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Lacan. Clinica ed etica del godimento

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Nel corso di tutto il suo insegnamento Lacan compie uno sforzo enorme, quello di intendere, sempre e comunque, ilcome e il doveè presente la causa negli effetti – in particolare in quegli effetti di cui la psicoanalisi si occupa e con i quali ha a che fare, e che prendono via via il nome di sintomo, di soggetto, di inconscio, di desiderio ecc. 

Che cosa significa tutto ciò? Significa che Lacan ha cercato fin da subito, e progressivamente in modo più radicale e al contempo rovesciato, di intendere la “funzione”, il “peso” dell’incidenza del significante nel funzionamento del significante, della genesi della struttura nella struttura, della costituzione del soggetto nel soggetto costituito, del trauma nel traumatico, del taglio nel dispiegamento dell’inconscio ecc., dunque appunto la “funzione” e il “peso” della causa nell’effetto. Detto altrimenti Lacan sin dall’inizio del proprio insegnamento cerca di cogliere la funzione dell’accadere nell’accaduto, individuando in questo nodo un punto centrale della teoria e della pratica psicoanalitica.

 

Se si prende come riferimento il testo di apertura degli Scritti, La lettera rubata, si può cogliere come già questo Lacan, nella sua fase più propriamente strutturalista, non è interessato al funzionamento astratto della struttura ma alla sua incidenza, detto altrimenti non è interessato alla struttura ma allo strutturarsi della struttura o, se vogliamo, è interessato alla struttura in quanto modo di strutturarsi della struttura. Quello che nelle pagine di tale Scritto Lacan battezza caputmortum del significante altro non è che la presenza dell’accadere del significante all’interno del funzionamento significante. Il caput mortum del significante è il punto attorno al quale Lacan sviluppa gran parte del suo insegnamento, attribuendogli nomi e funzioni diverse, dal fallo al tratto unario, dal significante padrone al marchio. Proprio per questo è bene non dimenticare che in primis e al fondo, tale punto indica il comeè presente nel funzionamento della struttura il suo aver luogo, di come è presente il suo istituirsi nel suo essersi istituita, di come è presente l’accadere del significante nel suo essere all’opera, cioè nel suo essere accaduto, nel suo dispiegamento.  

 

Tutto l’insegnamento di Lacan è dunque piegato a questa esigenza di maneggiare nel funzionamento significante, dunque nell’inconscio, l’atto che ripetutamente lo istituisce – di maneggiare ripetutamente questo nodo. Molte tortuosità del suo insegnamento trovano in questo nodo una delle ragioni di fondo. Il fatto che le tortuosità aumentino nel corso dell’insegnamento è l’indice ulteriore di una radicalizzazione di tale esigenza e allo stesso tempo di un rovesciamento interno a essa. Il rovesciamento consiste nel non intendere più, o non solo, il “piano” dell’accadere nell’accaduto ma nel maneggiarlo e intenderlo, se posso dire così, inpresadiretta, nel cogliere in sé il piano dell’accadere, fino a isolarlo nella sua separatezza, nel suo carattere assoluto.

Tra le operazioni più note di Lacan, che trova in questo nodo la sua ragione di fondo, c’è l’invenzione del “concetto” di lalingua, che è appunto il tentativo di cogliere in presa diretta il piano dell’incidenza del significante, il suo puro accadere, e non più e non solo estratto e dedotto dal funzionamento del significante. Allo stesso modo l’insistenza ottusa di Lacan sulla topologia rischia di essere uno sterile esercizio di elucubrazione se non vi si coglie il suo tentativo di frequentare l’accadere in sé e non l’accadere dedotto dall’accaduto, se non vi si coglie il tentativo di cogliere «la genesi in atto» (p. 68) dell’esperienza, del soggetto, dell’Altro, invece di dedurre la genesi, la causa, a cose fatte. In tal senso la topologia di Lacan se utilizzata come spiegazione del funzionamento dell’esperienza, dell’inconscio ecc., a cose fatte, è solo un esercizio retorico.

 

 

 

Questo nodo, a mio avviso decisivo in tutto l’insegnamento di Lacan, ha dunque due tempi. Nel primo, si tratta di maneggiare l’accadere nell’accaduto, cogliere l’accadere nell’accaduto. Nel secondo tempo si tratta di maneggiare l’accadere come tale, in sé. 

