale e sintetica.

 

Pietro Barbetta, partendo dall’interpretazione che ne diede Elvio Fachinelli, individua convergenze interessanti tra quello che chiama il Milan Approch, nel quale si fa strada un ripensamento radicale delle dinamiche del setting analitico nella scuola sistemica di Milano; Giacomo Conserva evidenzia la portata filosofica della critica di Abrahams paragonando il suo movimento di smascheramento al mito della caverna di Platone; Antonello Sciacchitano analizza le dinamiche della paranoia post analisi e attacca la pretesa, a suo dire errata, della psicoanalisi di considerarsi terapia medica; Lea  Meandri rievoca il clima culturale in cui sorse e si mosse L’erba voglio– libro, rivista, casa editrice – e ricorda il contributo, anche in rapporto alla psicoanalisi, dato dal movimento femminista di quegli anni anche nella rivista, alla quale partecipò con contributi molto importanti. Alfredo Riponi si dedica invece all’inedito scritto di Abrahams “Phallophonie” nel quale scorge nessi con la letteratura moderna, specie di Beckett e di Guyotat. La parte terza del libro, infatti, si compone di altri articoli di Abrahams e di un contributo di Laura Erber su Sophie Podolsky grazie al quale si dà un’idea dell’ambiente culturale nel quale Abrahams visse.

 

L’assunto di Sartre per il quale “il capovolgimento operato da Abrahams  dimostra chiaramente che la relazione analitica è di per sé stessa violenta, qualunque sia la coppia medico-paziente” viene ripreso e più analiticamente commentato da Fachinelli che vi scorge i segni di “una divaricazione storica dell’analisi” in qualche modo già in atto in Freud: dal un lato la tendenza di certi analisti a ricercare “la parola incontaminata” in direzione di “una semiotica psicoanalitica” che alla ricerca della traducibilità di ciò che parola non è, delinea “la somministrazione del codice della normalità”. Abrahams, da una parte, cerca di inchiodare l’analista a quanto dice, uscendo dal gioco delle interpretazioni, dall’altra  “come del resto altri soggetti “difficili”, “impossibili”, “border line”, psicotici… – propone un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività e che passa attraverso la parola contaminata, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola”. Anche Barbetta parte dallo “svelamento della violenza nascosta sotto il metodo analitico conformista e ortodosso” operata dal magnetofono di Abrahams, e ricorda come dopo questo gesto l’uso del magnetofono – di cui Abrahams voleva servirsi per sovvertire i rapporti di potere all’interno della relazione analitica – entrò nelle pratiche psicoterapeutiche di quattro psicoanalisti fondatori dell’approccio sistemico familiare a Milano: Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, Giuliana Prata e Mara Selvini Palazzoli, aprendo la strada a diversi emuli, anche di altri indirizzi, al punto che, “per la prima volta, forse, in Europa, sono i terapeuti che chiedono alle persone che frequentano la terapia di registrare le sedute.

 

Contro la progressiva trasformazione della psicoanalisi, originariamente liberale, in una Chiesa Romana che scaccia tutti i suoi figli eretici o quanto meno poco ortodossi – da Wilhelm Reich a Lacan – si registrano dunque, nei primi anni ‘70, due fenomeni opposti: uno apertamente anti-psicoanalitico e l’altro (proprio in particolare di Basaglia, Laing, Cooper, Fanon, Guattari – radicalmente riformatore di questa prassi che cercherà di emancipare dalle pratiche discorsive della medicina e dai suoi paradigmi positivisitici. Da quel momento nasceranno “una destra e una sinistra psiconalitica. La Destra continuerà a sostenere (e tutt’ora sostiene) che le parole chiave del metodo psicoanalitico siano “neutralità”, “interpretazione”, “resistenza”, “difesa”. La sinistra riprenderà, grazie anche al Diario clinico di Ferenczi, la questione del corpo, dell’accoglienza, della tenerezza, del transfert e del co-transfert, prendendo sempre posizione per il soggetto che frequenta la terapia.”

 

In questo senso il contributo di Antonello Sciacchitano, s’inserisce senz’altro nella psicoanalisi di sinistra che vuole “portare a termine la trasizione della psicoanalisi dall’ipnosi alla scienza” riconsiderando, come proprio l’esperienza di Abrahams suggerisce, “l’oggetto della scienza”. Per non divenire a nostra volta magnetofoni, occorre “riformulare tutta la teoria psicoanalitica, che non può essere quella eziologica, a suon di pulsioni, di Freud, ma nemmeno quella logocentrica di Lacan, a suon di significanti, o quella mitologica di Jung e di molti altri” in un processo che dall’analisi duale dovrebbe portare “all’analisi dell’analisi”. Un processo che abbia il coraggio di guardare quel moto senza oggetto che è il desiderio infinito, e che si capaciti di come “per poter lavorare concretamente con la gente – ricorda Lea Melandri riprendendo una nota redazionale del primo numero dell’Erba voglio –, bisogna passare attraverso i suoi sogni”. Sogni non solo individuali ma collettivi, capaci di comprendere come “servitù e liberazione, oggi, riguardano tutti o nessuno”. Temi e prospettive di assoluta attualità, come il rifiuto di chiudersi in un’organizzazione, di sottomettersi ad un linguaggio unico e di prendere asilo “nel ghetto della sinistra infelice, (…) gelato nella propria impotenza” che, ricostruendo le vicende di un gruppo di persone che ha saputo incarnarli, lasciano la speranza che sia possibile ripeterne, ripensata, l’esperienza.

Un libro che svela dunque come in gioco nella pratica psicoanalica ci sia sempre, inevitabilmente, molto di più di quanto le sue cosiddette regole procedurali fissino e che mette in guardia dal rischio di accogliere acriticamente il modus operandi del nostro tempo, le sue modalità di pensiero, i suoi giudizi di valore, la sua “realtà”. 

 

G. Conserva, P. Barbetta e E. Valtellina (a cura di ), Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono. Ombre corte, Verona, 2017, pp 151, euro 14.

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Dove vanno i nostri matti?

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Quando, da piccolo, abitavo in campagna, in un piccolo paese della Lomellina dove sono nato, i matti sparivano. Quando qualcuno cominciava a uscire di brutto dalla consueta routine di gesti e di pensieri – e pareva essere entrato in un mondo dove le regole erano capovolte, e le sue parole non corrispondevano più a quelle degli altri, e le sue azioni sembravano mosse dai fili di un burattinaio capriccioso e minaccioso, nascosto e tenebroso – arrivava il momento di portarlo via. 

Dove? A Voghera. 

 

Per indicare dove i nostri matti finivano non era necessario usare termini difficili e che non avevano neanche traduzione nel dialetto.

I nostri, infatti, erano quasi sempre matti di antica e semplice follia: donne cadute in depressione attraversando la menopausa o perché si facevano troppe domande intelligenti sull'inadeguatezza della loro vita; vecchi attesi al varco della demenza senile; lunatici che sin da piccoli si erano isolati dalla comunità e si erano messi a seguire le loro fissazioni come camminando sonnambuli su un filo che vedevano solo loro. E poi c'era qualcuno, da sempre un po' ai bordi del vivere comune, che all'improvviso veniva afferrato da uno scatto di violenza, una ribellione improvvisa, come un tuono di urla e un bagliore di sangue. Quasi sempre era la risposta inaspettata e fulminea a ingiustizie durature subite, a dolori indicibili, a una sorte sventurata covata da troppo tempo in silenzio, in solitudine, perché poi non dovesse esplodere col fragore di un lampo, il luccicare di una lama. 

E quando dico questo so di cosa parlo. Perché, anche se guardati con gli occhi di un bambino, mi vedo ancora davanti i volti, certi loro ultimi gesti, di quelli che, sgranati lungo gli anni della mia infanzia, sparivano dal paese, da un giorno all'altro. Portati via. Finiti a Voghera, appunto.

 

Aula didattica ex scuola infermieri, @Marcella Milani (Urbex).


Non era necessario chiamarlo manicomio, ovvero, dice l'etimologia, "il luogo di ricovero e di cura dei matti". Un termine che entra in uso  verso la metà dell'Ottocento, lasciando dietro di sé altre denominazioni, "asilo per alienati", "ricovero per pazzi", che senza preoccuparsi troppo della gentilezza del linguaggio andavano, con ruvida concretezza, a descrivere in tempi precedenti  la realtà delle cose. Come stavano davvero, senza abbellimenti.

Ma per noi, in paese, manicomio era un termine estraneo e difficile (nessuno sapeva il greco), e la definizione che qualcuno, almeno in città, già cominciava ad utilizzare – clinica psichiatrica, clinica per malattie mentali – ci risultava ancora più evanescente. Per capire dove andavano a finire i nostri matti quando la loro follia diventava conclamata, a volte persino un po' pericolosa (spesso più per loro stessi che per gli altri), bastava una parola sola: Voghera.

A Voghera, ad esempio, era finito Gramion, un contadino taciturno che viveva da solo in una casina abbarbicata alla costa. Coltivava i suoi campi, viveva del suo raccolto, non comprava nulla di nulla nell'unico negozio del paese, inalberando così un'ulteriore orgogliosa pretesa di autosufficienza che risultava stonata persino in quei tempi sparagnini. Soprattutto quel vecchio uomo non voleva parlare. Né intendeva avere a che fare con nessuno. 

 

Me n'ero accorto quando, chierichetto, avevo accompagnato il parroco nella benedizione delle case. Arrivati davanti al sentiero che portava alla abitazione di Gramion, lui, che ci aveva intravisti dalla finestra, era sceso verso di noi, vestito tutto di nero. Quando anni dopo, al cinema, ho visto in azione nei western all'italiana Lee van Cleef, sempre nerovestito, il cappellaccio in testa, e l'aria minacciosa del cattivo, mi sono ricordato del suo scendere verso di noi, a passi lenti, e ho pensato che Gramion e Lee van Cleef si assomigliavano – nei tratti, nei movimenti – in modo strabiliante. 

Senza dire niente, guardando fisso il parroco, aveva chiuso in modo plateale davanti a noi il cancelletto cigolante e poi ci aveva girato le spalle. Evidentemente non voleva saperne della benedizione e non voleva sprecare una sola parola per spiegarlo.

 

A parlare a questo punto – visto che ormai Gramion si stava allontanando – era stato il parroco che, come riflettesse tra sé e sé, aveva detto: "Uscite da quella casa e scuotete la polvere dai vostri calzari". Era il Vangelo, Matteo 10, 7-15, ma io non lo sapevo e così, perplesso, avevo guardato prima i miei scarponcini e poi le scarpe scalcagnate, e quanto mai impolverate, del vecchio parroco. 

Però di quell'uomo in nero ho un altro ricordo ancora, e lo sfondo questa volta non è di polvere ma di bianchissima neve. Inverno, dunque. 

E lui, che non andava mai a casa di nessuno, si presenta davanti alla porta di casa nostra, dove c'è mia madre e ci sono io. Mio padre è al lavoro. Mamma Federica lo intravede, si asciuga le mani nel grembiule perché sta pulendo la verdura, mi dice di mettermi seduto e stare zitto, e – senza un attimo di incertezza – gli va incontro. Non gli parla. Non gli sorride. Lo guarda, in silenzio, con attenzione. Lui dice due sole parole: "Ho fame".

 

Giardino centrale, corridoio adiacente il pozzo e la chiesa, @Marcella Milani (Urbex).


Aveva finito la farina con cui si faceva il pane e, forse da giorni, non mangiava. Federica, lo guarda. Gli mette una mano protettiva sulla spalla. "Aspetta qui..." gli dice, lasciandolo sulla soglia di casa.

Entra. Estrae dalla madia i due micconi di pane della nostra scorta (ne rimane uno, basterà) e poi, dopo averci pensato un attimo, prende il sacchetto di riso da un chilo. Mette tutto in una cesta, ci aggiunge un cartoccio di sale, una dozzina di patate e delle cipolle, e gliela porge. "Torna, quando hai bisogno". Niente altro.

È tornato. Qualche mese dopo quando stava arrivando l'estate ed io ero solo a casa. I miei nei campi a lavorare. È venuto a restituire la cesta. L'ho visto arrivare e mi sono preso paura ma lui, come intuendolo, si è fermato sulla soglia e ha lasciato lì la cesta, piena di mele bellissime, quelle dei suoi alberi. "Per tua madre", ha detto. "E per te..." ha aggiunto. 

Pochi giorni dopo Gramion fu meno gentile con la guardia comunale che gli voleva consegnare il bollettino delle tasse. Per convincerlo ad andarsene gli aveva puntato il falcetto dritto verso il petto. Così, poche ore dopo, sono venuti a prenderlo e l'hanno portato a Voghera. Al manicomio, appunto, e non è più tornato.

 

Quando, anni dopo, ci sono andato io, a Voghera, perché ci era finito ricoverato mio fratello, più grande di me di sette anni, quel viale che portava al cancello imponente, minaccioso, mi è parso non finisse mai.

Nella vita sono proprio le domande che si vorrebbe non aver mai pensato che, alla fine, bussano alla nostra porta e portano la loro risposta. 

Voghera era una di queste domande che mi si era messa dentro nel cuore, sin da bambino. Sin da quando stavo in paese e mi chiedevo cosa e come fosse quel posto dove sparivano quelli che diventavano matti. La domanda era rimasta lì, in sospeso. Accanto forse ad altri interrogativi venuti dopo: sulla malattia mentale, sulla sventura di chi ne viene colpito e sul terremoto che a quel punto scuote la sua casa, la sua famiglia, dove qualsiasi sforzo di sgombrare macerie e rimettere in sesto muri, dopo ogni crisi, deve fare i conti con la prossima scossa, la nuova paura, lo sfinimento di una fatica che non ha mai termine. 

 

Ma forse tutto questo non lo sapevo ancora perché, per impararlo, bisogna stare accanto alla prova della follia per un po'. Qualche anno. Qualche decennio. Oltre mezzo secolo nel caso di mio fratello. 

Non l'ho mai detto ma sapevo, intanto che percorrevo quel viale che portava al massiccio edificio del manicomio di Voghera, che ci sono dolori che  spezzano il cuore. Se i nostri cuori fossero, fossero stati, interi, forse non solo la nostra vita sarebbe stata diversa ma anche noi saremmo stati diversi. Ma forse i cuori si devono spezzare per far sì che arrivi, sino a noi, sino al cuore del cuore, il senso del tutto. Perché tutto, nella vita, alla fine ha un senso. Anche quell'ingresso del vecchio manicomio di Voghera che sapeva di disinfettante, di cibo e di aria stantia. E il girare delle chiavi, e i rumori e le voci acute che sentivo venire dai reparti. 

 

Una camera al primo piano, @Marcella Milani (Urbex).

 

In realtà il manicomio stava allora cambiando pelle. Era arrivata una nuova équipe di medici, nuove impostazioni di cura e la palazzina, accanto al vecchio edificio, dove stava mio fratello, assomigliava un po' a tutti gli ospedali. Solo che c'erano le chiavi e gli infermieri controllavano nella borsa cosa stavi portando ai ricoverati. I medici erano gentili e gli psicofarmaci che cominciavano ad essere usati al posto delle vecchie terapie sembravano poter contribuire ad addomesticare la durezza della malattia.

Però, nonostante quei mutamenti in atto, i luoghi dove la follia è venuta ad abitare, a farsi curare, rimangono posti intrisi di dolore. Non ne sono pervase solo le persone. Sembra quasi che anche le pareti, i muri, le porte, gli infissi e i mobili essenziali che arredano le camere, partecipino al dolore infinito, irriducibile, incancellabile, di chi è passato lì dentro. E spesso vi ha chiuso i suoi giorni.  

Tutte quelle vite che sono trascorse lì dentro, in giorni interminabili, in pene che nessuno saprà mai, in violenze silenziose e sofferenze che non hanno mai più voce, rimangono. Sono dentro queste mura e abitano in questo edifico che Marcella Milani ha avuto il coraggio di affrontare, da sola, in una ricognizione che non avrei mai avuto cuore di fare. Lei lo ha fatto e questo compie un destino: consente di dare un senso a tutto quanto vi è accaduto. Di spiegarlo e di renderlo evidente. Di far parlare i silenzi e di dissipare le amnesie sulle esistenze che qui si sono compiute.

Il senso da trovare è che tutto, nella vita, cerca consolazione. 

 

Non solo le persone che ci vivono accanto, o che stanno al mondo. Cercano consolazione anche coloro che sono spariti per sempre. Cercano consolazione anche i luoghi, gli edifici, le case. Marcella Milani ha avuto forza e cuore impavido. Ha saputo stare, da sola, tra queste mura, ad aspettare il momento giusto per fermare immagini che rendono tutta la tristezza, il dolore, la sofferenza che vi hanno avuto dimora. 

Queste immagini ora ci interpellano. 

Chiedono che destino vogliano dare a questo edificio, alla storia che vi è raccolta, alle vite che vi sono passate. Chiedono in che modo pensiamo di consolare la tristezza che vi è stata deposta. Una prima risposta è proprio in queste foto: perché il linguaggio della bellezza e la sfida del suo sguardo affidato ad ogni scatto sono già raggi di luce. Espandono gli spazi dell'intelligenza del comprendere che, letteralmente, è sempre, non dimentichiamolo, un "prendere con sé". Queste foto aprono le finestre dell'attenzione, scaldano di tenerezza l'ascolto che andrà dedicato a queste storie di vite che si sono dissolte come pulviscolo nel crepuscolo. 

Chiedono di non dimenticare ciò che è passato qua dentro perché, appunto, tutto ha senso. Tutto cerca consolazione. Tutto ci riguarda. 

 

Testo tratto dal catalogo per della mostra «MENTE CAPTUS - spazi e silenzi dell'ex manicomio di Voghera», progetto ideato e realizzato dalla fotografa Marcella Milani. Dal 15 settembre al 1 ottobre 2017, Spazio per le Arti contemporanee del Broletto di Pavia.

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Noia

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Mercoledì 27 settembre alle ore 18 al Circolo dei Lettori di Torino, Marco Belpoliti parlerà della noia.

Qui una breve antologia con alcuni dei testi che verranno presentati durante l'incontro.

 

«La noia, per me, era simile a una specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarriva continuamente, intravvedendo soltanto a intervalli qualche particolare della realtà; proprio come chi si trovi in un denso nebbione e intravveda ora un angolo di casa, ora la figura di un passante, ora qualche altro oggetto, ma solo per un istante e l’istante dopo sono già scomparsi.

Nella nebbia della noia, io avevo intravveduto la ragazza e Balestrieri; ma senza annettere loro alcuna importanza, e, comunque, distraendomi continuamente da loro. Così, avveniva che, per settimane, io dimenticassi l’esistenza di quei due che, purtuttavia, vivevano e si amavano a pochi passi da me. Ogni tanto mi ricordavo di loro, quasi con stupore, e pensavo allora: “toh, ci sono sempre, continuano ad amarsi»

 

A. Moravia, La noia, 1960.

 

«Ci troviamo, per esempio, in una insulsa stazione di una sperduta ferrovia secondaria. Il primo treno arriverà tra quattro ore. La zona è priva di attrattive. E’ vero, abbiamo un libro nello zaino – dunque leggere? No. Oppure riflettere su una questione, su un problema? Non va. Leggiamo gli orari oppure studiamo l’elenco delle varie distanze di questa stazione da altri luoghi che non ci sono noti altrimenti. Guardiamo l’orologio – è appena passato un quarto d’ora. Allora usciamo fuori, sulla strada maestra. Camminiamo su e giù, tanto per fare qualcosa. Ma non serve a niente. Contiamo gli alberi lungo la strada, guardiamo nuovamente l’orologio: appena cinque minuti da quando l’abbiamo consultato. Stufi di andare su e giù, ci sediamo su una pietra, tracciamo ogni sorta di figure sulla sabbia, e ci sorprendiamo nuovamente a guardare l’orologio; è passata una mezz’ora; e così di seguito. Una situazione quotidiana, con le ben note, banali ma del tutto spontanee, forme di scaccia tempo».

 

M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, 1929.

 

«Siamo invitati da qualche parte per la sera. Non siamo obbligati ad andarvi. Ma siamo stati tesi e impegnati tutto il giorno,  e per la sera abbiamo del tempo libero. Così ci andiamo. C’è la solita cena con la solita conversazione a tavola, tutto è non soltanto molto buono, ma anche di buon gusto. Poi, come si dice, si sta insieme in allegria, si ascolta magari della musica, si chiacchiera, l’atmosfera è simpatica e divertente. E’ già ora di andare via. Le signore, non solo al momento dei saluti, ma anche a piano terra e per strada, quando ci si ritrova per proprio conto, assicurano che tutto è stato veramente molto piacevole, oppure che è stato incredibilmente incantevole. In effetti è così. Non si trova proprio nulla che in questa serata possa essere stato noioso, né la conversazione né la gente né i locali. Si ritorna dunque a casa pienamente soddisfatti. Si dà ancora una rapida occhiata al proprio lavoro, interrotto la sera, si fa un calcolo approssimativo e una rapida previsione per il giorno successivo,– ed ecco qui: questa sera mi sono proprio annoiato di questo invito. Ma come? Con tutta la buona volontà non riusciamo a trovare nulla che ci abbia annoiato. Eppure io mi sono annoiato. Ma di che cosa? Io mi sono annoiato; per caso, in qualche modo, ho annoiato me stesso? Sono stato io la causa della mia noia? Ci ricordiamo però in modo inequivocabile che non solo non c’era nulla di noioso, ma che io non mi sono neppure per un attimo occupato di me stesso, in una qualche estemporanea riflessione fra me e me, che abbia potuto far da presupposto alla noia. Al contrario ero completamente presente nella conversazione e in tutto il resto. Ma non diciamo neanche: mi sono annoiato di me, bensì della serata a cui sono stato invitato. O forse tutto questo dire a posteriori che mi sono veramente annoiato, è soltanto un inganno, che deriva da  una tardiva irritazione dovuta al fatto che ho sacrificato e perduto questa serata? No, è chiarissimo: ci siamo annoiati, anche se tutto è stato così piacevole. O forse è proprio di questa piacevolezza della serata che ci siamo annoiati?»

 

M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, 1929.

 

«Per quanto frantumata possa apparire la vita quotidiana, nondimeno essa mantiene ancor sempre l’ente, anche se nell’ombra, in un’unità del “tutto”. Anche quando e proprio quando, non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, ci soprassale questo “tutto” , per esempio nella noia autentica. Essa è ancora lontana quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando “uno s’annoia”. La noia profonda che va e viene nella profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità».

 

M. Heidegger, Che cos'è la metafisica, 1929.

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Ma allora, qual è il tuo mito?

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Il testo Qual è il tuo mito,  a cura di Susanna Fresko e Chiara Mirabelli, esce da un gruppo di filosofi, psicoanalisti e altri autori che si riconoscono nell'esperienza di ScuolaPhilo. La novità, annunciata dal libro, consiste nella riscoperta della Mitobiografia, termine tratto dall'opera grandiosa di Ernst Bernhard. 

«Nel 1912, all'affacciarsi di un momento storico di estremo disorientamento individuale e collettivo, Carl Gustav Jung si rivolse a se stesso e si chiese con grande drammaticità: “Ma allora, qual è il tuo mito? Quello in cui vivi?”» (dall'Introduzione di Susanna Fresko e Chiara Mirabelli al libro).

 

Sono le righe di apertura. Il 1912, presso la fine del periodo migliore della modernità, quando ancora si credeva che le guerre sarebbero terminate e che l'evoluzione tecnologica avrebbe migliorato la psicologia umana, è l'anno della fine della collaborazione tra Freud e Jung. Si consuma la separazione tra Sigmund Freud e il suo supposto erede, Carl Gustav Jung. Un anno drammatico per entrambi, che, solo qualche anno prima avevano compiuto, insieme al terzo grande fondatore della psicoanalisi, Sandor Ferenczi, il noto viaggio negli Stati Uniti. Da quel momento i tre autori si allontaneranno per prendere strade diverse. Oggi queste strade si incrociano nuovamente. È il tempo della nuova collaborazione e questo libro si pone su queste tracce. Apre la serie dei capitoli del libro Romano Màdera, che discute di cosa sia l’“analisi” a partire dal Libro dei sogni di Federico Fellini e dal rapporto di Fellini con Bernhard, suo analista a Roma. Le considerazioni di Màdera sono, in primo luogo, considerazioni di libertà. 

 

 

Anch'io tra le mie tre analisi (sono grave) ne ho fatta una junghiana. Da quella analisi ho imparato a cercare di vivere il mito in cui vivo, che non è il mio mito. Si tratta del mito della nostra singolarità, non di mitomania. Ricordo la passione con cui durante la notte mi alzavo per scrivere i sogni che stavo facendo, a volte a occhi chiusi, stanza buia, quaderno e matita a portata di mano. A volte bastavano due parole per ritirare fuori tutto il sogno alla sveglia. Imparai che a volte i sogni si confondono, si rimandano l'un l'altro, svaniscono e ricompaiono. 

Màdera, attraverso alcune riflessioni della tradizione ebraica, assegna alla mitobiografia il compito, oggi fondamentale, di un insegnamento non concettuale, come quello dei greci, ma di un insegnamento originario, le toledot, sulle origini, sulle generazioni.

L'intenzione di questa Scuola Mitobiografica è passare dai concetti alla vita. È interessante che, nella sua autobiografia, l'attuale Papa abbia ricordato di avere fatto un'analisi a Parigi con una psicoanalista ebrea, no? Aveva qualcosa da imparare proprio in quel posto.

 

Se Màdera parla del Libro dei sogni di Fellini , Chiara Mirabelli non dimentica quello di Jorge Louis Borges (1899-1986). Ispirata da un articolo di Luigi Zoja, Mirabelli scrive del desiderio originario del bambino di ascoltare storie, che, a loro volta, organizzano la memoria infantile. A volte varrebbe la pena di osservare gli adulti, che forse di memoria ne hanno troppa e non si lasciano più andare ai sogni, mentre i sogni – raccontati all'altrui persona in terapia, in gruppo, a un'amica – ci aiutano a ritrovare la nostra infanzia attraverso processi mnesici inconsci. Ricordo un sogno di fine analisi, successiva a quella junghiana. Questa volta l'analista era una donna, avevo sognato  un luogo che da bambino chiamavo “Fuori d'Aria”, ci andavo a giocare, in campagna. L'analisi fa emergere il materiale inconscio, ma quando si torna bambini, il materiale contiene sempre note gioiose. 

 

Ivan Paterlini torna su quel 1912. È l'anno in cui Jung pubblica Simboli della trasformazione e rompe definitivamente con Freud. Sappiamo come questi conflitti di pubblicazione o di concettualizzazione si erano sviluppati, ma è proprio su quel testo che la psicoanalisi avrebbe dovuto conciliare i “concetti” di Freud, l'interesse per le origini e la vita di Jung e la tenerezza reciproca tra terapeuta e “persona che frequenta la terapia” di Ferenczi e, dopo di lui, di Fachinelli.

«In questi anni, scrive Paterlini, mi sono abituato ad ascoltare e ad ascoltarmi abbandonando, quando mi è possibile, e la relazione analitica lo consente, il primato della finalità cosciente, come la chiama Gregory Bateson...» (Ivan Paterlini, A partire da Jung). Bateson fece un'analisi junghiana e fece alcuni studi su Jung. Penso che, per Bateson, i bambini, che non conoscono la finalità cosciente, hanno qualcosa da insegnarci (“ogni scolaretto sa”). C'è un signore in giro per l'Italia e ora per il Mondo, Luca Santiago Mora, che conosce l'arte di farci apprendere dai bambini.

 

Moreno Montanari parte con un piglio giustamente polemico nei confronti di chi – e in questa post-modernità sono molti – separa rigidamente il logos dal mythos, discutendo, io credo, sia le tesi di certi filosofi iper-razionalisti, che hanno dominato il campo della storia della filosofa negli ultimi anni, sia le filosofie New Age, che hanno dominato il campo della “cultura giovanile” per un periodo. Lo fa ricapitolando gli antichi. Logos deriva da legein, da cui deriva anche il termine legame. Una terapia, senza legame tra le persone che vi partecipano non si dà. Da questo punto di vista,  Gregory Bateson è assai vicino a Jung, il mythosè la vita, le cose così come stanno, ciò che oggi Bruno Latour, sulla scorta di Bateson, chiama ontologia; il logosè la loro descrizione: epistemologia.

Questa distinzione Bateson la riprende, in relazione a Jung, in alcune considerazioni intorno ai Sette sermoni ai morti, opera junghiana pubblicata postuma, ma scritta nei primi anni dopo la rottura con Freud. Bateson sulla scorta di Jung, distingue il pleroma, l'indistinto scorrere della vita, che al contempo avviene alle nostre spalle, dalla creatura, il regno delle differenze che introduciamo nel pleroma quando lo descriviamo. 

 

Si tratta di una distinzione importante, che accomuna questi due grandi autori a Baruch Spinoza. Se la sostanza possiede infiniti attributi, noi abbiamo accesso solo a due: la mente e il corpo, che però si sovrappongono, non giacciono separati: gli affetti, i sentimenti o, per dirla col titolo del massimo estimatore di Spinoza, Goethe: Le affinità elettive.

Un altro esempio di critica alla finalità cosciente lo fa Massimo Diana a proposito del mago della pioggia Kiao Tchou, che quando giunge da un'altra località della Cina, per guarire la siccità si chiude per tre giorni in una casa e, quando esce il quarto giorno, inizia la pioggia. Per il mago la zona era fuori dal Tao e anche lui, giunto là, era uscito dal Tao, gli ci sono voluti tre giorni per rientrare nel Tao: “Allora la pioggia è venuta” ( Massimo Diana, “Tra miti e fiabe, verso una prospettiva mitobiografica”).

Invece Ivan Carlot mette a confronto il Robinson Crusoe di Daniel Defoe con Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier per parlare dell'Altro, inteso come viaggio. Se Karl Marx aveva definito la dimensione del soggetto isolato come una mistificazione borghese, Tournier, dopo avere ironicamente descritto il perfetto carattere borghese inglese, sulla scorta della Cantatrice calva di Eugène Ionesco, ribalta la relazione padrone/servo, come nello Hegel della Fenomenologia dello spirito, mostrando l'inopportunità e i fallimenti del colonialismo. 

 

Per ultima Susanna Fresko, che parte con l'opera di René Kaës, La polifonia del sogno, e dalla frase di  Didier Anzieu: “Il gruppo è come il sogno”, per farci attraversare le tracce dell'alleanza di Abramo con Ado(n)ài, la Sua manifestazione misericordiosa, fino a giungere a Ernst Bernhard. 

Bernhard è di fatto, insieme a Jung e forse più di Jung, il grande ispiratore di questo testo. I riferimenti di questo nuovo corso di studi  sono rivolti a lui, alla sua opera unica, Mitobiografia, iniziata dopo la fuga dalla Germania, nel 1936, che attraversa le sue peregrinazioni, i rischi della deportazione nel campi nazisti, le sue attività cliniche e conferenze. 

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Il perturbante e la bellezza

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Unheimlich schön

Nel 1919, all'indomani della prima guerra mondiale che fu occasione di grandissima paura reale e concreta, Sigmund Freud scrisse un saggio dal titolo Das Unheimliche (Il perturbante, in Sigmund Freud, Opere, a cura di Cesare Musatti, trad. it. modificata di Silvano Daniele,Torino, Bollati Boringhieri, vol. 9, 1977, pp. 77-114) che molti conoscono, qualcuno no. In quel testo Freud elencava otto cause di paura irrazionale presenti nel campo estetico, osservando anche che fino a quel momento poco l'estetica si era curata di tali sentimenti «repellenti e penosi», preferendo occuparsi del bello, del sublime e dell'attraente. 

 

Nel saggio del 1919 Freud esponeva otto cause di ciò che intendeva con l'aggettivo unheimlich: unheimlichè ciò che causa la paura irrazionale, non scatenata da minaccia reale, come di catastrofe naturale, per  esempio; una paura senza oggetto, che si sottrae alla ragione. Le otto cause sono:

 

1) oggetti inanimati scambiati erroneamente per animati (bambole, oggetti di cera, pupazzi, automi, membra isolate) = quando qualcosa che non sia vivente si rivela troppo simile a ciò che è vivo;

2) oggetti animati che si comportano come se fossero inanimati (fenomeni di trance, follia, attacchi epilettici...);

3) cecità o perdita degli occhi (il “mago sabbiolino” di Hoffmann che strappa gli occhi ai bambini);

4) il doppio (gemelli, sosia e Doppelgänger etc.);

5) coincidenze e ripetizioni (es. l'imbattersi più volte nello stesso giorno nello stesso fenomeno);

6) essere sepolti vivi in stato di morte apparente (cui alcuni attribuiscono la palma del perturbante);

7) un genio maligno che controlla ogni cosa;

8) confusione tra realtà e immaginazione (sogni ad occhi aperti ecc.) = quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile.

 

 

Come si vede, lo Unheimlichesè un sentimento che nasce in ciò che è familiare e ordinario ma poi ci disturba, ci fa venire i brividi, provoca Unbehagen, disagio, per usare un'altra parola freudiana. Ma attenzione alla specificità del fenomeno, che non è legato a ogni tipo di paura: un assassino che spunta fuori da un angolo buio in un film dell'orrore non è unheimlich, perché la paura che il pubblico prova è perfettamente razionale e naturale. Così lo sono molte paure dei nostri tempi: anche se la loro valutazione può essere e spesso è sproporzionata agli esiti, non sono unheimlich la paura del terrorismo, dei cambiamenti climatici e degli attacchi ai sistemi informatici, che costituiscono secondo analisi recentissime le tre paure più diffuse sul pianeta. 

 

Unheimlich dunque è propriamente ciò che inserito in un testo estetico (in un testo scritto come in un'opera visiva o uditiva o altro) istilla una inspiegabile ansia, un disagio, una dissonanza cognitiva che monta fino a snervarci. Freud che era Freud aveva una spiegazione per tutto ciò: queste situazioni ci impauriscono perché ci ricordano sistemi di credenze represse e rimosse: o provenienti dall'infanzia, quando credevamo che bambole e pupazzi potessero venire alla vita, o a stadi primitivi dello sviluppo umano, dove si immaginava per esempio uno spirito gemello che ci avrebbe accompagnati in vita e in morte. Il rimando a queste idee inespresse e represse, attraverso un oggetto o un evento di uno dei tipi elencati, provoca un brivido di riconoscimento contro il quale la nostra mente si rivolta. Come è noto, Freud e il suo  compagno psicoanalista Ernst Jentsch, che aveva scritto un saggio Zur Psychologie des Unheimlichen già nel 1906 (nella «Psychiatrisch-Neurologische Wochenschrift» 22, 1906, pp. 195-205), tracciarono l'elenco delle Unheimlichkeiten a partire dal racconto del 1816 di E.T.H. Hoffmann Der Sandmann («Il mago sabbiolino»).

 

Non riscostruiremo tutta la nozione anche perché non siamo psicoanalisti ma diremo che centrale ad essa è la casa, che è il luogo principale della minaccia, come la casa è del resto ciò che dà luogo e struttura a tutta la topica della psicoanalisi freudiana, dove es, io e superio formano i piani dell'anima come i piani di un condominio, come rappresentato nel notevole romanzo Tre Piani di Eshkol Nevo (tr.it. Vicenza, Neri Pozza, 2017). L'aggettivo sostantivato che Freud usa per definire queste sensazioni è das Unheimliche, letteralmente il «non-di-casa». Ma è veramente fuori dalla casa? No, in realtà sta ancora lì, giace dentro la casa, sotto la casa, sepolto sotto la pesante architettura di abitudini e credenze. 

 

Ora, i traduttori che si trovarono alle prese con questo termine lo resero in italiano con perturbante, in francese con inquiétante étrangeté, in inglese con uncanny, in spagnolo con ominoso (dal latino omen, portentoso, minaccioso, inquietante) o con siniestro e fermiamoci qui. Notiamo soltanto che i termini francese e spagnolo sottolineano il fattore inquietante e straniante, mentre l'inglese uncanny insiste più sull'aspetto del mistero nel senso di «qualcosa-di-sconosciuto», un-canny (da can, to know how, in tedesco kennen). L'italiano perturbante punta invece sul tema del turbamento, dal latino turba, a sua volta dal greco tỳrbe=disordine, confusione, scompiglio e in senso figurato alterazione dell'animo, dove il prefisso per offre la connotazione intensiva. Il risultato di tutte queste proposte di traduzione, così diverse, è però identico: la casa scompare e la sua centralità si dissolve. Tutto ciò parallelamente alla diffusione del concetto il quale, dopo un periodo di calma e silenzio che durò, per quanto riguarda l'arte, fino agli anni '70 del Novecento,  entrò con violenza e virulenza nel vocabolario estetico fino a divenire un «master trope», come è stato definito (v. Martin Jay, The Uncanny Nineties, in «Salmagundi», 108, 1995, p. 20). 

 

Oggi, ai tempi della rete, viviamo, pare, in un'epoca decisamente unheimlich proprio in relazione al significato originario dei casi freudiani: i giochi elettronici e internet offrono sempre più opportunità di duplicarci, con profili FB, Second Life avatars, Flikr accounts, per non parlare dell'opportunità di vederci sdoppiati nei furti di identità e di indirizzi elettronici, come quando ci vediamo recapitare messaggi provenienti dal nostro stesso indirizzo. Ci si può chiedere se le nuove tecnologie, con la loro confusione tra reale e virtuale, animato e inanimato, producano nuove forme di Unheimlichkeit o semplicemente rivestano di nuove fogge vecchi modelli o archetipi. In questo caso insistere sul doppio, il sosia, per applicarlo a qualsiasi fenomeno – sosia, gemelli, bambole, automi e robot sullo schermo o di materiale solido – significa rimanere nell'ambito della categorizzazione freudiana. Di fatto però quello che si fa da tempo è estrapolare il termine e il concetto di unheimlich/perturbante per applicarlo a qualsiasi realtà o fenomeno; per quanto riguarda specificamente l'opera d'arte, si cerca di comporla in modo che essa diventi unheimlich, susciti sensazioni di Unheimlichkeit, così che l'opera stessa, pur partendo da una condizione di familiarità e casalinghitudine, faccia venire i brividi e provochi disagio, sorprendendo negativamente. 

 

Dunque ci si allontana dai motivi freudiani, di cui talvolta non si è nemmeno più consapevoli, ma per andare dove e cercare che cosa? La sorpresa accompagnata da disagio e inquietudine, lo choc, per usare il linguaggio di Benjamin, il coup che genera attenzione e non lascia indifferenti. Anche se brutto. Anzi, meglio se brutto, perché non ti lascia tranquillo e torna sempre a tormentarti con la sua bruttezza, che talvolta ti tocca incrociare tutti i giorni perché incarnato in un'opera [d'arte] davanti alla quale devi passare senza scampo quotidianamente. Importante, pare, è che l'opera non provochi indifferenza ma attenzione, anche se accompagnata da imbarazzo e malessere, nonché sorpresa, quella cosa che ti prende sopra, da super-prehendere, o che ti assale come l'incubo, che si siede sopra di te nel sogno (lat. in-cubare) e ti opprime il respiro. Che ti stupisce nel doppio significato del thàuma greco, meraviglia e sgomento, fungendo da catalizzatore estetico.

 

Agli inizi di settembre mi trovavo a Cortona per la settimana della ETH di Zurigo e ho potuto vedere dal vivo, nel Museo Diocesano di Cortona, alcune opere del Beato Angelico tra cui l'Annunciazione del 1430 ca. Che è sorprendente, sorprendentemente bella. È unheimlich schön senza bisogno di essere «repellente e penosa», unheimlich. Il sentimento che suscita è lo stupore, il sentimento che lascia stupiti e attoniti come, dice la parola, scossi da fragor di tuono (dal lat. ad-tonare, tuonare). Stupisce e lascia attoniti con la sua bellezza, scuote e prende sopra, il dipinto del frate pittore. Non è perturbante ma non è nemmeno rasserenante perché la bellezza non è in sé pacificante e serena, anzi. Ne è una splendida testimonianza la tragedia, la tragedia greca per esempio, che colpisce e sorprende e stupisce con la sua bellezza. Gli eventi che presenta sono terribili e orribili anche perché non hanno soluzione – che è ciò che definisce la tragedia – ma la loro rappresentazione è anch'essa unheimlich schön. Non perché sia unheimlich, «repellente e penosa», ma perché è terribilmente bella, molto bella, bellissima.

 

Ora, nessuno vuol tornare ai concetti di bellezza legata al buono, al giusto e al vero come in alcune forme del pensiero antico e in sue sporadiche riprese. E neanche all'idea che la bellezza abbia il compito di suscitar virtute e canoscenza, o che la bellezza debba far pervenire alla conoscenza tramite la passione, ai mathémata tramite i pathémata. La bellezza non ha da essere armonia rasserenante – anche se incidentalmente può esserlo, perché no – ma nemmeno perturbante bruttezza. Certo che il prodotto estetico può e forse anche deve essere dissonante, conflittuale e discordante, e soprattutto emozionante nel senso di non lasciare indifferenti. E può anche essere unheimlich e in qualche modo è sempre unheimlich in un senso nuovo però, perché è ciò che si produce fuori dalle mura di casa, entro le quali si provvede soltanto al necessario delle cose della vita, e l'arte va oltre i bisogni della sopravvivenza primaria (anche se pure questo non vale sempre e per tutti). Anzi, se è unheimlich schön l'opera è bella, bellissima in quanto non-di-casa, proprio essendo unheimlich

 

Relazione nell'ambito del Workshop sul Perturbante che si svolgerà domani 29 settembre 2017 al Monte Veritàpromosso dal Museo Comunale d'Arte Moderna di Ascona.

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Ascona Arte e Perturbante
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Performare l’affettività

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“Sono io, e volevo dirti che…”. “Ma qual è l’io che mi sta parlando? L’ermafrodita razionale o la donna dedita alla magia che c’è in te? L’omosessuale che è stato eterosessuale e ancora, ogni tanto, aspira ad esserlo? O forse mi parla l’anima tua indiana che, però, si è fusa con i pezzi di cultura occidentale giunti fino a qui? Magari è il tuo istinto materno che convive nel tuo corpo amputato, per cercare di diventare maschio involontario, a parlarmi! E io che ti ascolto, chi sono? Lo spaesato, il dis-locato, il dis-orientato, perso negli spazi irrespirabili di questa caotica città, che non sa se avrà acqua da bere domani, o il romantico che si perde a contemplare ciò che resta di un tramonto che è l’ombra dei tramonti che furono?” 

Quando “io” si rivolge a se stesso o a un altro, si ascolta o osserva, si perde nel bricolage delle differenze, scoprendo che perdersi è, forse, l’unico modo per ritrovarsi, mentre scopre che “io” è una provvisoria metafora che indica qualcosa che non coincide mai con se stessa, una federazione di istanze. Ma quante differenze possiamo contenere in una sola vita? Quanta molteplicità possiamo condividere? 

 

Ambiguità e immaginazione

 

“Un significante è una potenza performativa, vale a dire un segno che produce degli effetti sensibili sui corpi, che li costituisce, li trasforma e può anche distruggerli”, scrive Rocco Ronchi

Quando a generare i significanti è l’immaginazione, la pluralità del possibile, la vitalità del vivente e la distinzione creativa dell’umano raggiungono vertici elevati.