La mia impressione è che questo nodo sia il punto più dimenticato dai lettori e interpreti di Lacan. Molti degli interpreti più significativi e raffinati non colgono affatto questo punto o lo relegano sullo sfondo. Le ragioni di questa sorta di oblio sono molte. Il testo di Federico Leoni, Jacques Lacan, l’economia dell’assoluto (Orthotes, 2016, pp. 158) ha il grande merito – merito enorme e impareggiabile – di assegnare, e riconsegnare, a questo nodo il peso che ha. Lo fa a modo proprio, concedendosi cioè sia il rigore sia il divagare, e lo fa non tanto muovendosi all’interno dell’insegnamento di Lacan quanto facendo muovere questo stesso insegnamento. Lo fa cioè non tanto attraverso un’indagine serrata dei passaggi dell’insegnamento di Lacan dove risuona prepotentemente il nodo in questione, ma andando a cogliere e lavorare una divisione dello stesso insegnamento di Lacan attorno ad alcuni grandi problemi. Questa divisione è ciò che fa intendere come ci sia un Lacan che si occupa dell’accadere attraverso il primato dell’accaduto, e un altro Lacan che si occupa dell’accadere attraverso il primato dell’accadere. La divisione è essa stessa un accadere, o detto altrimenti è l’indice di come Lacan sia sempre e da sempre alle prese con il problema dell’accadere in ciò e di ciò che accade.

 

La prima questione, e dunque la prima divisione di Lacan affrontata dal lavoro di Leoni, non poteva che essere quella del godimento. Niente evidenzia e niente dunque nasconde meglio del problema del godimento il nodo gordiano accadere-accaduto. 

Lacan ha per molto tempo – senza mai smettere del tutto – cercato di intendere il godimento a partire dal simbolico e dall’immaginario, detto altrimenti a partire dalla legge, dal soggetto, dal desiderio, dal funzionamento dell’inconscio. Situato in tal modo, il godimento ha assunto varie declinazioni, incarnando la ripetizione, la spinta acefala e mortifera, l’eccesso dissipativo e traumatico che sempre abita e causa l’essere umano. Intendere il godimento sempre e solo a partire dal sapere, dal funzionamento del significante, non può che lasciarlo declinare e manifestarsi come rovina e/o eccesso dello stesso e nello stesso funzionamento significante. 

 

Quando Lacan prova a intendere il godimento in sé – il SeminarioXIXè in tale direzione decisivo anche se non c’è un punto preciso di svolta ma una serie infinita di variazioni che portano Lacan in questa nuova prospettiva – si ritrova con tutt’altro problema tra le mani. Si trova infatti ad avere a che fare con un godimento che incarna il puro accadere, l’atto in atto, la pulsazione incessante, il taglio ripetuto: «vi sono dunque due godimenti, l’uno dal punto di vista della legge, come il suo residuo, il suo resto inassimilabile, che tuttavia la presuppone sempre e la rafforza costantemente; l’altro, che potremmo chiamare il godimento in sé, il godimento che accade al di fuori di ogni rapporto con la legge in quanto è istitutivo della legge stessa. In sé, questo godimento non è affatto un eterno ritorno (“cieco”, “mortifero”) dell’identico. È piuttosto l’evento incessante, ogni volta assolutamente unico, di una differenza pura. È il vivere inumano che continua a vivere al fondo del soggetto “umano”» (p. 25). Con Lacan possiamo dare un nome provvisorio a questi due godimenti: godimento fallico il primo, godimento Uno il secondo. 

Uno è la cifra del puro accadere, dell’atto in atto, e dunque del godimento – Uno senza Altro lo chiama spesso Lacan. Due è la cifra degli accadimenti causati continuamente dall’accadere dell’Uno, è la cifra del movimento di soggettivazione, desiderante, causato incessantemente dall’accadere, cioè dall’Uno – Uno nell’Altro chiama spesso Lacan il come è presente l’Uno in questo movimento e in questo continuo spostamento che è poi la soggettività.  