Quei vertici li esprime bene Jan Fabre con la mostra: “My only nation is imagination”, presso lo Studio Trisorio di Napoli. Le basi neurofisiologiche della creatività sono connesse alle potenzialità dell’immaginazione, a creare un pluriverso illimitato di espressioni di noi stessi, al punto che l’immaginazione supera ogni realtà effettiva in una conversazione infinita.

 

Jan Fabre.


È proprio una conversazione infinita, fatta di attraversamenti a più livelli di profondità, quella che scaturisce dalla prosa di Arundhati Roy, in Il Ministero della suprema felicità, Guanda, Milano 2017.

Plurale e molteplice, pur nella sua unità di stile, perfino nella forma letteraria Arundhati Roy conduce a un’esplorazione di un mondo che è cangiante e inatteso, eppure umanissimo, in ogni sua espressione, come ad esempio accade quando scrive:

“Ma la sua desolazione la proteggeva, levandosi intorno a lei in tutta la sua impotenza, finalmente liberata dai vincoli del protocollo sociale” (p. 76).

Una desolazione impotente che protegge e lo fa svincolandosi dal cappio delle norme sociali: ossimori e sottili e raffinate dimensioni del sentire che colgono aspetti inauditi dell’affettività dei protagonisti.

E ancora:

“Gradualmente la Fortezza della Desolazione si ridusse a una dimora di proporzioni gestibili. Si trasformò in una casa: nel luogo di una sofferenza prevedibile e confortante: tremenda, ma con una sua affidabilità. Gli uomini color zafferano rinfoderarono le spade, accantonarono i tridenti e tornarono docilmente alle loro occupazioni consuete: rispondere agli squilli dei campanelli, obbedire agli ordini, picchiare le mogli e far passare il tempo in attesa della prossima spedizione punitiva” (p. 81). 

 

Maestra dell’ambiguità Arundhati Roy lima e increspa, stira e accartoccia, per rendere sentimenti al limite dell’esprimibilità con le parole. Al punto da far impallidire gli esiti dell’indagine sulla funzione dell’ambiguità nel linguaggio poetico, condotta circa novant’anni fa da William Empson in Seven types of Ambiguity (Chatto & Windus, London 1930) e pubblicata da Einaudi, Torino 1965 in Sette tipi di ambiguità. L’ambiguità, per essere tale, è da entrambe le parti, dalla parte dell’autore e da quella del lettore, perché da un lato il linguaggio del poeta contiene in sé presupposti linguistici, tematici e culturali generativi di molteplici significazioni disseminate per tutto il componimento, e dall’altro il lettore ne raccoglie gli effetti soggettivamente attraverso varie associazioni sollecitate dalla costituzione del testo e dalla sua grammatica.

L’ambiguità opera a più livelli, delineando così una tipologia vera e propria. Empson ne individua sette tipi e per scovarli suggerisce una close reading, una lettura ravvicinata capace di sondare l’opera nelle sue crepe, volontarie o inconsce, anzi preconsce. L’ambiguità diviene il termine dinamico della poesia e della narrazione, l’anima fuggevole del linguaggio. Empson si spinge ancora oltre, affermando che «l’operare dell’ambiguità è alla radice stessa della poesia». La polivalenza, ricorda Giorgio Melchiori nell’introduzione all’edizione italiana, è rappresentata da parole «avvolte da un alone di suggestività non tanto per la vivezza dell’immagine, ma per le varie possibilità di interpretazione che lasciano aperte» (p. 10). Polivalente quindi, con più valori significativi mimetizzati nelle parole. 

Polivalenza plurale dei significati; pluralismo delle culture; variegata e irriducibile pluralità dei codici affettivi; dimensione cangiante delle identità e dei processi di individuazione: un mondo di mondi, un pluriverso di significati, così come è oggi la nostra cosmologia, nonostante le nostre resistenze e le nostre difese; questo diventa pagina dopo pagina il libro di Arundhati Roy. 

 

Copertina Empson.


Conosciamo parecchie dinamiche dei sistemi di risonanza fra il cervello-mente di chi legge e il cervello mente di chi scrive, per riconoscere all’ambiguità il suo valore generativo e la disposizione a rinviare sempre oltre una struttura di significato provvisoriamente e apparentemente consolidata. E tuttavia la creazione letteraria e poetica sopravanza e precede la complessità irriducibile dei significati che emergono riga per riga. Si tratta forse di una delle vie per riconoscere il valore artistico e poetico di un testo. Un po’ come ha sostenuto Roland Barthes:

«Le texte non plus n’est pas isotrope: les bords, la faille, sont imprévisibles» (nemmeno il testo è isotropo: i bordi, la crepa, sono imprevedibili).

 

Per performare l’affettività, insomma, ci vogliono un linguaggio e un contenuto in grado di farlo. D’altra parte possiamo essere guidati dalle parole alla comprensione di sfumature e finissimi accessi al nostro mondo interno, così come dalle parole, spesso dalle stesse parole, possiamo essere offesi.

È Judith Butler a domandarsi: “Quando affermiamo di essere state offese dalle parole, che tipo di affermazione facciamo? Attribuiamo alle parole la capacità di agire, il potere di offendere, e ci poniamo come obiettivo della loro traiettoria offensiva”. (…) “Dunque, esercitiamo la forza del linguaggio anche mentre cerchiamo di contrastarne la forza…..” [J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffello Cortina Editore, Milano 2010; ed. or. 1997; p. 1]. 

Siamo esseri linguistici, cioè esseri che hanno bisogno del linguaggio per poter essere, ed è la performatività uno dei caratteri precipui e distintivi del linguaggio, e di quello poetico in particolare.

J. Butler sostiene che “Il performativo agisce in modi che nessuna intenzione cosciente può determinare completamente” (nota 22; p. 238). 

Sono proprio le spinte performative imprevedibili a distinguere i giochi linguistici e le montagne russe dei significati nel testo di Arundhati Roy.

 

Copertina Butler.


Il linguaggio è vulnerabilità che abilita

 

L’ambiguità delle situazioni e del linguaggio per narrarle in Il ministero della suprema felicità sono connotate da un’elevata vulnerabilità, come del resto è la storia dei protagonisti. La corrispondenza fra contenuto e forma finisce per essere un altro dei tratti distintivi del romanzo. Accade così che il linguaggio vulnerabile si proponga come la via per abilitare identità plurali, contesti ibridi, mondi sovrapposti, personalità molteplici, che a loro volta sono caratterizzati dalla vulnerabilità. Il linguaggio, anche se offensivo, interpella e costituisce comunque un soggetto. Le differenze complesse delle identità in gioco assumono cittadinanza e sono riconosciute per il fatto stesso di essere interpellate. Scrive magistralmente J. Butler:

 

“Se rivolgersi a qualcuno significa interpellarlo, allora un nome che offende corre il rischio di inaugurare nel parlare un soggetto che finisce per usare il linguaggio al fine di opporsi a quel nome” (p. 3). 

Mediante una tale torsione che decostruisce, performa e valorizza il conflitto generativo, è possibile rendersi conto che non veniamo all’esistenza prima di essere interpellati da qualcuno.

L’interpellazione costitutiva dei soggetti e dei mondi in cui ci porta Arundhati Roy finisce per creare una nuova cosmologia della contemporaneità, dove individui, luoghi, relazioni ambienti danno vita a una rappresentazione attualizzata e complessa del tempo in cui viviamo, con i suoi portati di estraniazione e di generatività, di esclusione e di appartenenza. 

Oltre all’abilitazione di interi mondi c’è anche una riabilitazione di storie e tradizioni tradotte alla temperatura del presente, a partire dal fare i conti con aspetti critici della sua corruzione.

Come ha sostenuto Octavio Paz:

“Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia, quindi, con la grammatica e il ristabilimento dei significati”.

 

Arundathi Roy costruisce un labirinto che rispecchia il tempo in cui viviamo fino a fare del suo paese e della sua città una metafora del presente, in cui si incrociano corpi e spirito, sacro e profano, tradizioni millenarie e ipermodernità, violenza e dolcezza, magia e ragione, esoterismo e realismo, vita e morte, idee e dèi. La distanza culturale si neutralizza ed emergono affinità spirituali insospettabili, documentate anche dalla storia e dall’antropologia, come si può evincere, ad esempio, dagli studi di Ananda Coomaraswamy, La tenebra divina, ora pubblicato da Adelphi, Milano 2017.

 

Copertina Coomaraswamy.


La neutralizzazione del senso del tempo così come concepito da noi, insieme alla considerazione delle nostre vite alla stregua della spuma dell’onda, dove noi compariamo per un breve attimo, seppur reali, molteplici e complessi, per poi ricongiungerci per sempre con il flusso eterno, fanno da sfondo al disordine pervasivo, tra tragedie ambientali e irriducibili differenze soggettive, tra forme diffuse di iniziative popolari quasi del tutto sterili e strapotere dell’economia mondo globalizzata, che attraversa tutta la narrazione. Gli dei e le idee convivono nel disordine terreno e montano un gioco della vita tirato al limite, esasperato, eppure umanissimo, che crea le esistenze che affollano le storie. 

Il compito della narrazione diventa pratico, e la ricerca linguistica dell’autrice sembra realizzarsi mentre chi legge diventa oggetto stesso della sua ricerca. Non è consentito leggere questo romanzo “dal di fuori”. 

La parte di mondo dalla quale l’autrice scrive diventa il mondo in cui viviamo. Ne può essere prova un passaggio a p. 173 del Il ministero della suprema felicità

 

“Nella nostra parte di mondo la normalità somiglia un po’ a un uovo in camicia: la sua superficie piatta nasconde nel profondo un tuorlo di inusitata violenza. È la nostra costante inquietudine per quella violenza, il ricordo dei suoi passati travagli e il timore per le sue manifestazioni future, a dettare le regole che permettono a un insieme di popoli variegato e complesso come il nostro di continuare a coesistere: che ci permettono di continuare a vivere insieme, tollerarci e, ogni tanto, ammazzarci l’un l’altro. Finché il nucleo tiene, finché il tuorlo non cola fuori, va tutto bene. Nei momenti di crisi essere lungimiranti aiuta”. 

 

Ad agire nella costruzione delle storie di vita è un’entità che sembra amare l’incompletezza, la sospensione che tende al molteplice, il plurale e il provvisorio: “Se mi è consentito fare un’osservazione un po’ banale”, dice uno dei protagonisti, “forse è a questo che si riduce la vita, nella maggior parte dei casi: fare le prove per uno spettacolo che finisce per non concretizzarsi mai” (p.174). 

Del resto, fin dal principio, la narrazione di Arundhati Roy ci conduce in un pluriverso di differenze che abitano nell’indifferenza. La presenza pervasiva degli esseri umani che pullulano da ogni lato si esprime in reti fittissime di conflitti, ambientali, politici, identitari, culturali, di interessi che travolgono tutto e tutto trascinano con sé. Il prologo che si conclude con la considerazione che: ”Non molti hanno notato la scomparsa dei nostri vecchi amici uccelli. C’erano così tante cose da pregustare”, propone un’atmosfera che attraverserà tutto il libro, con la descrizione del diclofenac che, mentre moltiplica esponenzialmente la produttività delle vacche in un’agricoltura che avvelena pianeta e cibo, uccide fino all’estinzione gli avvoltoi dorsobianco. Sarà poi Anjum, che nasce hijira, maschio e femmina, né maschio né femmina, per sempre irrisolta, a fare da guida in un mondo di vite disarticolate e irriducibili e in conflitti che giungono fino al genocidio, come quello del Pakistan, con un milione di morti, (“La carotide di Dio esplose sul nuovo confine tra India e Pakistan e un milione di persone morirono di odio” (p. 23); o come la tragedia del Bangladesh; fino a catastrofi derivanti da disastri fatti dall’uomo come Bophal; per giungere alla perenne e sanguinosa questione del Kashmir.

 

“L’ironia della situazione stava – e sta tuttora – nel fatto che se si mettessero quattro kashmiri in una stanza e si chiedesse loro di spiegare cosa intendono esattamente con il termine Azadi (libertà), di indicare con precisione i contorni ideologici e geografici del concetto, con ogni probabilità finirebbero per tagliarsi la gola a vicenda” (p. 207). 

Ad agire è una passione condensata, distillata, cieca e futile come ogni passione. “Nelle occasioni (per fortuna di breve durata) in cui si scatenava pienamente aveva il potere di squarciare le mura della storia e della geografia, della ragione e della politica” (p. 207).

Le vite nascono nel massimo della precarietà, come Arundhati Roy racconta nel capitolo “Natività” e, inoltre, in uno scenario apocalittico, in cui l’abuso ambientale ha ridotto la vivibilità ai minimi termini. 

“Dove un tempo c’erano foreste, ora sorgevano grattacieli e fabbriche d’acciaio, i fiumi venivano imbottigliati e venduti al supermercato, il pesce veniva inscatolato, le montagne crivellate dalle miniere e tramutate in missili scintillanti. Dighe gigantesche illuminavano le città come alberi di Natale. Tutti erano felici. 

 

Lontano dalle luci della pubblicità, si evacuavano villaggi e città. A milioni di persone era imposto di trasferirsi, ma nessuno sapeva dove” (pp. 115 – 116).

 

La violazione delle vite, rappresentata con un’ampia varietà di forme di oppressione, violenza e torture, fino al limite della sostenibilità esistenziale, consente di creare lo spaccato di un mondo che è e che viene, la cui essenza è allo stesso tempo attraversata da una prorompente vitalità.

L’attualità del romanzo di Arundhati Roy, forse, tra l’altro, sta proprio nel fare del mondo indiano una metafora del nostro mondo. Un mondo che si esprime, oggi, all’insegna di quella che da più parti si definisce la forma VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity). La vita in primo luogo, e le condizioni della vivibilità, sono sempre più volatili; affrontiamo un’incertezza che sempre più mostra la propria intensità diffusa, tanto da chiederci se esiste un mondo a venire (come fanno D. Danowski e E. Viveiros de Castro nel libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, nottetempo, Milano 2017, su cui ha scritto Pietro Barbetta); ci muoviamo in un contesto di complessità in cui tutto dipende da tutto ed è più volte intrecciato, con un senso labirintico che spesso è disorientante fino a immobilizzarci o farci sentire impotenti; ogni cosa si presenta a noi ambigua, tale per cui per essere ciò che è non è mai unitaria e lineare ma ammette più letture e posizioni che spesso sono l’una il contrario dell’altra e, d’altra parte, siamo consapevoli che la vitalità delle cose è strettamente connessa alla loro ambiguità. 

 

Intanto, come in Il ministero della suprema felicità il pluralismo delle identità e delle culture, il bricolage delle vite, si muovono su uno scenario di decomposizione della vivibilità e degli ambienti della nostra vita. 

L’intreccio tra storia umana e storia naturale si è sempre più intensificato, mano a mano che la presenza pervasiva della specie aumentava. Come ha scritto Dipesh Chakrabarty: “È solo in tempi molto recenti che la distinzione tra storia umana e storia naturale […] ha iniziato a crollare” (in The Climate of History: four Theses, Critical Inquiry, 35/2009; p. 207). La domanda che il pluriverso antropologico e ambientale di Arundhati Roy ci pone è se essere attivamente coscienti del proprio ruolo ecologico è necessariamente sinonimo di essere attivamente capaci di modificare questo ruolo. 

Forse esiste sempre una possibilità ulteriore se nell’ultima pagina del libro risonanza affettiva e relazionale e contesto della vita si fondono in una scena come la seguente:

“‘Mammina, pipì!’. Anjum la posò a terra sotto un lampione. La bambina pisciò con gli occhi fissi sulla madre, e poi sollevò il sederino per meravigliarsi del cielo notturno, delle stelle e della città millenaria riflessi nella minuscola pozza che aveva prodotto. Anjum la prese in braccio, la baciò e la ricondusse a casa” (p. 486).

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Il pluriverso esistenziale di Arundhati Roy e il nostro
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Invidia

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Mercoledì 18 ottobre alle ore 18 al Circolo dei Lettori di Torino, Nicole Janigro parlerà dell'invidia.

Qui una breve antologia con alcuni dei testi che verranno presentati durante l'incontro.

 

«In questo caso ci troviamo di fronte a un sistema fantastico evidente: si tratta della sottile questione sempre aperta se la leggendaria figura di Giuda sia stata o no dannata. In sé la leggenda di Giuda è un motivo tipico, quello cioè del perfido tradimento nei riguardi dell’eroe. Si pensi a Sigfrido e a Hagen, a Balder e a Loki. Sigfrido e Balder sono assassinati da un perfido traditore proveniente dalle file dei loro compagni più vicini... Questo mito è commovente e tragico per il fatto che il nobile eroe non cade in combattimento leale, ma a seguito di tradimento. Al tempo stesso si tratta di un evento che ricorre più volte nella storia, per esempio Cesare e Bruto. Il mito di un atto siffatto è antichissimo, ma è sempre materia di rifacimenti. Ciò è espressione del fatto che l’invidia toglie il sonno agli uomini. Questa regola può essere applicata alla tradizione mitica in generale: non sono i racconti di avvenimenti trascorsi ordinari a perpetuarsi, ma unicamente quelli che traducono idee umane universali e in perenne e continuo rinnovamento. Così ad esempio la vita e le gesta degli eroi di una data civiltà e dei fondatori di religioni sono le più pure condensazioni di motivi tipici del mito, dietro i quali si eclissa la figura individuale».

 

C.G. Jung, Le due forme del pensare

 

 

«Così l’І Ching dice di sé stesso: “Io contengo un cibo (spirituale).” Dato che il possesso di una cosa grande è sempre causa d’invidia, il coro degli invidiosi fa parte dell’immagine del grande possesso. Gli invidiosi vogliono portarglielo via, cioè rapire о danneggiare il suo significato. Ma la loro ostilità è vana; egli è sicuro della sua ricchezza di significato, cioè delle sue prestazioni positive che nessuno può togliergli.»

 

C.G. Jung, Prefazione a I Ching

 

 

«La maggioranza delle culture ha qualche usanza legata al malocchio, collegato tradizionalmente a uno sguardo malvagio, motivato dall’invidia, capace di avvelenare, maledire o portare sventura. In molti paesi arabi, per tradizione, non è bene fare un complimento esplicito a un bambino, lodando per esempio la sua bellezza e il suo talento: e se questo succede bisogna affrettarsi a dire Masha’ Allah  − “è il volere di Dio” – per proteggere il bambino dalla sfortuna che porta lo ayn al-hasūd. Nell’India settentrionale, gli autisti di camion appiccicano ai loro paraurti adesivi colorati con lo slogan buri nazar wale tera muh kala (ti possa diventare nera la faccia, creatura dall’occhio cattivo) a mo’ di scaramanzia. In Scozia, si crede che il Droch Shùil faccia seccare il latte alle donne e alle vacche. L’invidia è temuta non solo perché dà origine a quel desiderio avido di rubare l’oggetto tanto ammirato – i begli occhi, il gregge in salute, la splendida casa – ma perché è distruttiva. Quando l’invidioso non può avere un certo oggetto tutto per sé, non vuole che ce l’abbia nessun altro».

 

T. W. Smith, Atlante delle emozioni, 2017.

 

 

«Uno dei fattori per lo scatenarsi dell’invidia è l’impotenza, sia come impotenza di fatto che come sentimento d’impotenza. L’impotenza rende impossibile o comunque difficile il giusto rapporto tra bisogno d’espansione e insofferenza del limite. La forza non è soltanto conatus existendi, non è solo potenza d’esistere, ma è istanza di crescita e come tale è sforzo per oltrepassare ogni limite predeterminato. (…)

Se la meta è troppo alta per la propria forza vale la pena rinunciarci e la rinuncia non è sconfitta, bensì misura, atto di ragione. Ma l’equilibrio razionale che proporziona il bisogno di sviluppo al limite non è facile da attingere (…).

E ciò avviene perché gli uomini sono per lo più valutati per le mete che essi raggiungono e poco considerati per quello che in se stessi sono. A questo punto l’impotenza di fatto si tramuta in sentimento d’impotenza e di invidia dell’altro. L’invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, poiché è la società che decide del valore degli individui e assume come termine di valore proprio quegli individui che hanno successo. Questo accade prevalentemente nelle società contemporanee».

 

Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1996.

 

 

«Che cos’è l’invidia? È dire: quello che hai tu è mio, è mio, è mio? Non proprio. È dire: ti odio perché tu hai ciò che io non ho e che desidero. Io voglio essere io, sì, ma nella tua posizione, con le tue opportunità, con il tuo fascino, la tua bellezza, le tue capacità e la tua ricchezza spirituale (p. 50)

Nina si rese conto che l’invida di Rowland era diventata ossessiva. Credeva fermamente che il marito avrebbe potuto scrivere un bel libro, se solo si fosse liberato di quella gelosia, invidia o rivalità che gli era entrata nel cervello al primo incontro col giovane Chris. Era una vera e propria malattia, e Rowland ne sarebbe rimasto paralizzato come scrittore e anche come insegnante, a meno che non l’avesse superata. (p. 57). La gelosia sessuale nei confronti di un uomo o di una donna le era perfettamente comprensibile, ma essere gelosi di un libro, di un’opera d’arte, di una pagina scritta… (p. 60). Si chiedeva spesso come sarebbe stato se Chris fosse morto. Non sarebbe servito. Nessuno avrebbe potuto cancellare il fatto che aveva vissuto, scritto un libro quando andava a scuola, e impedito a lui di scrivere il suo. (p. 69)».

 

Muriel Spark, Invidia, 2004.

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La nuda vita dei migranti

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Le immagini recenti e impietose dei corpi, prevalentemente di pelle scura, che giacciono abbandonati sui pavimenti spogli dei cosiddetti centri di accoglienza libici, ancora una volta mi hanno riportato a un tema di cui da un po’ di tempo si parla poco, forse perché se ne è parlato troppo fino a farlo diventare uno slogan, come mi ha fatto notare un amico. Il tema è quello della nudavita. Ancora una volta, perché di immagini simili ne abbiamo viste tante, ultimamente, che richiamano più o meno lontane e orribili memorie. Unica differenza: il colore della pelle, appunto, dei soggetti in questione. Sembra che al momento prevalentemente gli africani funzionino come emblemi di quella che Giorgio Agamben, riprendendo un concetto di Benjamin, ormai diversi anni fa, ha chiamato nuda vita.

 

Vita che non è quella dell’essere dotato di linguaggio e dunque umano per eccellenza, né vita umana puramente biologica, per i greci zoé, che indica il semplice fatto di essere vivi, per umani, animali, se vogliamo anche piante. L’idea di nuda vita o vita “sacra” a cui Agamben si riferisce (riprendendo il diritto romano) è quella di una vita inclusa nell’ordinamento giuridico solo nella forma della sua esclusione. Essa è sacer perché appartiene agli dei e al loro giudizio è direttamente sottoposta. Non è dunque sacrificabile (sarebbe un controsenso) ma semplicemente uccidibile. Il potere sovrano in quanto rappresentante del divino include nella sua sfera questa vita a cui si può dare impunemente la morte, basta che ciò avvenga fuori dalle regole rituali.

 

La nuda vita o vita sacra si colloca dunque nella zona grigia tra bios e zoé, tra vita politica e vita naturale, una no men’s land su cui cui le altre due (forme) di vita si costituiscono transitando continuamente l’una nell’altra. Essa incarna la violenza insita, direi consustanziale, alla legge: c’è una soglia sottile tra diritto e violenza che coincide con il posto occupato dalla sovranità che, a sua discrezione, può attraversare questa soglia. A fronte di una concezione moderna della sacralità, o sacertà, della vita in quanto diritto imprescindibile anche in opposizione al potere sovrano, esiste una originaria e assoluta esposizione della vita al potere e alla sua uccidibilità e a quella che Agamben chiama relazione di abbandono. In quanto vita nuda e uccidibile il soggetto che ne è portatore in qualche modo è già morto, è uno zombie il cui statuto di esclusione/inclusione è necessario, tuttavia, alla costituzione del potere stesso, o meglio, della sua componente violenta. Naturalmente l’esempio pregnante di questo meccanismo nella contemporaneità è il campo di sterminio, nel quale vengono eliminate vite “indegne di essere vissute”, nude vite uccidibili a discrezione del potere sovrano che per l’occasione, a fronte del diritto, opta per il versante della violenza proclamando lo “stato di eccezione” dal diritto stesso (Agamben, Schmitt), ossia la sua temporanea sospensione. È facile che lo stato di eccezione si trasformi in una condizione permanente, come è accaduto durante il nazismo o durante le dittature militari sudamericane, ad es. E come sta già accadendo ai nostri giorni rispetto al fenomeno migratorio. L’emergenza, adottata come pratica abituale, espone evidentemente al rischio che la tutela giuridica dei soggetti (in questo caso i migranti), mostri le sue falle e determini costanti violazioni dei diritti umani. Questo è sotto gli occhi di tutti, lo si voglia vedere o no. Il versante oscuro e violento del potere sovrano, in barba al diritto e in modo consapevole o meno, è sempre in funzione. 

 

Ph Jan Grarup.


Freud, in Il disagio della civiltà (1929), il saggio che può essere considerato il suo testamento intellettuale e spirituale, aveva ampiamente enunciato e illustrato che la cosiddetta civiltà non è una garanzia rispetto alla violenza che abita gli esseri umani: “L’uomo non è un animale mansueto e bisognoso d’amore”. I meccanismi psichici che sono al lavoro per costruire le istituzioni collettive non riescono a neutralizzare del tutto le forze distruttive veicolate da Thanatos, la pulsione aggressiva che Freud aveva tematizzato nel 1920. Ne resta sempre una quota che induce e alimenta sopraffazioni, guerre, violenza di ogni genere. L’etica del desiderio, inaugurata da Freud, spazza via quella aristotelica del “bene”. Gli uomini non cercano il bene, proprio e degli altri, ma il soddisfacimento, anche quello delle istanze aggressive. Qui Freud è meno ottimista rispetto alle affermazioni contenute in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), secondo cui sembrava possibile, non senza prezzo, convogliare le istanze psichiche distruttive nei meccanismi al servizio della costruzione della collettività. Una lettura del testo freudiano del ’29 orientata alla mitizzazione di una presunta “condizione naturale” viziata e ingabbiata dalle catene della civiltà è del tutto fuorviante. L’idea di un essere umano in origine innocente, “naturalmente buono”, e poi costretto dalle limitazioni inquinanti della società è ingenua e soprattutto non è freudiana. Nessuno è innocente, sin dall’inizio.

 

Le vicende di Eros, responsabile di tutti i legami d’amore, non solo erotico in senso stretto, sono costantemente accompagnate da quelle di Thanatos che talvolta (spesso) prevale. Sebbene Freud si astenga dal valutare la civiltà umana, egli considera la pulsione distruttiva il più grave ostacolo alla civiltà stessa. Egli si aspetta, senza garanzie, che una delle “due potenze celesti”, Eros naturalmente, abbia la meglio per affermarsi sull’altra. Calcando un po’ la mano, essere edotti sul potenziale distruttivo insito in tutti noi non autorizza un fatalismo di comodo che si alimenta di una visione “negativa” dell’essere umano: “Non c’è niente da fare: tanto è così”. Al contrario, essa potrebbe o dovrebbe costituire ragione tale da indurre gli esseri umani e le società che essi costruiscono a sorvegliarsi rispetto a ciò che non riesce a essere addomesticato, al residuo distruttivo che genera le condizioni e le immagini da cui sono partita. In tali condizioni estreme le forze distruttive, nella forma del versante violento e cieco (in questo, del tutto pulsionale) della legge, sono al lavoro, legittimate dallo stato di eccezione che sospende il diritto. Nelle medesime condizioni estreme emerge l’essere umano in quanto nudavita. Vita privata dei diritti elementari, infinitamente esposta al potere politico, inconsciamente considerata uccidibile e dunque in fondo già morta, alienabile come quella di homosacer.

 

Sarebbero i migranti, dunque, le attuali figure della nuda vita (ogni epoca ha le sue), vita che, sebbene necessarie al potere politico, non valgono niente. Anzi, è proprio la loro sempre possibile esclusione dal diritto a renderle necessarie. La nuda vita è dunque caratterizzata da una condizione di assoluta esposizione al potere dell’Altro. Essa ci riconduce a quella che Freud aveva definito a più riprese condizione di derelizione (hilflosigkeit), un registro psichico per il quale il soggetto sperimenta un abbandono assoluto, un essere de-relitto che non prevede alcun aiuto da parte dell’Altro. Esso è pura angoscia, se l’angoscia è il sentimento estremo. L’origine è da ricercarsi evidentemente nella condizione di non compiuta maturazione nella quale il piccolo umano si affaccia al mondo, a differenza dei cuccioli non umani: un puledro galoppa dopo poche ore di vita, un piccolo di gatto o di cane esplora da subito l’ambiente in cui si trova anche se è semicieco. Questo registro psichico si mantiene (se non crediamo troppo a una presunta “definitiva maturazione”) nell’essere umano adulto come impronta incancellabile, come possibilità sempre riattualizzabile.

 

Lacan si spingerà a considerarla la condizione umana per definizione. Credo che questa sia un’iperbole lacaniana, penso tuttavia che la derelizione sia lì, sempre pronta a ripresentarsi e a gettare l’essere umano nello stato psichico originario. Lì dove, dal mio punto di vista, emerge la nuda vita, nostra e dell’Altro. L’assoluta esposizione all’Altro tocca una corda etica, ci interpella, ci chiama a fare i conti con ciò che è più scomodo e spesso insopportabile persino da vedere, come le immagini degli africani nei centri di accoglienza, abbandonati sui pavimenti spogli. La vista di quell’abbandono mina le nostre presunte sicurezze, la maîtrise, i confini tra noi e loro, e ci entra nella carne per ricordarci che loro siamo noi, che la derelizione e l’esposizione al potere e all’arbitrarietà dell’Altro non sono scampati per sempre. Essi sono sempre pronti a rispuntare, a ribaltare i rapporti, la nuda vita in quanto registro dell’essere ci ricorda l’estrema precarietà in cui l’essere umano si muove. Riuscire ad averne contezza, anziché rigettarla o collocarla illusoriamente sull’Altro, è di per sé difficile perché prevede l’emancipazione dall’idea di una condizione umana garantita una volta per tutte, ma potrebbe giocare una funzione nel laborioso e infinito lavoro (v. Nancy) di costruzione di legami sociali un po’ meno barbari. 

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Schumann in manicomio

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Incipit “Nel 1845, il dottor Richarz elabora una terapia per la cura della psicosi-schizofrenica basata sull’isolamento.” (da Alessandro Zignani, Il richiamo dell’angelo. Cinque pezzi fantastici sulla follia di Robert Schumann, p. 7)

 

Come raccontare la storia della follia di Schumann? Un importante contributo arriva dalla pubblicazione italiana delle lettere tra la moglie Clara e Robert (1854-1856) e dalla memoria di Clara. Clara Schumann (1819-1896), notissima concertista, che sopravvivrà di cinquant’anni al marito, scrive di quei momenti:

Sabato, il 4 arrivò! Oh Dio, la carrozza era di fronte alla nostra porta. Robert si vestì con molta fretta, entrò nella carrozza con Hasenclever (il medico) e i suoi due infermieri, non chiese di me, né dei bambini, e io me ne stavo seduta vicino alla signorina Leser immobile dal dolore e pensavo, ora soccomberò! Il tempo era splendido, almeno il sole l’ha accompagnato! Avevo consegnato al dottor Hasenclever un bouquet di fiori per lui, che poi gli diede in viaggio; l’ha tenuto a lungo in mano, senza pensarci, poi d’improvviso ne ha annusato il profumo e sorridendo ha stretto la mano al dottor Hasenclever! Più tardi ha regalato a ciascuno nella carrozza un fiore. Hasenclever mi portò il suo – con il cuore sanguinante, l’ho conservato! (p.35)

 

Il testo, Lettere da Endenich, curato da Filippo Tuena, tradotto da Anna Costalonga – per le edizioni ITALOSVEVO di Trieste – raccoglie gli epistolari  e altri documenti relativi a Schumann prima della morte presso il manicomio di Endenich, dove fu ricoverato e dove morì dopo due anni di internamento, all’età di quarantasei anni. 

Le parole di Clara raccontano con precisione l’evento della partenza di Robert per il manicomio. Il medico che accompagna Schumann le riferisce gli eventi del viaggio, lei esprime il dolore che prova. Ma la tenerezza dello sguardo verso il marito lenisce la pena. Lui “non chiese” di lei e dei bambini, ma, durante il viaggio, stringe il bouquet, lo annusa e regala a ciascuno un fiore. Il medico, al rientro darà a Clara il fiore di Robert, lei lo conserverà con il cuore sanguinante. 

 

Fino a quando la psichiatria e la psicologia sono state considerate scienze “esatte”, i biografi davano per scontato il verbo scientifico, la diagnosi psichiatrica era come il calcolo dei cementi armati per l’ingegneria. La “dementia praecox”, poi ribattezzata “schizofrenia” era un dato, non una valutazione discutibile. Unico paziente che, a fine Ottocento, era riuscito a ottenere il proprio riscatto, riacquistando  diritti civili e cittadinanza, fu Daniel Paul Schreber (1842-1911); malato di nervi – come si autodefinisce attraverso le sue memorie – ma fine giurista, che riscatta la sua posizione di cittadino. 

Bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento perché qualcosa cambi nel mondo della salute mentale. Qualcuno si accorge che il manicomio, anziché “curare i malati di mente”, produce malattie mentali e riduce la speranza di vita delle persone rinchiuse. Ancora dobbiamo riabilitare molte figure di intellettuali, artisti e scienziati finiti in manicomio. La figlia di James Joyce, Lucia (1907-1982) morta dopo 48 anni di ritiro manicomiale, la scultrice Camille Claudel (1864-1943), il matematico Georg Cantor (1845-1918) e molte, molte altre persone. 

 

Come mai una persona mite, taciturna come Schumann viene ricoverata? Bastano i suoi incerti tentativi di suicidio? Franz Richarz, lo psichiatra che internò Schumann, era un “degenerazionista”, uno di quegli scienziati sicuri che l’arte e la cultura siano fenomeni degenerativi. Conosciamo bene la teoria biologica della degenerazione, sappiamo da quali teorie creazioniste deriva e a quale mondo totalitario approda. La scienza degenerazionista si basa sulla teoria che gli artisti e gli uomini di genio siano destinati alla follia. 

A differenza di Lucia Joyce e Camille Claudel, che sopravvivono al manicomio per oltre quarant’anni, a differenza di Schreber, Antonin Artaud (1896-1948) e Luis Wolfson (1931), che incontrano strategie creative per sottrarvisi, Schumann dura poco, muore dopo due anni d’internamento. Non è l’unico, il manicomio uccide in vari modi, produce catatonie, aumenta i tentativi di suicidio, è crogiolo di infezioni, è universo concentrazionario e violento. Il manicomio riduce la speranza di vita dei pazienti. In questo senso, la vera storia della follia di Robert Schumann è raccontata da Peter Oswald (1928-1996) in Schumann, Music and Madness e in alcune pagine della Storia sociale della psichiatria di Roy Porter (1946-2002).

 

 

Vera storia perché smaschera l’ipocrisia di chi vede il soggetto patologico rinchiuso dentro le macerie del proprio Ego, come se queste macerie fossero espressione della mancata identità del soggetto. Considerazioni vuote, al di fuori di ogni contesto sociale e culturale, come se la follia fosse un fenomeno di fatiscenza dissociato e indipendente dalla relazione con l’altro. Schumann soggetto distrutto? Basta ascoltare poche note del suo monumentale lavoro di composizione per dire: no! L’uomo che ha scritto questa musica ha una forza espressiva grandiosa, non può essere una persona distrutta, semmai appartiene a una specie che deve ancora venire, come avrebbero sostenuto Frederich William Myers (1843-1901) e Friedrich Nietzsche (1844-1900). Schumann dunque diventa soggetto collettivo, creatore, nonostante il divieto, imposto a familiari e amici, di vederlo, nonostante l’isolamento, le repressioni e le interdizioni del regime manicomiale, questa la crudeltà psichiatrica.

La confusione psichiatrica a cavallo tra i due secoli è disarmante. Neurosifilide? Molti storici della medicina hanno rilevato che un gran numero di persone, a cavallo tra i secoli Diciannove e Venti, altro non avevano che una delle possibili conseguenze della sifilide. La “dementia praecox” e una serie di malattie neurologiche, a quell’epoca, si confondevano in un unico insieme poco distinto: Parkinson, Alzheimer, pellagra, lesioni focali e altre forme neurologiche. I discorsi psichiatrici erano (e spesso sono ancora) confusi, generici, poco medici. Nei tentativi di scimmiottare la medicina, psichiatri e psicologi spesso non si accorgono di avere a che fare con un soggetto intero, competente riguardo alla propria vita, tutti presi dal furore diagnostico. 

 

I discorsi psichiatrici dell’epoca, ma anche quelli contemporanei, ci appaiono confusi e contraddittori per una disciplina che pretende di essere riconosciuta come scientifica. Se considerassimo il delirio psichiatrico come parte di un sistema delirante complessivo, ci troveremmo di fronte a una sorta di ripetizione generale e generica del delirio dei folli: demenza, idiozia, mania, imbecillità, cretinismo sono sempre stati termini a cavallo tra diagnosi e insulto. Una descrizione completa di questo fenomeno “scientifico” si trova nel libro di Mary Boyle (1949) Schizofrenia, un delirio scientifico, uscito nel 1994 per Astrolabio.

Schumann non aveva alcun deterioramento mentale, aveva attraversato un periodo di confusione, che stava superando. Pochi anni prima era capitato a un altro grande esponente del Romanticismo, Friedrich Hölderlin (1770-1843), che aveva trovato il suo doppio Reale nel nome di Scardanelli. Hölderlin produce la sua poetica migliore nei momenti più acuti della schizofrenia, come sostiene Roman Jakobson (1896-1982).

 

Ciò che inquieta, in chi ode le voci, è il ritiro dalla relazione con gli altri in carne ed ossa, che stanno intorno al soggetto, il suo volgersi a un altro fantasmatico, a una identità inesistente, a un doppio. Accede anche a noi durante il sonno, quando si sogna, tuttavia questo è proprio il momento della creazione. Individuare una voce nell’indistinto della “cosa in sé” costituisce ciò che Louis Sass (1949) ha definito “apofania”, un gesto tutt’altro che irriflessivo, un gesto iper-riflessivo, conseguente a un’esperienza di frammentazione che ricompone i frammenti in forme impreviste. È forse questo che perturba l’altro: “non sei più tu”, la tua identità è sfumata, come fossi “posseduto da un demone”.

Oggi Schumann sarebbe, oltre che un grande musicista, un uditore di voci. Il suo percorso di individuazione delle voci è terapeutico; Luigi Boscolo aiutava i pazienti che sentivano voci confuse e non bene individuate ad ascoltarle meglio, per individuarle, distinguerle, renderle singolari. Nel far questo, le voci diventano diplofonie, triplofonie, polifonie. Ciascuna delle melodie vocali assume un timbro e un carattere che segnano la differenza e la relazione tra loro e il soggetto uditore.  Questa transizione dagli acufeni, ai rumori, all’indistinzione delle voci, Schumann l’aveva compiuta da sé. Florestano, la voce di un doppio ottimista, ed Eusebio, la voce del suo doppio femminile, gli dettano alcune delle composizioni, come l’Ouverture del Manfred o la Sinfonia di primavera

 

Non c’è dubbio che le voci di Schumann lo spingano verso la creazione di nuove composizioni, tra le più felici. Non c’è dubbio che lo portino nel panico della perdita del principium individuationis, il dionisiaco, di cui scriverà, una generazione dopo, un suo conterraneo. Nessuno però si accorge di come queste dimensioni della sua “dementia praecox” in realtà siano l’espressione più alta dell’attività artistica del musicista. La scienza degenerazionista dell’epoca, quella scienza che parla di ciò che poi verrà chiamata schizofrenia, quella scienza che è assolutamente sicura che la follia sia un fenomeno degenerativo, decide che i pazienti, per la loro cura, vanno isolati e trattati come soggetti che marciscono in manicomio. L’Ego diventa fatiscente, si decompone, si riduce a frammenti, ma accade quando è in manicomio, accade quando viene legato, quando le relazioni con familiari e amici vengono precluse; accade quando all’Ego viene “forclusa” (per usare i termini lacaniani) la relazione con l’altro, ma non è il soggetto a essere “forcluso”, è l’istituzione che lo forclude, non è lui che abdica alla responsabilità, è il contesto totalitario che gliela toglie, anche sul piano giuridico.

 

Schumann soffriva forse di acufeni (rumori uditivi fastidiosi) che possono trasformarsi in vere e proprie voci. Schuman aveva momenti di afasia. I suoi sintomi potrebbero avere avuto molteplici origini di ordine acustico o neurologico, temporanei o definitivi. Qui si tratta di valutare sintomi medici. Ma se Schumann ha cercato di combinare “strutture musicali non compatibili”, ciò è ben altra cosa. Le sue esplorazioni compositive, hanno anticipato il futuro della musica contemporanea. Se aveva problemi di ordine medico, avrebbe dovuto esser curato in medicina, se aveva problemi di ordine psicologico, avrebbe dovuto trovare accoglienza e ospitalità terapeutica. In questi casi è bene ribadire: tertium non datur.

Solo chi ha il coraggio di immergersi nelle perturbazioni della vita, chi entra nell’ignoto, chi soffre nell’attraversare la vita può creare. Schumann creò meravigliosi deliri musicali. Degenerato, ergo progenerato.

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Viaggio in Italia: 1200 km di bellezza

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Italo Moscati è intervenuto al Collegio Ghislieri di Pavia, nel seminario internazionale dal titolo Percorsi della memoria. Immagini, idee, linguaggi, che conclude l'edizione 2017 dei Seminari Ghisleriani di Psicoanalisi Apriamo (con) un libro. Parliamone con un film. Il seminario, che ne ha visto tra gli altri la partecipazione di Remo Bodei, ha proposto la proiezione del suo film 1200 km di bellezza, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà: un coinvolgente spaccato di Italia che si presenta come un vero e proprio archivio della memoria nazionale ma che è anche allo stesso tempo un documento di protesta e di denuncia.

(Lucia Zaietta)

 

Moscati, lei definisce questo suo film un "GRAND TOUR". Un'espressione che suggerisce viaggio, meraviglia, tanta bellezza in poco tempo: è di questo che parliamo?

 

Il film è un “Grande Viaggio” speciale, ricostruito con pazienza; è un racconto ispirato al “Grand Tour” fatto da nobili, ricchi signori, filosofi, scrittori, artisti, diplomatici, turisti famosi, che si è svolto lungo tre secoli dal Seicento alla fine dell’Ottocento. Qualcosa di estremo interesse. Materiali di documentazione fatta di racconti, lettere, testimonianze, diari. Quando ho proposto a IstitutoLuce-Cinecittà, diretto da Roberto Cicutto, avevo fatto sempre per il Luce sedici dvd su una cronologia storica dell’Italia dai primi del Novecento. Lavorandoci avevo scoperto che, al di là delle immagini senza sonoro e poi con il sonoro, c’era il Paese dei mari, delle campagne, dei monti, degli “italiani” dell’Italia Unita, una intensa storia visiva. Ho pensato che potesse essere qualcosa di nuovo da scegliere e selezionare per recuperare scene reali, quindi l’Italia che solo gli abbienti avevano visto e raccontato. Ma non poteva bastare. Le immagini nuove, frutto del primo cinema del Novecento (nascita da cinque anni, 1895), erano un’altra cosa dagli acquarelli, dai disegni, pitture creati dai viaggiatori del Grand Tour e dai loro accompagnatori. Era solo una premessa rispetto al lavoro delle cineprese che era iniziato e stava crescendo da quando il Luce, creato dal fascismo nel 1924, cominciò a occuparsi di documenti educativi, diventando subito il luogo delle produzioni del Cinegiornali Luce: notiziari, informazione controllata dal regime. Mentre nascevano, uno dopo l’altro, nei campi della periferia romana, ancora campagna, Cinecittà nel 1936, il Centro sperimentale e la Cineteca Nazionale.

 

Migliaia e migliaia di metri di pellicola. Scoprii che i notiziari includevano immagini molto ben girate che facevano da fondali, riprese da bravi operatori. Ecco lo spunto per prendere questi fondali, questi scenari di campagna, paesi, città con reperti del passato, costruzioni antiche, monumenti; volti di persone non solo delle città. Ho quindi selezionato immagini e sonori, ho girato riprese originali con tecniche moderne, il colore, l’HD, droni; allo scopo di cambiare spazi e profondità, inserire in un nuovo racconto una lunga storia, la storia della bellezza nel nostro Paese, mostrando come si è salvata ma anche come è stata aggredita, di un Paese che cambiava velocemente, a volte troppo velocemente, un Paese che continua a resistere a fatica. È in corso un ripensamento dopo anni di distruzioni (la seconda guerra mondiale), di trascuratezza e di abbandono. Il film, “1200 KM DI BELLEZZA” illumina un secolo e la storia che cambia. Il vecchio “Grand Tour” era un diario scritto da Goethe, Stendhal, Nietzsche e da tanti altri che parlavano di Eden e di Paradiso Perduto, anche se c’era una miseria spesso atroce. Il film narra e ragiona sui cambiamenti: un amore, una voglia di Bellezza dalle molte facce. Ecco il senso di citare il vecchio “GRAND TOUR” come confronto colmo di emozioni e di sentimenti, per proteggere l’Italia di oggi e di domani. Viaggi ancora bellissimi, con un pathos che non poteva, non può essere quello di illustri signori dei secoli scorsi.

 

I ricordi, nella nostra mente, ce li immaginiamo come video sequenze. Come pellicole. Scene dal nostro passato, che hanno un contenuto di insegnamento e un contenuto emotivo. C'è qualcosa di simile in questo suo film?

 

Il film è fatto di pellicola e di nastri elettronici (il materiale di oggi). Il mio lavoro è stato soprattutto quello di comporre con pazienza, anche e soprattutto col montaggio, qualcosa di nuovo servendosi di un confronto incalzante e continuo tra presente e passato, mostrando il passato, lasciando a Goethe e agli altri viaggiatori il compito di aiutarmi come se fossero “inviati speciali” in viaggio nel tempo. Ho scelto frasi che fossero concrete, ad esempio con Guy de Maupassant che descriveva la Napoli di metà Ottocento già aggredita dalla “monnezza” come è capitato nei nostri anni. Ma ricordare anche la Napoli amata, bella, romantica, chiassosa e allegra. Quindi emozioni che oscillano speditamente, scorrono nel tempo e ci raggiugono suscitando molte reazioni. Emozioni e ragionamenti. Mai immagini e parole abbandonate a se stesse, visioni utili per raccogliere attraverso una sorpresa dopo l’altra una forma di conoscenza. Il mio testo, discreto e suadente, deciso, polemico quando era giusto di fronte alle distruzioni per volgarità e incuria, è al servizio di situazioni da “storicizzare”, lasciando al pubblico la possibilità di una reazione non imposta ma offerta come documento non sterilizzato nella cronaca. Una memoria da costruire insieme. Alla ricerca di identità diverse, in divenire, dai primi del Novecento a oggi. L’adesione del pubblico l’ho percepita nettamente, come se esso stesso sentisse il bisogno a fare i conti con un Paese che sta facendo bilanci difficili e che sforza di andare oltre. E, senza sognare, confermare questa esigenza vitale.

 

Ancora sulla memoria: in che senso questo è un film per il presente?

 

Il film è tutto sul presente, basato su quel che ho scoperto nei poderosi archivi del Luce, in cui ho lavorato per anni, imparando che l’uso dei documenti nel cinema è delicatissimo. Troppo spesso i documenti sono sottoposti a stesure di torrenziali copioni che inventano commenti inappropriati, badando poco alle immagini (sempre da rispettare) e le soffocano con scritture che tendono a sottovalutarle o addirittura a travolgerle. Ho notato che nelle molte proiezioni gli spettatori apprezzano nel film la semplicità, il modo diretto di proporle, il “bisogno” di capire. Gli spettatori più diversi gradiscono testi brevi, chiari, rapidi, non amano le immagini che facciano da “tappezzeria”, sanno ormai molto bene che sono “sprecate” come avviene in televisione. Il cinema non spreca, inventa. La televisione è un finto “presente” che condanna le immagini, i montaggi e i sonori a una quotidiana e abitudinaria livellazione. Le immagini e le parole, i documenti, muoiono; vanno invece rigenerati da uno sguardo più acuto, capace di scegliere e di mostrare con il gusto della curiosità e della scoperta. Quelle del film “1200 KM DI BELLEZZA” sembrano nuove, nel contatto con le immagini e i montaggi nuovi. La proposta quindi è doppia: il romanticismo di visitatori che erano letterati e filosofi, la loro acutezza e i loro sentimenti, si intrecciano con gli sguardi inquieti e interrogativi della modernità. Modelli di ieri e di oggi che s’intrecciano svelando prospettive inedite, scoprendo le differenze, sollecitando il dramma dei racconti della storia, della cultura e dell’arte. Uno spettacolo all’altezza delle esigenze di chi vuol conoscere, sapere, oltre che godere la potenza dei viaggi.

 

 

"E sì che l'Italia sembrava un sogno / steso per lungo ad asciugare / sembrava una donna fin troppo bella / che stesse lì per farsi amare" (Ivano Fossati, Pane e coraggio - Lampo Viaggiatore, 2003). Il suo viaggio in Italia è da sud a nord: perché questa scelta? Cambia lo sguardo sulla Penisola, ripercorrendo le rotte dei migranti?

 

Sì, “una donna fin troppo bella/ che stesse lì per farsi amare”, come canta Fossati. Ma il mio film non canta o fa cantare, soltanto; fa ridere e piangere, commuove e irrita, cerca vie diverse, legate ai fatti, fatti spesso inconcepibili. Il vecchio, caro Grand Tour partiva del Nord perché i ricchi visitatori venivano dall’Europa potente e ricca. Il mio Grande Viaggio comincia dal Sud e va verso le Alpi perché il mondo e i percorsi sono cambiati. Gente africana, e non solo, immigrati dai continenti del Sud immenso, approdano, se approdano, nella lingua di terra italiana, e non solo italiana. Cosa cercano? Ieri gli italiani che partivano per cercare risorse di vita andavano in scassati bastimenti verso gli Stati Uniti e la Statua della Libertà, tra sogni e sofferenze. Oggi popoli smarriti cercano nei barconi e a nuoto una terra che scivola via e guarda interdetta a destini spesso senza speranza, con poche o nessuna statua delle libertà. Da qui parte il mio film e rovescia l’ottimismo, il romanticismo del Grand Tour dei signori e dei colti.

 

Qual è la frase di Vittorio Sereni a cui si ispira il titolo del film? Per Sereni, prigioniero in tempo di guerra, la memoria è sofferenza, ma anche testimonianza e impegno civile. Si riconosce in questa impostazione?

 

Ho citato Sereni perché ha scritto qualcosa sul nostro Paese, una riflessione sul tema della “bellezza”. L’ho trovata nel primo verso di una sua poesia intitolata “Il sonno”, eccolo: “L’Italia, una sterminata domenica…”; in cui descrive una Milano immaginata nella seconda metà degli anni Cinquanta, in una domenica quasi estiva e “sterminata” di bellezza, di silenzi e di serenità. Però con tanti rimorsi per quello che poteva essere l’Italia dopo la Resistenza e non è stato. Quello che poteva essere l’Italia, dopo la Resistenza… Non una nostalgia per ciò che non è accaduto ma per una “sterminata” bellezza capace di uscire dalle pigrizie dolci della domenica, capace di diventare smagliante in un Paese libero dalla dittatura e dalle guerre, dall’inefficacia nelle scelte civili, tra cui l’ambiente, la vita da vivere. Ecco il senso del film. Uno sterminato viaggio nel tempo per vedere, tra gli anni della speranza e gli anni delle delusioni, le rappresentazioni del Paese e degli italiani, entrambi molto amati ma anche delusi, in attesa continua, tra entusiasmo e delusioni. Appunto: i ricordi come forme di impegno civile, in uno scenario molto cambiato, molto compromesso per inerzie, incapacità, mancanza di reagire.

 

Ci sono molte voci nel film, e molte lingue: si tratta di voler cambiare angolo visuale, oppure c'è un motivo?

 

Le voci sono molte, ci sono molte lingue, ma soprattutto c’è la nostra lingua. C’è quella del racconto da me scritto che include i ricordi e le espressioni dei grandi viaggiatori. Ad esempio, le parole di Stendhal che sta per lasciare l’Italia del Lago di Garda e dice che “che si va verso il brutto”, ovvero il Centro e il Nord Europa dove la bellezza è meno forte, vibrante, concreta, non come in Italia dove la bellezza è spesso trionfante, esplicita, tenerissima nelle campagne e nell’arte, carica di provocazioni nostalgiche, seducenti. Voci di viaggiatori come Maupassant per Napoli, come abbiamo visto, o come Goethe, incantato da Roma ma anche di fronte a una città che lo conquista e lo spaventa. Nel film, il tessuto dell’elogio e dei miracoli della bellezza dell’Eden o del Paradiso Perduto, come ripetono i grandi viaggiatori, entra nelle lingue e vi si confonde nella spettacolarità, quando l’arte e la natura portano a linguaggi alti, esplosione di utopie e sogni ad occhi aperti. È stato facile contrapporvi altri “spettacoli”, citando le lingue dei contadini e delle persone che hanno spesso creato la bellezza (negli ambienti, nei territori con il lavoro per una grande bellezza diffusa), ricordandone il suono, il gusto della spontaneità, la cura nelle cose semplici; con brevi citazioni o personificazioni tratte da rapidi documenti filmati o film in cui si affacciano dialetti e voci popolari. 

 

C'è tanta bellezza, in questa Italia della memoria: intendendo per bello ciò che ha valore, ciò che commuove, ciò che insegna. Che cosa invece è "brutto" per lei, in termini assoluti? C'è qualcosa che, per l'occhio del regista, veramente non vale la pena di far vedere, in un film?

 

Tutto vale la pena di vedere e far vedere. Il bello e il brutto nel cinema, e non solo nel cinema, sono i “materiali” con cui lavorare per creare un necessario rapporto non solo di contrasti, ma per capire suggerimenti, idee, contenuti, proteste, denunce. Non si può prescinderne. Nel mio film accade. Basta ricordare con una immagine gli effetti delle diverse forme di distruzione negli ambienti violati ed ecco emergere subito un terribile vuoto, un desolante spettacolo. Ecco che con poco si crea un vuoto che diventa “il” discorso, ovvero il mezzo per stabilire la storia e le storie che il nostro Paese offre a piene mani ai nostri occhi. Le città e i panorami contrastanti sono drammatici, tra violenza e incuria; in molte città e soprattutto nelle periferie o nei paesi abbandonati a un’incuria inarrestabile. Il “brutto” si vede forse più del “bello”, in Italia e nel mondo, a causa della pianificazione spesso invisibile e continua, nelle distruzioni non solo del gusto ma dell’ambiente in cui viviamo. Lo scrive James Hillman che addirittura osserva che ci siamo abituati, anche noi, al “brutto” e non ce ne liberiamo. “1200 KM DI BELLEZZA” è costellato da scene di questo tema. Il tema dello spregio del “bello” soffocato dal “brutto” sistematico. Nel film ci sono riprese girate appositamente in luoghi come L’Aquila in cui i terremoti hanno lasciato impronte drammatiche: una bella e grande città ingabbiata dai tubi innocenti, tubi colpevoli di ricordare troppo a lungo dolori e sofferenze. Gabbie che ci sono, ma che spesso non vediamo. Liberare la bellezza, ecco lo scopo del film.

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La gloria di Giuseppe Berto e il trauma del tradimento

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Nel suo romanzo più conosciuto e fortunato, titolato Il male oscuro, pubblicato nel 1964, Giuseppe Berto, scrittore scomodo e scontroso, pone al centro della scena della sua tormentata autobiografia psicoanalitica, come si legge sin dalle prime righe, la sua “lunga lotta con il padre”. Un padre esigente e padronale, espressione di una Legge sacrificale e inflessibile, schiaccia il figlio sotto il peso di una colpa antica: quella di non aver mai corrisposto alle sue attese, di essere stato una delusione cocente, un figlio deludente. Il corteo di sintomi che invade il corpo del soggetto traduce questa sentenza paterna in sofferenza: infiammazioni delle vertebre, disturbi gastrico-intestinali di ogni genere, nausea, angoscia, depressione, emicranie pervicaci. Questa colpa è destinata a dilatarsi smisuratamente quando il figlio, diventato ormai un uomo adulto, abbandona il padre ammalato di un tumore allo stomaco (“tremenda montagna di morte”) e in preda ad atroci dolori che lo condurranno presto alla morte.

 

Diversamente dal mito di Enea, qui il figlio non solo non soccorre il padre morente, ma latita, si rende assente, pensa solo a se stesso. Di fronte all’odore acre della morte che sta per sopraggiungere e colpire il padre tanto amato quanto temuto, il figlio sceglie la via della fuga. In primo piano è qui una scena di tradimento che costituisce il cuore di Il male oscuro. Anchise è abbandonato al suo destino mortale, è lasciato cadere a terra. Il padre non è più il tiranno che delude l’amore infantile e idealizzato del figlio abbandonandolo senza alcuna cura alla sua insufficienza. Questo padre morente appare ora nella sua castrazione reale. Adesso è il figlio che abbandona il padre nel momento più grave. E non è affatto casuale che sia proprio da questa drammatica scena di tradimento che sembra ricominciare l’ultima opera di Berto, La gloria, pubblicata nel 1978, l’anno della sua morte, al cui centro c’è una rilettura visionaria della figura di Giuda, il discepolo che tradisce Gesù – il suo Rabbi –, consegnandolo cinicamente al supplizio della croce. Come non vedere qui dipanarsi una prima fondamentale identificazione? Berto non è forse Giuda, il figlio che tradisce il proprio padre? Non è forse Giuda il discepolo che, anziché accompagnare fedelmente il maestro al suo destino cruento, lo abbandona cospirando attivamente per la sua morte? Non è lui il discepolo che riconosce sì il maestro, ma solo per consegnarlo ai suoi carnefici? 

Il Giuda di Berto guarda sempre Gesù con sospetto. Nel suo sguardo ritroviamo quello del bambino di fronte alla sagoma pesante del padre.

 

Ph Aaron Siskind.

 

Il dubbio lo attanaglia, lo frusta, lo domina: è davvero il figlio di Dio o è solamente un orribile mentitore? La promessa della vita eterna è una grazia autentica o una semplice impostura? Questo Giuda, come il protagonista del Male oscuro, è una figura umanissima del tormento. Innanzitutto il suo dubbio inquieto corrode il mistero della fede: non esiste fede capace di fare esistere una Verità assoluta, priva di incertezze e tentennamenti. Nessuna ideologia può risparmiarci il tarlo laico del dubbio. È il dramma che attraversa anche Young Pope di Sorrentino nel cuore stesso della cristianità. “Cos’è Dio? Dov’è Dio? Chi è Dio?”, si chiede con struggimento Lenny Belardo. “Dove è l’Eterno, c’è davvero un Eterno o c’è solo un infinito vuoto?...”, si chiede il Giuda di Berto. Ma, per entrambi, Dio non risponde, Dio tace. È il dramma profondo che attraversa anche il recente Silence di Scorsese: Dio invocato dalla preghiera e dalla fede più tenace, resta nel più assoluto silenzio. “L’Eterno – dichiara il Giuda di Berto – non può che insistere che nel suo smisurato silenzio…”. Il suo tormento dubbioso incenerisce il rapporto che unisce il figlio al padre. La domanda su Dio, in fondo, come ha spiegato Freud, almeno per un verso, non è altro che il rinnovamento della domanda originaria sul padre. Chi è un padre? Cos’è un padre? Dov’è un padre? Qual è la verità della sua Legge? Ecco le domande che dal Male oscuro discendono – martellanti – sino a La gloria

 

Nello sguardo di ogni bambino, come scriveva freudianamente Berto nell’opera del ‘64, “il padre era stato una divinità onnipotente e lontana e in seguito diviene un poveraccio che mi rompeva l’anima con le sue pretese”. Nell’ultimo e testamentario romanzo questo disincanto ritorna intatto attraverso Giuda travolgendo la figura di Gesù. Anche Giuda, come il bambino che giocava teneramente sulle gambe del suo adorato papà, viene in un primo tempo catturato dal carisma di Gesù. È il tempo dell’idealizzazione: “aveva qualcosa che partiva più lontano di lui e arrivava più lontano di noi”. La devozione del discepolo maledetto a Cristo è però solo una prima faccia – quella non ostile – del complesso edipico che anima l’amore infantile per il padre. Si tratta di un amore assoluto, che non si risparmia: “m’ero offerto di morire per Te, in qualsiasi momento Tu me l’avessi chiesto avrei mantenuto, spesso sognavo che me lo chiedessi all’istante per provarTi la mia dedizione…”. Eppure – ed ecco apparire la seconda faccia, quella aspramente negativa, della medaglia dell’Edipo – Giuda non può resistere alle insinuazioni del dubbio. E se fosse un narcisista, qualcuno che pensa più alla propria luce che a quella del mondo? Se i suoi prodigi non fossero altro che trucchi? Se fosse solo un uomo come tutti noi?

 

Agli occhi di questo Giuda dilaniato anche la resurrezione di Lazzaro “fu una ponderata, fredda, scenografica ciurmeria”. Se, dunque, Gesù non rilascia quei segni che il discepolo ricerca ansiosamente, segni che scongiurerebbero il terrore della vacuità del mondo, se – come accade al più contemporaneo ma non meno tragico Young Pope – la domanda “dov’è Dio, dov’è l’Eterno?” resta senza risposta, allora è meglio morire che vivere. È la seconda grande identificazione, quella finale e più perturbante. Non più quella che lega Berto a Giuda nell’amore risentito verso il padre-maestro, ma quella che unisce Giuda e Gesù: il figlio della perdizione, il figlio colpevole, non è, in fondo, affatto diverso dal suo maestro. Questo è il punto estremo verso il quale si spinge Berto. Gesù è davvero differente da Giuda? Se invece non fossero che due teste di una sola persona? Non è questo che definisce la condizione umana? Essere, insieme, il tradito e il traditore, l’innocente e il colpevole, l’assassinato e l’assassino. “Morimmo alla stessa ora, Tu crocifisso sul Golgota, io poco lontano, impiccandomi, dicono, a un albero di fico”. Non la luce di Gesù – il salvatore – contrapposta gnosticamente alle tenebre di Giuda – il traditore. Piuttosto una convergenza abissale, una comunione disperata. È la scoperta traumatica di Berto scrittore e uomo: il Nome del padre contiene un destino.

 

I figli sono assai più simili a quel “peggio” che tendono invece ad attribuire unilateralmente ai loro padri. Il loro giudizio sprezzante verso i padri rivela la loro identità coi padri. Più l’odio interviene a dissolvere il legame più il legame si rafforza. È quella stessa mimesi sorprendente che colpisce lo scrittore nelle pagine finali del Male oscuro. Il figlio ormai anziano, separato dalla moglie e lontano da sua figlia, senza più nessuno al suo fianco, si accorge di assomigliare nel corpo e nello spirito al padre odiato: la stessa calvizie, la stessa melanconia, lo stesso sentimento di isolamento. Una mimesi che ritroviamo intatta anche nel finale di La gloria che non a caso è il finale, dal carattere fatalmente testamentario, di tutta la produzione letteraria di Berto e della sua stessa vita.

 

Il connubio impensabile di Gesù e Giuda ci consegna un enigma. Quale? “Essi vogliono solo morire”, scrive Berto. Anche Gesù, come il bambino del Male oscuro disperato nella solitudine del Collegio che invoca la risposta salvifica del padre imbattendosi però solo in un muro sordo al suo lamento, vive l’esperienza dell’abbandono e della caduta. Ma in Berto questo abbandono si inscrive come una marca indelebile e traumatica che tende alla sua ripetizione ostinata, mentre in Gesù è un passaggio necessario per cogliere il vero senso della Legge che è quello, come direbbe Lacan, di non cedere sul proprio desiderio. È questo il limite (ma anche la forza scabrosa) al quale la narrazione bertiana del Vangelo resta totalmente asservita: riportare Gesù a Giuda significa non riuscire ad accedere all’idea che la Legge del padre non sia fatta per assoggettare sadicamente l’uomo, ma solo per liberarlo dal sadismo di ogni Legge; significa non riuscire a sottrarsi dall’ombra spessa della melanconia del figlio che, secondo il suo Giuda, non a caso affliggerebbe da sempre, come un punto interrogativo, lo sguardo di Gesù.  

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La sapienza del cuore

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"Insegnaci a contare i nostri giorni/e giungeremo alla sapienza del cuore" (Sal 90). Per il salmista la consapevolezza della mortalità e, quindi, della preziosità di ogni giorno vissuto, è la via maestra che porta alla sapienza del cuore, cioè a quella forma di sapere che è saggezza, perché è conoscenza dell'intima natura dell'uomo e del rapporto vitale in cui sta con gli altri e il mondo. Sapienza del cuore vuol dire comprendere che siamo fatti di relazioni alle quali, per il bene di tutti, dobbiamo dedicare attenzioni e cure. Su questo tema negli ultimi tempi sono usciti i tre libri di cui vorrei parlare. Del primo intitolato, appunto, La sapienza del cuore (Raffaello Cortina Editore) è autrice Luigina Mortari, pedagogista impegnata da molti anni in un'importante e innovativa riflessione sul tema della cura. 

 

Si può "vivere per inerzia", afferma all'inizio del libro citando Seneca, ma questo non sarebbe niente più che un conservarsi nel tempo. Vivere significa molto di più: vuol dire realizzare le proprie potenzialità, diventare ciò che possiamo essere o, meglio, ciò che siamo in potenza. Per questo abbiamo bisogno di inserire la nostra vita in un'architettura di senso o, come pensava Viktor Frankl, psicologo e psicanalista che ha elaborato una psicoterapia incentrata appunto sulla ricerca del senso, scoprire il senso, per lui già dato, della nostra vita. In ogni modo, è indispensabile imparare a vivere non a caso, ma consapevoli di ciò che stiamo vivendo, dei sentimenti che ci animano, delle emozioni che proviamo più ancora che delle cose che ci capitano. Essere presenti a se stessi in ogni momento, consci dei pensieri che occupano la mente e dei sentimenti che pervadono il cuore, significa essere padroni di se stessi, fare e dire ciò che veramente si vuole anziché parlare o agire sconsideratamente.

 

Questo rende contenti di sé; lo insegnavano già i filosofi ellenistici e lo ha tradotto in pratica Ignazio di Loyola attraverso gli esercizi con i quali i Gesuiti raggiungono la conoscenza di sé e imparano l'autodisciplina. Forse è per questo che tra loro si trovano personalità forti e miti, mai aggressive, ma determinate e accoglienti come era il cardinale Carlo Martini ed è Papa Jorge Bergoglio. Ma prendersi cura degli affetti– una parola bella e un po' desueta con cui la studiosa indica l'insieme di sentimenti ed emozioni – è una pratica necessaria non soltanto al benessere psicologico e spirituale dell'individuo, ma anche al bene pubblico. Essi, infatti, si traducono sempre in gesti e azioni: i sentimenti positivi in atti buoni, quelli negativi in atti cattivi e dannosi; e citando Martha Nussbaum, ci ricorda che per dare forma a una società buona, bisogna "costruire buoni pensieri" che "sapranno alimentare buone passioni". Il suo discorso ha dunque anche il tono di un appello politico, alla politica intesa come arte della convivenza civile, educazione dei cittadini. 

 

Indagare la vita affettiva risponde alla vocazione originaria della filosofia e si traduce in una vera e propria filosofia dell'esistenza oggi più che mai necessaria. Per quanto, infatti, la cultura odierna tenga in poco conto i sentimenti (al di fuori dei talk show televisivi che se ne nutrono come avvoltoi) essi sono, e sempre saranno, il centro della vita degli individui. Avere cura di sé avendo a cuore anche i propri affetti e non soltanto il benessere fisico, significa quindi "curare l'esistenza", dare significato e sapore alla vita. Citando diversi pensatori tra i quali Simon Weil, Edith Stein e Maria Zambrano, Luigina Mortari conclude soffermandosi sulla sofferenza e sulla difficoltà della mente di elaborare e lasciare andare i vissuti negativi. La sofferenza, afferma, non ha ragione: esiste e basta. Ella non pensa, come insegnavano gli stoici, che si possa evitare il dolore sfuggendo ai desideri e alle passioni, ma che si debba trovare la giusta misura nel sentire per affrontare l'esperienza inevitabile del dolore. Bisogna imparare a stare nella sofferenza, senza cercare vie di fuga e senza chiedere sconti alla vita, perché soltanto il "patire accettato" permette alle esperienze di dolore e di perdita di non trasformarsi in malattia. 

 

 

Mentre Luigina Mortari costruisce una cornice filosofica alla dinamica degli affetti, Isabella Guanzini, filosofa e teologa, si sofferma in particolare su uno di essi, la Tenerezza, che dà titolo al suo ultimo saggio (Ponte alle Grazie). Il mondo occidentale, osserva l'autrice, non ha mai posto tra i suoi valori fondativi la tenerezza; al contrario, si è costruito sugli ideali opposti di virilità, durezza, imperturbabilità, a cui si sono aggiunti i miti odierni di efficienza, decisionalità, velocità. Però, questa "rimozione sistematica della tenerezza reciproca dalla grammatica della vita… crea una insensibilità devastante per la qualità della convivenza…", soprattutto quando, come oggigiorno, manca la forza temperante della spiritualità e di un'etica dell'attenzione per l'altro radicata religiosamente. In tale contesto, proprio la tenerezza potrebbe diventare il motore di una rivoluzione gentile e salvifica.

 

Questo sentimento intenso e ancestrale che "ha preceduto la nascita e resisterà anche alla morte"è considerato una debolezza, una forma di fragilità dell'anima inutile e dannosa al bene pubblico, perché, si dice, impedirebbe di vedere con chiarezza politica cosa è giusto fare per il bene per tutti. Ad esempio, un piccolo profugo ci muove a tenerezza, di solito, per cui ci è difficile rispedirlo indietro, perché il sentimento ottunde la ragione. Ma ne siamo sicuri? Non potrebbe invece essere che proprio guardare le cose con occhi diversi da quelli della sola efficienza, economicità, razionalità sia una via di salvezza per la nostra società sempre più atomistica, spaventata, aggressiva e infelice? Papa Bergoglio, sottolinea Isabella Guanzini, ha sdoganato la tenerezza riportandola là dove doveva essere da sempre: al centro del pensiero cristiano, perché la buona notizia annunciata nel Vangelo è proprio la tenerezza di Dio per ogni essere umano (e non solo). Per contrastare i mali di oggi, ha detto Bergoglio, bisogna immaginare nuove forme e prassi di convivenza ed esperienza fondate su una "tenerezza combattiva e su una nuova poetica delle relazioni", rinunciando a un "cristianesimo monocorde" e alla sua "rigidità autodifensiva" (E.G). Il Dio di cui parla il Vangelo è libero, tenero, senza paura e a lui sarebbe giusto ispirarsi. 

 

Per Isabella Guanzini la metafora perfetta della vita odierna è la città, in cui tutto scorre veloce e improvvisato allo stesso tempo. Ogni abitante della città, specialmente delle più grandi, è colpito ogni momento da innumerevoli stimoli e informazioni, deve affrontare situazioni ed esperienze che lo mettono in uno stato di euforia e di spavento insieme. A tutto questo reagisce con una sorta di riserbo, con una chiusura e un distacco auto-imposto che lo trasformano, come dice l'autrice, in un homme blasé, una persona che non si scuote davanti a nulla, un uomo di mondo che in realtà si nasconde dal mondo dietro a un mezzo sorriso. E si allontana in fretta. D'altra parte, come passare indenni davanti a un povero diavolo che chiede l'elemosina, a un'immagine di guerra, alla notizia di una violenza, o anche a un bel paio di scarpe in vetrina e una donna procace in reggiseno e mutandine che ammicca da un cartellone pubblicitario? Come assorbire, conciliare in se stessi tante emozioni così diverse in una stessa mente che nel frattempo segue anche i propri pensieri, e in un cuore che sta vivendo sue personali situazioni emotive? Tutto è troppo, perciò paralizza, avverte Guanzini. 

 

In queste condizioni, viviamo immersi in una sorta di "malinconia generale, come fosse una radiazione cosmica di fondo", fatta di "depressione ed euforia", una stanchezza infinita che diventa una mancanza di speranza. Un ottundimento inquieto e ipercinetico è la sindrome tipica del nostro tempo efficiente, che scorre, o meglio corre, all'insegna della produttività e della prestazione. Ogni elemento d'orientamento è offuscato, le certezze metafisiche, gli ideali politici e anche le grandi narrazioni simboliche sono tramontati. Orientarsi è sempre più difficile, specialmente per i giovani che sembrano "sbagliati energeticamente: o troppo scatenati, o troppo spenti". Il solo rimedio, la sola cura possibile del male oscuro che in misura diversa si insinua nel cuore e nello spirito di tutti, sta nel rallentare per potere di nuovo prestare attenzione, nell'imparare a pensare in ogni circostanza, soprattutto nelle più ordinarie. La consapevolezza costante di quello che il mondo suscita in noi, è fondamentale per discernere ciò che è buono e trattenerlo, lasciando invece scivolare via le emozioni cattive, che ci fanno male e ci spingono a fare male agli altri. Solo questa è la strada, ben nota a chiunque mastichi un poco di psicologia, verso il bene, la pace interiore e l'armonia tra le persone, come già insegnava più di duemila anni fa Buddha Siddharta ai suoi discepoli.

 

Affine alla tenerezza è la dolcezza, che ad essa predispone perché può nascere soltanto in un animo dolce. Per Beatrice Balsamo, psicanalista di formazione filosofica che le ha dedicato il suo ultimo saggio, Elogio della dolcezza (Edizioni Mimesis), la dolcezza è una delle disposizioni dell'animo migliori e più utili alla società, soprattutto alla nostra che tutte e tre le autrici di cui stiamo parlando ritengono caratterizzata da precarietà, incertezza, confusione e semplificazione. Ma purtroppo è anche tra quelle più trascurate e rare. Della dolcezza, di cui vuole analizzare "le radici umane", Beatrice Balsamo coglie soprattutto il carattere di forza "amalgamante, stemperante, di bene-volenza" che ne è l'essenza e il pregio più grande. Proprio nella dolcezza trova un freno quell'eccesso di stimoli di cui scrive Isabella Guanzini, giacché per sua natura essa esige la giusta misura, altrimenti se è un sapore disgusta, se è un atteggiamento diventa stucchevole. 

 

Evidente e immediato, prosegue la Balsamo, è il legame tra la dolcezza e la madre, che dolcemente rassicura il figlio ma nello stesso tempo gli insegna, negando e regolando le sue pretese, a contenere le pulsioni e i desideri eccessivi senza sentirsi frustrato. In tal modo il bambino impara la propria dipendenza dalle cure altrui e la giusta misura di sé rispetto al mondo in cui è entrato; esperimenta la debolezza di chi è bisognoso, ma nello stesso tempo si forma in lui la fiducia nella benevolenza degli altri. Chi si sente amato e al sicuro, diventa più forte, perché la dolcezza "sa sostenere e reggere" consentendo "l'affidarsi… la gratitudine, la tenuta del legame". E dolci non sono soltanto i cibi, ma anche le parole e gli atteggiamenti, così la dolcezza deve essere intesa come "uno stile, un'estetica dell'esistere", una forza che contrasta la disgregazione dei legami sociali, che addirittura li ripara e li ricrea. E siccome stimola la compassione, la dolcezza, sostiene, è un ingrediente fondamentale della giustizia e anche per questo le va riconosciuto un valore politico. 

 

Da punti di vista e in modi diversi, Luigina Mortari, Isabella Guanzini e Beatrice Balsamo portano avanti uno stesso discorso e i loro contributi si rafforzano e si completano a vicenda. In definitiva il loro è un appello forte, convincente e molto ben argomentato a prendere coscienza dell'importanza dei sentimenti, delle emozioni, degli atteggiamenti nel determinare la qualità della convivenza civile, e ad operare con convinzione e responsabilità affinché si rimettano al centro delle relazioni sociali quei modi e quelle disposizioni dell'animo che, come pensavano gli antichi, non solo rendono migliore la vita personale, ma sono anche vere e proprie qualità pubbliche fondamentali per la costruzione di una società civile e giusta. E chi si sentirebbe di negare che oggi ci sia l'urgente bisogno di una rivoluzione della gentilezza?

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Amore tragico, amore comico

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Gli aforismi sono enunciati a forte densità, che “danno da pensare”. Somigliano a quei fiori giapponesi, che Proust evoca all’inizio della Recherche, e che, quando vengono gettati nell’acqua, si espandono. L’acqua degli aforismi è l’interpretazione.

Un aforisma di Kierkegaard dice: “Se due persone che si amano non si capiscono, è tragico. Se due persone che non si capiscono si amano, è comico”. Questo enunciato non potrebbe forse generare una teoria, e in ogni caso inaugurare una lunga riflessione? Jacques Lacan ha detto più di una volta che l’amore è un sentimento comico. Quest’affermazione va intesa come un’attribuzione delle storie d’amore alla sfera della commedia, cioè a intrecci che si sviluppano sul filo dell’equivoco, e in cui l’attrazione – anche reciproca – si manifesta in forma capovolta, come reciproca antipatia. Il lieto fine rimane visibile sullo sfondo, e si impone solo nel momento in cui il legame tra i protagonisti rischia di venire definitivamente spezzato. Esemplare è la vicenda narrata in un film di Lubitsch, Scrivimi fermo posta (1940), di cui esiste un remake (meno valido) con Tom Hanks e Meg Ryan (C’è posta per te). In Lubitsch la trama è questa: Alfred e Klara lavorano nel medesimo negozio a Budapest, e tra di loro vi è una corrispondenza unicamente epistolare. I due si scrivono, ignorando l’uno l’identità dell’altra, e nel rapporto epistolare si innamorano; nella realtà quotidiana invece si detestano profondamente, litigano continuamente, si insultano. Scopriranno – e questa evidentemente è la comicità della storia – che la persona più odiata e quella più amata sono la stessa persona.

  Non accade forse così in ogni commedia con un plot sentimentale? Prima di confessarsi innamorati l’uno dell’altra, i due protagonisti attraversano una fase in cui si respingono, arrivano a odiarsi e a proclamare la reciproca incompatibilità. Lo spettatore attende con divertita curiosità il momento in cui verranno deposte le armi. Un altro esempio: in Harry, ti presento Sally (1989), è evidente sin dall’inizio che tra i due nascerà un rapporto autentico: eppure i protagonisti si ostinano a differirlo, lo ritengono impossibile persino dopo aver fatto l’amore.

 

Perché questa ostinata resistenza? Qual è esattamente l’ostacolo che soltanto nelle commedie viene, almeno in apparenza, superato? A queste domande dobbiamo aggiungerne un’altra: perché in Occidente le grandi storie d’amore – quelle che ci vengono subito in mente se parliamo dell’amore-passione – sono tragiche? Sembra che queste storie, da Tristano e Isotta a Romeo e Giulietta, ecc., smentiscano la tesi di Lacan. E forse smentiscono (lo vedremo tra poco) anche la sua tesi sul rapporto tra amore e sessualità.

Nel campo enigmatico in cui ci stiamo muovendo, sorge un altro interrogativo: i rapporti sociali sono molto cambiati (oggi non ci sono più, almeno in Occidente, genitori che decidono sul matrimonio dei figli, e la possibilità di divorziare è garantita dalla legge); eppure queste storie non hanno perso nulla del loro fascino. Perché? In un saggio ormai classico, L’amore e l’Occidente di Denis de Rougemont (1938), si sostiene che il vero ostacolo, nel mito di Tristano e Isotta, non consiste nel legame coniugale che vincola Isotta a re Marco, bensì nel desiderio stesso. I due amanti sono innamorati della passione, o meglio del nucleo distruttivo che essa contiene e custodisce. L’impossibilità è la fiamma che alimenta il desiderio, in ciò che esso ha di più bruciante. Ecco perché, quando hanno la possibilità di vivere definitivamente insieme, i due si separano: Tristano restituisce Isotta al re. In un celebre episodio, Marco sorprende gli amanti nella foresta, addormentati, i corpi strettamente vicini, e tuttavia separati dalla spada che Tristano ha piantato nel mezzo. L’unica spiegazione plausibile è di carattere simbolico: c’è qualcosa che continua a dividere gli innamorati anche nella più grande intimità.  

 

Secondo De Rougemont il mito di Tristano e Isotta, che va considerato come fondatore per l’Occidente moderno, istituisce il postulato dell’amore reciproco infelice. Un postulato non arbitrario, non immotivato, se formuliamo questa ipotesi: l’amore – o meglio l’amore-passione, una forza sconosciuta nel mondo greco-romano, e a cui il Cristianesimo ha impresso un’altra forma, che indichiamo come “agape” -, non si appaga del possibile. L’amore è un sentimento “diviso” anche quando è ricambiato, anzi lo è tanto più quando è follemente ricambiato. E la commedia rende timidamente omaggio alla scissione di Eros con i mille ostacoli che inventa, e facendo sì che gli innamorati si ingannino su se stessi, prima di consolarci con l’happy end.

 

Dunque Lacan si è sbagliato, asserendo che l’amore è un sentimento comico? Sì, ma non completamente. Senza dubbio gli si può rimproverare il gusto per l’enunciazione ellittica, volutamente paradossale, e inevitabilmente equivoca. La comicità è uno dei due versanti dell’amore, e il passaggio dal comico al tragico, e viceversa, è una virtualità permanente, come ci ricorda l’aforisma di Kierkegaard.

Tuttavia Lacan sembra essere caduto in un altro errore, e più grave, con la famosa tesi secondo cui “non esiste rapporto sessuale” (il n’y a pas de rapport sexuel) (Seminario XX, 1972-1973). L’errore non consiste evidentemente nella presunta negazione di ciò che gli esseri umani compiono, facendo sesso. Il “non c’è” non indica l’assenza di contatti e di penetrazioni tra i corpi, bensì – che cosa, esattamente? Secondo molti, e tra di essi Žižek, questa tesi ha il merito di respingere ogni concezione armoniosa del rapporto tra i sessi, a partire dal mito dell’androgino (che quindi andrebbe inteso in chiave comica; non sarebbe casuale che a inventarlo sia il grande commediografo Aristofane) sino alle melensaggini di yin e yang. Tuttavia Žižek, nel saggio Il non-tutto, ovvero l’ontologia della differenza sessuale (in Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, 2012) vuole andare al di là della vulgata lacaniana, e in particolare di Jacques-Alain Miller, che interpreta la tesi lacaniana “come semplice asserzione di disarmonia” (tomo II, p. 334).

 

Restiamo però, ancora per un attimo, al Seminario XX, dove Lacan afferma che, data l’inesistenza e comunque l’impossibilità del rapporto sessuale, l’amore svolge una funzione compensatoria. L’amore “supplisce all’assenza del rapporto sessuale”. Ma nella vicenda di Tristano e Isotta avviene l’opposto: il sesso è possibile (anche alla corte di re Marco), è l’amore a essere impossibile. O meglio: l’amore è una passione aporetica a causa del legame tra possibile e impossibile. Quando il legame si scioglie, abbiamo la commedia. Tuttavia, anche la commedia lascia emergere il vero ostacolo, cioè la scissione nell’amore, la scheggia di impossibilità conficcata nella felicità degli amanti.  

Che cosa accade, ad esempio, tra Harry e Sally? Per aggirare l’impossibilità del loro incontro, arrivano ad avere un rapporto sessuale, e del tutto appagante, a quanto sembra. Mediante il sesso cercano di supplire all’impossibilità dell’amore, inteso come armonia senza scissione. Diversamente da quanto afferma Lacan, il rapporto sessuale è sempre possibile– e così andrebbe intesa la scena più famosa del film, quando Sally, sfidata da Harry sulle capacità di fingere delle donne, simula un orgasmo al ristorante. Questa scena raggiunge l’apice della comicità nella richiesta formulata da un’anziana signora che ha seguito con attenzione i gemiti irrefrenabili di Sally, e che si rivolge alla cameriera chiedendole sottovoce “lo stesso della signorina”. Ma forse la scena è fondata su una comicità più sottile: con la sua performance, è come se la giovane donna dicesse: “non capisci? Il problema tra noi non è (e non sarà mai) il sesso, possiamo fare l’amore quando vogliamo (e senza fingere); il vero problema è l’amore, che non sa nascere”.

  

Rovesciando Lacan: è il sesso che supplisce alla mancanza, o quantomeno tenta di supplirvi. Inoltre: che il rapporto sessuale sia sempre possibile, in linea di principio, ce lo ripete di continuo la pornografia. Qual è la funzione e il significato del porno, se non la rappresentazione di una garanzia? L’orgasmo sarà sempre possibile, chiunque sia il partner. I corpi verranno saturati, gli orifizi eventualmente ottimizzati, gli attriti scompariranno. Trionfa la sintonia.

Con rinnovata perplessità torniamo a rivolgerci all’amore, ai suoi enigmi, ai suoi equivoci. Ai suoi insopprimibili problemi: come dice Woody Allen, “il sesso allevia le tensioni mentre l’amore le provoca”. La saggezza che questa considerazione umoristica contiene non ci distoglierà dall’amore, da quello che potremmo vivere con leggerezza, e neanche da quello più folle, più estremo. Una volta entrati nell’amore, non se ne esce più. L’amore rimane un rompicapo (o un labirinto) in cui gli innamorati si perdono. Perciò attribuire ad Eros la funzione di supplire all’assenza del rapporto sessuale appare riduttivo e insostenibile.

 

Dobbiamo però aggiungere qualcosa al problema della sessualità. Riprendendo un saggio di Guy Le Gaufey, Zizek ha tentato di precisare la posizione di Lacan, in cui egli vede uno sforzo per passare da “non c’è rapporto sessuale” (la tesi del Seminario XX) a “c’è un non-rapporto” (Meno di niente, II, 332). Per comprendere quest’affermazione, è necessario un riferimento alla logica. Utilizzerò uno degli esempi di Žižek: i vivi hanno come termine opposto i morti, ma anche un altro termine: i non-morti, che sono né vivi né morti, cioè mostruosi morti viventi (i vampiri) (p. 334). La differenza tra le due relazioni è facilmente afferrabile mediante uno schema:

 

 

Si tratta di una esemplificazione del quadrato logico degli opposti, che è un’espressione fondamentale delle logiche rigide. La linea orizzontale in alto indica una relazione tra contrari, le due linee diagonali una relazione tra contraddittori, e la linea orizzontale in basso la relazione tra i sub-contrari.

Žižek ritiene di compiere un grande progresso indicando una possibile sintesi (o ibridazione) tra i subcontrari: chi sono gli essere né vivi né morti? Risposta: i vampiri.

Proviamo ora a inserire altre nozioni nei quattro vertici. Avremo:

 

 

La proposizione in basso a destra, che ho evidenziato in neretto, rappresenta la posizione di Žižek. Egli la esplicita così: l’oggetto del desiderio (per Lacan l’objet a) “non è sessuale né non-sessuale, ma «sessualmente asessuale»; è una mostruosità che sfugge alle coordinate di ciascun sesso, pur rimanendo sessuale” (ibidem).

E’ stato compiuto un progresso rispetto al Seminario XX? C’è da dubitarne. Ma il grande limite di questa rielaborazione consiste nel servirsi della logica tradizionale, che è una logica della rigidità, e che considera solo i contraddittori e i contrari. Una logica flessibile – e il materialismo dialettico rivisitato da Žižek dovrebbe esserlo – si serve di tutti i tipi di opposizione, privilegiando però il rapporto tra correlativi. I correlativi sono opposti che si implicano reciprocamente nel loro conflitto, che può risultare sterile e distruttivo oppure fecondo: si pensi, come manifestazione di un antagonismo creativo, al rapporto tra apollineo e dionisiaco in Nietzsche. I correlativi sono opposti non-sintetizzabili. Forse il lettore apprezzerà questa visualizzazione grafica dei correlativi, nella loro differenza con gli schemi precedenti (per un’esposizione adeguata, devo rinviare al mio libro La ragione flessibile, Bollati Boringhieri 2013, pp. 152-188).

 

 

Prima di Žižek, è lo stesso Lacan a rimanere prigioniero del quadrato logico e delle rigidità: questo è il terzo errore che gli rimprovero, e in un certo senso è il più grave. Nella mia prospettiva, la dimensione erotica (sessuale e amorosa) va certamente indagata nella sua paradossalità, ma il concetto chiave non sarà il “non-rapporto”, bensì il “rapporto con il non”: vale a dire, i molti modi in cui gli opposti (il maschile e il femminile, ecc.) possono essere sterili o fecondi.

Ultima osservazione: l’asserzione di Žižek, secondo cui “Come Lacan mette in evidenza, qui è in gioco la sostituzione del «principio di tutti i principi»: dal principio ontologico di non-contraddizione al principio che non c’è rapporto sessuale” (p. 334), è semplicemente una stupidaggine.

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Perché Lacan si è sbagliato sul rapporto sessuale (e forse anche sull’amore)
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Schumann in manicomio

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Incipit “Nel 1845, il dottor Richarz elabora una terapia per la cura della psicosi-schizofrenica basata sull’isolamento.” (da Alessandro Zignani, Il richiamo dell’angelo. Cinque pezzi fantastici sulla follia di Robert Schumann, p. 7)

 

Come raccontare la storia della follia di Schumann? Un importante contributo arriva dalla pubblicazione italiana delle lettere tra la moglie Clara e Robert (1854-1856) e dalla memoria di Clara. Clara Schumann (1819-1896), notissima concertista, che sopravvivrà di cinquant’anni al marito, scrive di quei momenti:

Sabato, il 4 arrivò! Oh Dio, la carrozza era di fronte alla nostra porta. Robert si vestì con molta fretta, entrò nella carrozza con Hasenclever (il medico) e i suoi due infermieri, non chiese di me, né dei bambini, e io me ne stavo seduta vicino alla signorina Leser immobile dal dolore e pensavo, ora soccomberò! Il tempo era splendido, almeno il sole l’ha accompagnato! Avevo consegnato al dottor Hasenclever un bouquet di fiori per lui, che poi gli diede in viaggio; l’ha tenuto a lungo in mano, senza pensarci, poi d’improvviso ne ha annusato il profumo e sorridendo ha stretto la mano al dottor Hasenclever! Più tardi ha regalato a ciascuno nella carrozza un fiore. Hasenclever mi portò il suo – con il cuore sanguinante, l’ho conservato! (p.35)

 

Il testo, Lettere da Endenich, curato da Filippo Tuena, tradotto da Anna Costalonga – per le edizioni ITALOSVEVO di Trieste – raccoglie gli epistolari  e altri documenti relativi a Schumann prima della morte presso il manicomio di Endenich, dove fu ricoverato e dove morì dopo due anni di internamento, all’età di quarantasei anni. 

Le parole di Clara raccontano con precisione l’evento della partenza di Robert per il manicomio. Il medico che accompagna Schumann le riferisce gli eventi del viaggio, lei esprime il dolore che prova. Ma la tenerezza dello sguardo verso il marito lenisce la pena. Lui “non chiese” di lei e dei bambini, ma, durante il viaggio, stringe il bouquet, lo annusa e regala a ciascuno un fiore. Il medico, al rientro darà a Clara il fiore di Robert, lei lo conserverà con il cuore sanguinante. 

 

Fino a quando la psichiatria e la psicologia sono state considerate scienze “esatte”, i biografi davano per scontato il verbo scientifico, la diagnosi psichiatrica era come il calcolo dei cementi armati per l’ingegneria. La “dementia praecox”, poi ribattezzata “schizofrenia” era un dato, non una valutazione discutibile. Unico paziente che, a fine Ottocento, era riuscito a ottenere il proprio riscatto, riacquistando  diritti civili e cittadinanza, fu Daniel Paul Schreber (1842-1911); malato di nervi – come si autodefinisce attraverso le sue memorie – ma fine giurista, che riscatta la sua posizione di cittadino. 

Bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento perché qualcosa cambi nel mondo della salute mentale. Qualcuno si accorge che il manicomio, anziché “curare i malati di mente”, produce malattie mentali e riduce la speranza di vita delle persone rinchiuse. Ancora dobbiamo riabilitare molte figure di intellettuali, artisti e scienziati finiti in manicomio. La figlia di James Joyce, Lucia (1907-1982) morta dopo 48 anni di ritiro manicomiale, la scultrice Camille Claudel (1864-1943), il matematico Georg Cantor (1845-1918) e molte, molte altre persone. 

 

Come mai una persona mite, taciturna come Schumann viene ricoverata? Bastano i suoi incerti tentativi di suicidio? Franz Richarz, lo psichiatra che internò Schumann, era un “degenerazionista”, uno di quegli scienziati sicuri che l’arte e la cultura siano fenomeni degenerativi. Conosciamo bene la teoria biologica della degenerazione, sappiamo da quali teorie creazioniste deriva e a quale mondo totalitario approda. La scienza degenerazionista si basa sulla teoria che gli artisti e gli uomini di genio siano destinati alla follia. 

A differenza di Lucia Joyce e Camille Claudel, che sopravvivono al manicomio per oltre quarant’anni, a differenza di Schreber, Antonin Artaud (1896-1948) e Luis Wolfson (1931), che incontrano strategie creative per sottrarvisi, Schumann dura poco, muore dopo due anni d’internamento. Non è l’unico, il manicomio uccide in vari modi, produce catatonie, aumenta i tentativi di suicidio, è crogiolo di infezioni, è universo concentrazionario e violento. Il manicomio riduce la speranza di vita dei pazienti. In questo senso, la vera storia della follia di Robert Schumann è raccontata da Peter Oswald (1928-1996) in Schumann, Music and Madness e in alcune pagine della Storia sociale della psichiatria di Roy Porter (1946-2002).

 

 

Vera storia perché smaschera l’ipocrisia di chi vede il soggetto patologico rinchiuso dentro le macerie del proprio Ego, come se queste macerie fossero espressione della mancata identità del soggetto. Considerazioni vuote, al di fuori di ogni contesto sociale e culturale, come se la follia fosse un fenomeno di fatiscenza dissociato e indipendente dalla relazione con l’altro. Schumann soggetto distrutto? Basta ascoltare poche note del suo monumentale lavoro di composizione per dire: no! L’uomo che ha scritto questa musica ha una forza espressiva grandiosa, non può essere una persona distrutta, semmai appartiene a una specie che deve ancora venire, come avrebbero sostenuto Frederich William Myers (1843-1901) e Friedrich Nietzsche (1844-1900). Schumann dunque diventa soggetto collettivo, creatore, nonostante il divieto, imposto a familiari e amici, di vederlo, nonostante l’isolamento, le repressioni e le interdizioni del regime manicomiale, questa la crudeltà psichiatrica.

La confusione psichiatrica a cavallo tra i due secoli è disarmante. Neurosifilide? Molti storici della medicina hanno rilevato che un gran numero di persone, a cavallo tra i secoli Diciannove e Venti, altro non avevano che una delle possibili conseguenze della sifilide. La “dementia praecox” e una serie di malattie neurologiche, a quell’epoca, si confondevano in un unico insieme poco distinto: Parkinson, Alzheimer, pellagra, lesioni focali e altre forme neurologiche. I discorsi psichiatrici erano (e spesso sono ancora) confusi, generici, poco medici. Nei tentativi di scimmiottare la medicina, psichiatri e psicologi spesso non si accorgono di avere a che fare con un soggetto intero, competente riguardo alla propria vita, tutti presi dal furore diagnostico. 

 

I discorsi psichiatrici dell’epoca, ma anche quelli contemporanei, ci appaiono confusi e contraddittori per una disciplina che pretende di essere riconosciuta come scientifica. Se considerassimo il delirio psichiatrico come parte di un sistema delirante complessivo, ci troveremmo di fronte a una sorta di ripetizione generale e generica del delirio dei folli: demenza, idiozia, mania, imbecillità, cretinismo sono sempre stati termini a cavallo tra diagnosi e insulto. Una descrizione completa di questo fenomeno “scientifico” si trova nel libro di Mary Boyle (1949) Schizofrenia, un delirio scientifico, uscito nel 1994 per Astrolabio.

Schumann non aveva alcun deterioramento mentale, aveva attraversato un periodo di confusione, che stava superando. Pochi anni prima era capitato a un altro grande esponente del Romanticismo, Friedrich Hölderlin (1770-1843), che aveva trovato il suo doppio Reale nel nome di Scardanelli. Hölderlin produce la sua poetica migliore nei momenti più acuti della schizofrenia, come sostiene Roman Jakobson (1896-1982).

 

Ciò che inquieta, in chi ode le voci, è il ritiro dalla relazione con gli altri in carne ed ossa, che stanno intorno al soggetto, il suo volgersi a un altro fantasmatico, a una identità inesistente, a un doppio. Accede anche a noi durante il sonno, quando si sogna, tuttavia questo è proprio il momento della creazione. Individuare una voce nell’indistinto della “cosa in sé” costituisce ciò che Louis Sass (1949) ha definito “apofania”, un gesto tutt’altro che irriflessivo, un gesto iper-riflessivo, conseguente a un’esperienza di frammentazione che ricompone i frammenti in forme impreviste. È forse questo che perturba l’altro: “non sei più tu”, la tua identità è sfumata, come fossi “posseduto da un demone”.

Oggi Schumann sarebbe, oltre che un grande musicista, un uditore di voci. Il suo percorso di individuazione delle voci è terapeutico; Luigi Boscolo aiutava i pazienti che sentivano voci confuse e non bene individuate ad ascoltarle meglio, per individuarle, distinguerle, renderle singolari. Nel far questo, le voci diventano diplofonie, triplofonie, polifonie. Ciascuna delle melodie vocali assume un timbro e un carattere che segnano la differenza e la relazione tra loro e il soggetto uditore.  Questa transizione dagli acufeni, ai rumori, all’indistinzione delle voci, Schumann l’aveva compiuta da sé. Florestano, la voce di un doppio ottimista, ed Eusebio, la voce del suo doppio femminile, gli dettano alcune delle composizioni, come l’Ouverture del Manfred o la Sinfonia di primavera

 

Non c’è dubbio che le voci di Schumann lo spingano verso la creazione di nuove composizioni, tra le più felici. Non c’è dubbio che lo portino nel panico della perdita del principium individuationis, il dionisiaco, di cui scriverà, una generazione dopo, un suo conterraneo. Nessuno però si accorge di come queste dimensioni della sua “dementia praecox” in realtà siano l’espressione più alta dell’attività artistica del musicista. La scienza degenerazionista dell’epoca, quella scienza che parla di ciò che poi verrà chiamata schizofrenia, quella scienza che è assolutamente sicura che la follia sia un fenomeno degenerativo, decide che i pazienti, per la loro cura, vanno isolati e trattati come soggetti che marciscono in manicomio. L’Ego diventa fatiscente, si decompone, si riduce a frammenti, ma accade quando è in manicomio, accade quando viene legato, quando le relazioni con familiari e amici vengono precluse; accade quando all’Ego viene “forclusa” (per usare i termini lacaniani) la relazione con l’altro, ma non è il soggetto a essere “forcluso”, è l’istituzione che lo forclude, non è lui che abdica alla responsabilità, è il contesto totalitario che gliela toglie, anche sul piano giuridico.

 

Schumann soffriva forse di acufeni (rumori uditivi fastidiosi) che possono trasformarsi in vere e proprie voci. Schuman aveva momenti di afasia. I suoi sintomi potrebbero avere avuto molteplici origini di ordine acustico o neurologico, temporanei o definitivi. Qui si tratta di valutare sintomi medici. Ma se Schumann ha cercato di combinare “strutture musicali non compatibili”, ciò è ben altra cosa. Le sue esplorazioni compositive, hanno anticipato il futuro della musica contemporanea. Se aveva problemi di ordine medico, avrebbe dovuto esser curato in medicina, se aveva problemi di ordine psicologico, avrebbe dovuto trovare accoglienza e ospitalità terapeutica. In questi casi è bene ribadire: tertium non datur.

Solo chi ha il coraggio di immergersi nelle perturbazioni della vita, chi entra nell’ignoto, chi soffre nell’attraversare la vita può creare. Schumann creò meravigliosi deliri musicali. Degenerato, ergo progenerato.

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Recalcati e il sacrificio

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In Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017) Massimo Recalcati indaga il fantasma del sacrificio, che induce gli individui a sottomettersi a una legge oppressiva a cui immolare la forza del proprio desiderio, barattando la garanzia di un risarcimento. La sua indagine persegue due obiettivi.

Innanzitutto, ribadisce il suo modo di intendere il lavoro psicoanalitico, come tensione da mantenere tra il caso singolo e la classificazione – qui tra l’individuo che si sacrifica e il sacrificio come struttura simbolica di senso. Recalcati non crede che la sfera della rappresentazione simbolica pubblica sia una alienazione della compattezza dell’esistenza. Il sacrificio è la rappresentazione simbolica originaria: la restituzione agli dèi – gli originari proprietari delle cose – attraverso i suoi rappresentanti. La critica del sacrificio chiama quindi in causa la questione del recinto simbolico del senso, e in modo nuovo, circa la restituzione del singolo oggetto all’universale.

 

Con ciò, lo psicanalista evoca la questione di un gesto che gli è stato rimproverato, di ricondurre i singoli nomi propri sotto categorie. Con questa analisi mostra che si tratta proprio del contrario. Si tratta di tenere insieme il singolo e una legge finalmente liberante; il proprio viaggio sempre eccezionale e i segni che ci hanno scritto; l’Uno e l’Altro. Anzi, Recalcati adombra che la stessa volontà di liberarsi da ogni legge simbolica, di rendersi detestabili alla legge, è vittima del fantasma sacrificale al pari della volontà di rendersi amabili alla legge facendosene schiavi (110).

 

In secondo luogo, mentre descrive il modo di sacrificare il sacrificio, Recalcati prende distanza da alcuni autori da cui proviene, da Deleuze e Foucault, per accostarsi più decisamente a Derrida e alla sua domanda kierkegaardiana. Lo fa nell’atto di demolire la lettura moralistico-sacrificale della storia biblica – una delle più grossolane interpretazioni della storia della filosofia. Nietzsche è stato davvero ridotto a una canzone da organetto, in questa premura di fare della storia biblica un fantoccio scemo proprio prima di combatterlo. Si può certamente ridurre il Dio biblico a un despota orientale, e pensare, come fanno gli adolescenti, che in quella storia si tratti del conculcamento dei propri ormoni e della sorveglianza anti-onanistica di un Grande Prete. Ma poi allora si finisce per fare del pastorato cristiano il modello dell’occhiuto potere disciplinare della modernità: il contesto in cui si impara la disciplina dell’assoggettamento senza neanche accorgersene, proprio mentre si presta fede a una storia di liberazione.

 

Che cosa non funziona, in questa storia di moralismi della colpa? Soprattutto questo: che se fai del pastorato cristiano il nucleo della tua analisi della modernità, devi aprire una volta la Bibbia e leggere, come fa Recalcati, la parabola del buon pastore, con annesso figliol prodigo e padre misericordioso. Lì, oltre a pecore scappate via dal recinto simbolico, si parla di recinti con maiali, di vitelli e di nutrizionismo di animali da allevamento. Se poi oltre al pastorato si vuol sapere della viticoltura, si trova ugualmente qualcosa da leggere. Mica per essere baciapile: per scrupolo filologico. Recalcati lo fa, qui e altrove, e in modo neanche pretesco – bisogna dargliene atto.

In questi lacerti di pastorato, emerge la confutazione della mentalità sacrificale. Emerge una passione per l’eccezione che interrompe la legge, e che spiega che cosa sia la legge in modo più profondo di quanto non faccia la garanzia dell’ordine. Emerge la figura della chiamata di un padrone della vigna che segue una logica dell’eccedenza. Al quale non importa nulla del sacrificio degli operai che hanno lavorato di più, e che chiedono di rispettare il corrispettivo. Anche gli ultimi che hanno risposto alla chiamata e che hanno lavorato un’ora soltanto, ricevono, secondo una logica del dispendio, la stessa moneta di chi ha lavorato tutto il giorno (124-127).

 

La mentalità sacrificale appartiene senz’altro alla storia religiosa del sacro – e fin dalle origini delle società arcaiche. Le esplorazioni di Bachofen sul Mutterrecht hanno evidenziato la centralità del diritto sanguinario della Grande Madre Generatrice in tutte le culture arcaiche. Si trattava di un diritto della restituzione, della compensazione, secondo il ciclo che appartiene alla natura. Ciò che nasce merita di morire, secondo il detto di Anassimandro commentato da Heidegger. Si tratta di una circolarità che richiama la spietatezza dell’equivalenza del tributo di sangue, della struttura vendicativa di una legge (nomos) che è partizione (nemein) con cui si dà a ciascuno il suo, secondo la nemesi, la vendetta, della morte. Occhio per occhio, dente per dente, è la ripetizione naturale che riporta all’equilibrio. La vita stessa vive della morte. Nel suo ciclo sacrificale sanguinario, nel grande massacro che il ciclo biologico è, l’umanità ha cercato per millenni la propria legge.

 

 

Già l’epoca pre-classica dei Greci ha cercato scampo da questa legge del sangue. L’epica omerica ha segnato il distacco da essa, per dirigersi verso la logica non più ciclica ma lineare di una legge della polis. Si tratta dell’incisione di un solco diritto, di un taglio simbolico che segni la separazione dal ciclo naturale. Invece del ritmo bustrofedico del volgersi sui propri passi come fa l’aratro trainato dai buoi, invece di tornare indietro come Penelope nel tessere la tela, come Orfeo fatalmente fa con Euridice, invece di ritornare nel grembo tellurico della legge del sangue come vuole Antigone, occorre tenere dritta la barra del timone, verso la legge della polis e verso la vita matrimoniale, come Creonte, come Ulisse, come Giasone che naviga diritto verso la Colchide, per portare verso il grembo arcaico dell’Asia la legge greca, più simbolica e meno sanguinaria. 

 

E dopo l’epica omerica sono venuti il pitagorismo orfico, la filosofia, e poi la tragedia, a segnare lungo vie diverse questo cammino di emancipazione dalla legge arcaica del sangue. Che è una legge della compensazione, del risarcimento, della restituzione. Quando Edipo risolve l’enigma della Sfinge (qual è l’essere che al mattino cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e la sera con tre?), nel rispondere: è l’uomo!, non consuma forse la parte animale di essa, per metà leone e per metà umana? Rovesciandola dalla rupe, non restituisce forse l’uomo a se stesso, e in modo non sanguinario, secondo il conosci te stesso che riassume la grecità? Così ci si libera dalla legge del sangue.

Ma evidentemente non è così agevole liberarsi dalle strutture di compensazione. Lo stesso gesto della metafisica classica, di porre un ordine e di fare di Dio il garante di esso, risponde alla medesima volontà di assicurarsi una garanzia di stabilità e di ritorno di interesse, al cospetto delle diverse finitezze dell’esistenza.

 

La stessa struttura dell’idealizzazione con la quale stiamo costruendo da millenni i nostri concetti, tramite segni spirituali che rimangono nel tempo, a compensare il venir meno della materia caduca, risponde a una attesa compensativa. Il rapporto tra l’anima e il corpo è stato pensato come la compensazione del significato spirituale rispetto al ritirarsi della fisicità del significante. 

Come si vede, se ci si vuole scagliare contro strutture moralistiche, di rimborso, si ha a disposizione un ampio insieme di storie, accanto a quella del cristianesimo religioso-sacrificale. Anzi, se si ha l’allegria di Recalcati si può anche cercare nella tradizione biblica una ulteriore soluzione, rispetto all’epica omerica, all’orfismo, alla tragedia e alla filosofia dell’età di Pericle. Come dicevamo, l’opposizione al sacrificio è un tema sia veterotestamentario, sia neotestamentario. Addirittura, nell’Ellenismo dell’età di Paolo tutti quegli elementi culturali che cercavano di emanciparsi dalla legge circolare del sangue si fondono in un grande calderone, unendosi all’astrologia babilonese e al dualismo persiano e al Tanakh ebraico. Sarà forse un caso che il cristianesimo paolino sia retto da un confronto nuovo con la legge? Un confronto che combatte in ogni modo il guadagno della compensazione sacrificale?

 

Non è forse Paolo a interpretare la mancanza in termini diversi dalla privazione/compensazione, quando scrive che Dio ha scelto ciò che non è per rovesciare ciò che è? Se vogliamo parlare contro il sacrificio, non dobbiamo forse attraversare, prima ancora di René Girard, un cristianesimo paolino come fa Contro il sacrificio? Esso è fondato sulla chiamata, sull’essere disarcionati, sull’iniziare una vita nuova senza la garanzia di un Dio tappabuchi; e tuttavia senza cadere in una dimensione puramente invasata e carismatica. Proprio al modo di Paolo, si tratta di fare di questa grazia di desiderio una legge totalmente nuova. Così la legge non schiaccia il singolo.

Recalcati mostra attraverso diversi percorsi che il fantasma sacrificale è un fantasma di pienezza, di perfezione e quindi di completamento compensativo, secondo tratti gnostico-narcisistici. Per non vedere il venir meno della presenza, col sacrificio si ricerca il saldo di un tornaconto (110; 141; 143), abbagliati da una salvezza intesa come il Tutt’Altro dalla legge del presente caduco – un Tutt’altro che è sempre compensativo. Il bisogno di colmare la mancanza è il tratto nevrotico di voler essere ciò che completa la Madre – fosse anche la Madre della Vita che vive del flusso della forza. 

 

Essere perversi significa cercare di recuperare l’oggetto che viene meno nel corpo della Madre. Essere nevrotici significa eleggersi a rappresentante dell’accurata garanzia della presenza, e sentirsi quindi sempre in debito rispetto a quel completamento totalizzante che dovrebbe garantire la restituzione dell’intero. Sono due modi diversi di fraintendere la mancanza come privazione e coscienza infelice. Invece, la mancanza è mancanza di garanzia, che, se assunta, dissolve il sacrificio e i suoi debiti. Sentirsi in debito, o trasgredire il limite, sono due modi complementari di colmare l’angoscia della mancanza. Perciò il sacrificio nevrotico cerca in continuazione i rappresentanti di quell’ordine che gli dà i compiti – fossero anche i significanti orizzontali, cioè i portavoce, del compito di trasgredire la legge. Proprio covando un nascosto odio verso l’esigenza assoluta della legge, si cerca in continuazione una legge alla quale sacrificare la propria vocazione.

Si tratta allora di apprendere una diversa modalità della negazione. Invece di sacrificare il proprio desiderio alla ricerca di una garanzia di risarcimento, occorre saper sacrificare il sacrificio. Come nella vicenda di Abramo sul monte Moriah, si tratta di una storia di coltello, che invece di colpire per il sacrificio è chiamato a tagliare la legatura di Isacco. Il taglio va a de-cidere il legame sacrificale della legge del sangue e del suo flusso circolare di tornaconti. 

E se la Madre non è una Domina crudele, e il Padre non è un dispositivo dispotico, potremo forse rinunciare a credere di dover ridere della legge in una scena masochistica, come vorrebbe Deleuze. Ci sarà invece da ridere alla maniera di Isacco, secondo il suo nome, e secondo il riso di Sara all’annuncio della sua incredibile gravidanza. Come si ride per la sorpresa, quando ci si libera del sacrificio, sulla propria croce. 

 

Massimo Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Milano, Raffaello Cortina, 2017.

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Psiche direzione mondo

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È straordinario: mari e montagne, vallate e colline, spiagge e pianure… Quanti paesaggi in uno stesso sogno e quanti sconosciuti! Ci stupiamo della nostra capacità di creare mondi, scopriamo di avere una mente fantasmagorica che permette di viaggiare in lungo e in largo, la notte nella dimensione onirica, di giorno con l’immaginazione.

 

Se lo spazio del dentro “è lo spazio della nostra percezione primaria, quello delle nostre fantasticherie, delle nostre passioni” e appartiene a ognuno di noi, quello di fuori è comune a tutti, “è lo spazio in cui viviamo, per mezzo del quale siamo attirati al di fuori di noi stessi, quello in cui appunto si compie l’erosione della nostra vita, del nostro tempo e della nostra storia” ci dice Foucault. Ma lo spazio esterno, che pure possiede una sua specifica realtà, produce un effetto sempre diverso su ciascuno: dallo sfondo che scegliamo per il nostro computer, alle discussioni di coppia tra chi ama l’acqua e chi le rocce.

Sono queste connessioni che insegue Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, autore anche di raccolte poetiche, in Mindscapes (Raffaello Cortina Editore), un neologismo “per collocarci a metà strada, là dove dobbiamo stare: con la psiche nel paesaggio e il paesaggio nella psiche” per poter “guardare un paesaggio come una parte del mondo reale, un luogo dell’identità e della memoria, personale o collettiva, uno specchio delle nostre emozioni, uno spazio di immersione sensoriale”. Così si costruisce un testo stratificato nutrito di saperi diversi, che condensa le conoscenze della mente scientifica e le sensibilità della mente poetica, le passioni artistiche dell’autore e le sue esperienze di viaggiatore. Un associare che non teme di saltare steccati disciplinari, e che, prima di tutto, dice quanto la stessa mente del terapeuta funzioni come un paesaggio dove i “sentieri bibliografici”, con i quali termina il testo, indicano di quali libri è fatta la sua “dieta”.

 

Lingiardi ci ricorda come, fino a tempi recenti, tra gli psicoanalisti sia stato solo Harold F. Searles, in un saggio degli anni Sessanta del Novecento, quando ancora la relazione fra terapia ed ecologia appariva una stranezza, a occuparsi del rapporto con l’ambiente fisico che aveva chiamato L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia. “È mia convinzione che all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, vi è un senso di colleganza con l’ambiente non umano, che tale colleganza è uno dei fatti di più straordinario rilievo nell’esistenza umana, che essa rappresenta per l’uomo – così come vale per altri aspetti fondamentali della sua vita – una fonte di sentimenti ambivalenti e che, infine, se egli cerca di ignorarne il valore, lo fa a rischio del proprio benessere psicologico”.

 

Per Searles la percezione del bambino di fusione con la madre coincide con la fusione con l’ambiente, e il processo di separazione/individuazione riguarda quindi non solo il rapporto con l’ambiente madre, ma anche la necessità di differenziarsi dal suo paesaggio. È questo insieme che influenza profondamente la personalità globale di ogni individuo. “Si può inoltre sostenere che è la qualità della personalità globale, con il cui sviluppo credo abbia molto a che vedere l’ambiente non umano, a determinare se l’individuo possegga, o meno, la forza indispensabile per guarire dalla nevrosi o dalla psicosi”. L’avvicinarsi di un momento di smottamento psichico può dunque essere percepito come la perdita dell’ambiente non umano familiare.

 


E che un paesaggio possa avere un valore terapeutico, scrive Lingiardi, “ha del resto popolato a lungo non solo la letteratura (La montagna incantata di Thomas Mann), ma anche la clinica medica e psichiatrica (paesaggi salubri e comunità terapeutiche)”.

Ed è ancora recente, anche se dagli anni Novanta in poi si è molto sviluppata, la riflessione sul rapporto che si stabilisce con il luogo come uno spazio fisico che ha acquisito un significato soggettivo per l’individuo e con il quale, dunque, si instaura un legame affettivo. Le tipologie di attaccamento ai luoghi – emotivo-familiare, estetica, funzionale, socioemotiva, cognitivo-culturale – si intrecciano con i processi che avvengono nel momento del cambiamento e del distacco. Le nostre modalità di attaccamento sono segnate anche dalla nostra esperienza con i luoghi. Un esempio: l’ansia da separazione può derivare dalla perdita del contesto di provenienza. L’identità spaziale dice quanto l’ambiente possa essere vissuto come un nemico e una minaccia, sentirsi in-placeè l’obiettivo di ogni processo di integrazione in qualsiasi delle nostre metropoli creolizzate dove la place identity costituisce una parte importante del vissuto di individualità.

 

E viene da chiedersi se “l’Io non è padrone in casa propria” di Freud non parlasse, anche, del suo senso di esilio (ebraico?) e di estraneità. Freud mette sempre in relazione i suoi stati d‘animo e le sue intuizioni teoriche, antropoformizza le geografie, pensiamo solo al suo rapporto con Roma: “profondamente nevrotico”. Lingiardi sottolinea quanto le differenze teoriche tra Freud e Jung si riflettano anche nella lettura del paesaggio che compaiono nei sogni. Jung è interessato alle rappresentazioni dell’eroe, della morte, della rinascita, Freud sessualizza la topografia in una rigida tassonomia:

“Montagna e roccia sono simboli del membro maschile; il giardino, un frequente simbolo del genitale femminile. Il frutto non sta per il bambino, ma per il seno. Gli animali feroci significano persone sensualmente eccitate, e inoltre pulsioni cattive, passioni. Fioriture e fiori designano il genitale della donna o, più specificamente, la verginità”. 

E mentre nella stanza di analisi sempre più denso diventa il lavoro sulle immagini – quelle dei sogni, quelle che produce l’analista, quelle scaturite dall’incontro, quelle dell’immaginario collettivo del cinema, della fotografia, della pittura – nei nostri corpi-mappa il sentimento estetico nasce di fronte alla scoperta del volto della madre, nel contatto con la bellezza del primo volto umano. Da qui, da Bion a Meltzer, da Searles a Bollas e Chianese, si sviluppa l’idea di una “genesi estetica dellasoggettività piuttosto che di una genesi soggettiva dell’estetico”.

 

Lingiardi riprende il concetto di riverbero da Bollas per il quale “la vita viene modellata talvolta come un’estetica, una forma rivelata nel modo di essere della persona”. E “la pulsione del destino è l’ininterrotto tentativo di scegliere e usare gli oggetti per dare un’espressione vissuta al vero Sé”.

Gli oggetti reali incontrano gli oggetti psichici e così diventano oggetti evocativi che connettono e trasformano, “un midworld la cui realtà non è puramente soggettiva né puramente oggettiva: è poetica”, conclude Lingiardi. Uno spazio transizionale, intermedio, uno spazio creativo che ci protegge dalle irruzioni della realtà quando possono diventare troppo inquietanti e invasive.

Mindscapes non è un libro specialistico, ma un tour erudito e caleidoscopico, dove il lettore può trovare tracciati per sapersi orientare. Costruire le proprie mappe. Come fece, nel 1654, Madeleine de Scudéry, la quale disegnò i percorsi affettivi della protagonista del suo romanzo Clélie. La chiamò Carta della tenerezza. Il paese di partenza si chiamava Nuova Amicizia. C’è un Mare Pericoloso e una Terra Sconosciuta, una strada buona e una cattiva. Indiscrezione, Perfidia, Cattiveria, Orgoglio si tuffano nel mare dell‘Inimicizia. Per arrivare a Tenerezza si passa da Riconoscenza.

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Il desiderio non è una cosa semplice

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“Il desiderio non è una cosa semplice” diceva Freud. Eppure a volte l’esperienza empirica sembrerebbe dirci il contrario: non sarebbe difficile elencare tutti i beni materiali, gli oggetti e le esperienze di cui vorremmo entrare in possesso se potessimo rispondere alla classica domanda “esprimi un desiderio”, come accade ad Aladino nella favola de Le mille e una notte. Tuttavia la psicoanalisi ci insegna a non confondere il desiderio con la volontà. Se è vero che viviamo in una società che ha monumentalizzato la volontà senza limiti – “sapere quello che si vuole”, la cosiddetta self-confidence, sembra essere diventata la più grande delle qualità – il luogo del desiderio pare essere sfuggente. Al di là delle merci, al fondo di tutte le cose che vorremmo, c’è qualcosa che rimane opaco, qualcosa che non può essere espresso. Lacan diceva che il desiderio è segnato da una mancanza fondamentale: che non vuol dire, come molti pensano, che la rinuncia e l’infelicità siano il destino ineluttabile di questo mondo, ma semplicemente che la conoscenza di quello che desideriamo è mancante anche a noi stessi. Non lo possiamo esprimere proprio perché non ne sappiamo nulla. È il punto cieco della nostra coscienza.

 

 

L’inglese, che in questo è più preciso dell’italiano, separa il wish dal desire: possiamo pure volere (wish) una serie infinita di oggetti, eppure c’è qualcosa di questa volontà che finisce per mancare. Il desire è ciò che spezza l’appropriabilità infinita degli oggetti e delle cose. Nelle intricate logiche della vita amorosa noi possiamo scegliere tutte le donne e gli uomini di questo mondo – come succede con Tinder – eppure quello che desideriamo non lo scegliamo. Semplicemente ci accade. E anzi, spesso, non lo vorremmo neppure, perché il desiderio viene a squarciare il benessere della vita quotidiana.

 

È l’arrivo di Oliver, il bellissimo dottorando americano in visita dal padre professore di archeologia, quello che “accade” a Elio in Chiamami con il tuo nome, il film di Luca Guadagnino che esce in questi giorni nei cinema italiani. Gli accade senza che lui se lo aspetti e forse senza che nemmeno lo voglia fino in fondo. La sua vita, che fino a quel momento procedeva nella temporalità ripetitiva delle giornate estive di un diciassettenne in vacanza (“Che cosa c’è da fare da queste parti?” “Niente, aspettiamo che l’estate finisca.” “E d’inverno? Aspettate che l’estate cominci?”), subisce uno scossone irreparabile. Guadagnino segue questo evento tramite il lento avvicinarsi dei loro corpi: le gite in bici a Crema, i bagni al fiume, le partite di pallavolo al parco, le occhiate furtive tra le due camere da letto che sono collegate l’una con l’altra. Ma soprattutto segue gli sguardi di Elio che a partire da quel giorno saranno completamente ipnotizzati da un corpo che sembra essere alieno rispetto a tutto ciò che gli sta attorno.

 

 

È difficile dare al desiderio una forma d’immagine, proprio perché è qualcosa che “buca” la serie degli oggetti che coscientemente vogliamo e che “manca” di una sostanzialità immediata. Per questo il cinema, che a volte pare limitarsi alla mostrazione di “quello che c’è”, si trova in difficoltà quando vuole dare l’immagine di qualcosa che “manca”. Abdellatif Kechiche ne La vie d’Adele (e lo farà ancora di più in Mektoub, My love: Canto Uno) decide allora di usare una macchina da presa appiccicata in modo parossistico alla bocca, alla natiche e al corpo di Adèle Exarchopoulos, come se la realtà venisse investita da uno sguardo quasi allucinato che va molto al di là dell’immagine di un corpo nudo. Guadagnino in questo film decide invece di avvicinarsi in modo circospetto all’incontro d’amore di Oliver e Elio, di vedere come l’attrazione si fa largo pian piano nella quotidianità della vita e di come investe gli oggetti che stanno attorno: la collanina ebraica, la camicia dell’uno messa dall’altro, Elio che annusa i pantaloncini di Oliver mentre lui non c’è, i biglietti lasciati sul tavolo, le porte che si chiudono di notte... Come se il desiderio iniziasse a mutare il tessuto del mondo circostante. Quando però arriva il momento del loro incontro d’amore, il primo bacio viene (verosimilmente) lasciato fuori campo così come la loro prima notte d’amore (anche se non manchiamo di vedere lo sperma sul petto di Armie Hammer). Come ha scritto Roberto Manassero su Cineforum sembra che per Guadagnino “il mondo che Oliver ed Elio condividono sia solamente da avvicinare e non da filmare”. Il desiderio non può essere visto proprio perché mancante, e quindi deve essere lasciato fuori campo. Chiamami con il tuo nome sarebbe allora un film sul desiderio che ce lo mostra standoci attorno, facendoci vedere il prima e il dopo, l’erotismo dell’avvicinamento e la malinconia della perdita (già da subito Oliver parla di quello che succederà “dopo”, come se la loro storia fosse inevitabilmente destinata a finire già dall’inizio).

 

Eppure questa è solo una parte della verità, perché Chiamami con il tuo nomeè anche (e forse soprattutto) un romanzo di formazione narcisistico: Oliver per Elio è la proiezione narcisistica di quello che vorrebbe diventare, il suo tramite per l’adultità (“grow up” gli scrive Oliver nel biglietto per il loro primo incontro notturno). Oliver è sempre a suo agio, parla di etimologia senza aver paura di sconfessare il proprio Professore, va a giocare coi vecchi al bar, per tutti è un “figo” (come dicono le ragazzine che lo vedono giocare a pallavolo). Come Elio dice a un certo punto alla madre, “a tutti piace Oliver”: è come se fosse scontato. Però è soprattutto il suo corpo, letteralmente statuario come solo Armie Hammer poteva esserlo, il vero tramite di una tutta una dialettica del rispecchiamento di cui il film è pieno. Le statue innanzitutto, che vediamo già nei titoli di testa del film e che verrà detto durante la catalogazione delle diapositive per il museo “sono così sensuali”, sono il vero oggetto di rispecchiamento. E lo vediamo già nella scena della gita a Sirmione in cui Elio e Oliver si danno la mano l’un l’altro tramite il braccio di bronzo di una statua: come se la relazione tra i due fosse mediata da un’immagine; come se quello che Elio vede in Oliver è soprattutto quel tipo di bellezza, quel tipo di idealità.

 

 

D’altra parte, che la posta in palio di quest’incontro sia soprattutto la costruzione narcisistica ce lo dice chiaramente e platealmente anche lo stesso titolo: “chiamami con il tuo nome, che io ti chiamerò con il mio”. Una frase il cui senso letterale è proprio quello di vedere se stessi “proiettati” nel proprio oggetto d’amore. È Elio che chiama sé stesso nel corpo di Oliver; è lui che dice “ti amo” a se stesso nel momento in cui lo dice all’altro.

 

Le due cose però non vanno affatto dalla stessa parte e anzi sono regolate da una logica completamente diversa: se il desiderio “rompe” le false unità e non è riducibile ad alcun immagine, il rispecchiamento narcisistico risponde invece all’esigenza opposta di proiettare in un’immagine e di unificare. Se l’uno divide, l’altro unisce. Se l’uno ferisce, l’altro ricompone. Dunque da che parte sta Chiamami con il tuo nome? Probabilmente un po’ da entrambe le parti; e tuttavia la centralità del ruolo del padre di Elio (Michael Stuhlbarg) sembrerebbe far pendere per la seconda ipotesi. D’altra parte è lui che già all’inizio del film, quando Elio ancora definisce Oliver un arrogante, gli risponde con “You’ll grow to like him” (finirai per amarlo), come se sapesse già come finirà la loro storia; è lui che sembra assecondare quell’atmosfera in cui si parla apertamente di sessualità tra genitori e figli come nella scena, subliminalmente disturbante, in cui il figlio arriva a colazione e annuncia candidamente al padre “Ah, ieri io e Marzia abbiamo quasi fatto sesso” a cui lui risponde imperturbabile “Ah, bene!”; ed è sempre lui, che in quel meraviglioso e disincantato monologo finale – la sceneggiatura di James Ivory è senz’altro una delle grandi cose di questo film – dice al figlio che praticamente la stessa cosa era accaduta a lui da giovane, ma che non aveva avuto il coraggio di portarla fino in fondo, sottolineando una continuità di esperienza con il figlio.

 

Mentre il desiderio è spesso in conflitto con gli equilibri di una vita, qui Elio, anche se sembra essere sconvolto dall’amore per Oliver, vive sempre in una perfetta linea di continuità il rapporto con la famiglia. Sia la madre sia il padre assecondano in tutto e per tutto quello che fa Elio e sembrano quasi partecipare – ancorché da lontano –  alla vita sessuale del figlio adolescente, non senza una nota vagamente incestuosa. Lungi dall’essere un limite del film, è però questo uno dei suoi aspetti più interessanti – e più bertolucciani – proprio perché introduce una nota dissonante in un’opera che viceversa sembra vivere in un equilibrio quasi aulico. D’altra parte non è un caso che la vicenda si svolga proprio nel 1983, nel mezzo degli anni della reazione neo-familistica e neo-liberale dopo i vent’anni di conflitto che avevano investito la società e la famiglia italiana.

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Luca Guadagnino, "Chiamami col tuo nome"
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Vergogna, nostalgia, risentimento, ansia, pigrizia

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Ci sono i sentimenti positivi e quelli negativi. Dopo aver esplorato odio, invidia, gelosia e noia, un nuovo ciclo di incontri al Circolo dei Lettori di Torino sarà dedicato a vergogna, nostalgia, risentimento, ansia e pigrizia. Conosciamo davvero questi sentimenti? Solo per averli provati? Come sorgono, perché come si sviluppano? Cinque studiosi ci guidano alla scoperta del negativo che ci abita tutti, attraverso la storia umana e culturale di alcuni dei principali sentimenti.

 

Ecco il calendario:

 

Mercoledì 7 febbraio

ore 18 - 19.30

VERGOGNA

Marco Belpoliti

 

Mercoledì 14 febbraio

ore 18 - 19.30

NOSTALGIA

Antonio Prete


Mercoledì 21 febbraio

ore 18 - 19.30

RISENTIMENTO

Pietro Barbetta

 

Mercoledì 28 febbraio

ore 18 - 19.30

ANSIA

Nicole Janigro

 

Mercoledì 7 marzo

ore 18 - 19.30

PIGRIZIA

Gianfranco Marrone

 

Il Circolo dei Lettori

Torino – via Bogino 9

+39 011 432 68 27

info@circololettori.it

 

Novara – via F.lli Rosselli 20

novara@circololettori.it

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Sentimenti negativi
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