 

La pratica analitica deve maneggiare questo Uno nell’Altro per arrivare a toccare l’Uno senza Altro. Detto altrimenti la pratica analitica deve maneggiare il godimento in sé per come esso è presente nel movimento della soggettività, del quale è causa, per estrarre il godimento in sé e permettere all’analizzante di incontrarlo e a tratti di diventarlo (p. 151).

Da qui Leoni ricava una clinica del godimento, un’etica del godimento e un’economia del godimento da differenziare radicalmente da una clinica della mancanza-desiderio, da un’etica della mancanza-desiderio e da un’economia della mancanza-desiderio. Qui la sua tesi diventa radicale in quanto non viene proposta alcuna dialettica tra queste due dimensioni – e direi che tutto il testo certifica un certo disfarsi di qualsiasi forma di dialettica. La clinica-etica-economia della mancanza-desiderio non sarebbe dunque che un effetto del godimento Uno, dell’accadere dell’Uno e al contempo di un’operazione su di esso. Tale operazione origina nel dispositivo più profondo della metafisica di Aristotele, ossia la scomposizione dell’accadere della vita, del farsi della vita, in due dimensioni, la dimensione della potenza e la dimensione dell'atto. Da tale operazione consegue la suddivisione della vita tra un prima e un poi, tra un non-più e un non-ancora, la partizione della materia e della forma – in sostanza la separazione della vita da se stessa che fa della vita “mancanza di” e “ricerca verso”.

 

Ogni clinica-etica-economia della mancanza-desiderio di conseguenza non si occupa e non attiene al reale della vita, al reale della “sostanza delle cose”, perché non si avvede della fallacia epistemologica su cui si fonda, ossia quella di confondere l’accadere con l’accaduto, le cose fatte con ciò che le fa, il fatto con il farsi, il movimento con l’atto. Pertanto non si tratta di mettere in dialettica queste due cliniche, queste due etiche, queste due economie, ma di disgiungere il più possibile quella del godimento, quella dell’assoluto, da quella del desiderio, dello spostamento, e occuparsi esclusivamente della prima: «l’economia dell’assoluto non va detta dialetticamente, ma va “fatta” clinicamente, caso per caso, esperimento per esperimento» (p. 131)

Questa radicalità porta con sé altre due tesi radicali, vale a dire quella di un materialismo attualista e non di un materialismo sostanzialista e quella dell’autismo dell’Uno come pulsazione apertissima e non come chiusura mortifera. 

 

Magritte, Les amants. 

 

La prima tesi ha una portata clinica molto significativa. Con Lacan non dobbiamo cadere nel materialismo ingenuo e psicologico che suppone l’esistenza di una materia, di una sostanza, di un reale informe, della Cosa, su cui l’azione del linguaggio, della cultura, dell’Altro andrebbe a scavare una mancanza da cui l’istituzione del desiderio e della legge. La Cosa, la sostanza, la materia, è l’incidenza del taglio, taglio che l’accadere di ogni cosa che accade è, taglio che dunque non è taglio di niente ma taglio in sé, taglio in sé che è la vera materia, la vera sostanza, che non manca di niente ma che crea dal niente una materia ripartita e tagliata e dunque anche caratterizzata dalla mancanza: «ciò che apparirà mancante e ciò di cui esso apparirà mancante, sono figure tutte inscritte nell’atto di tagliare, che quanto a lui non è mancante di nulla, che quanto a lui è assoluto» (p. 43-44). La materia con la quale è alle prese la pratica analitica – e secondo Leoni ogni pratica che possa dirsi tale – non è dunque quella parte di materia che il linguaggio non è riuscito ad afferrare ma l’incidenza stessa del linguaggio, il suo accadere costantemente in atto.

 

L’Uno, come in parte visto, è la vera cifra di questo testo. L’Uno non è che l’evento dei molti, l’accadere di quel che accade, dunque non è che taglio di quel che si dispiega, non è che il farsi incessante della vita, di Una vita, sempre in atto nella vita vissuta e nelle sue molteplici esperienze, accadere della vita che è il tracciare, tagliare, incidere, marchiare, al fondo di ogni vita tracciata, tagliata, incisa, marchiata. La formula di Lacan “c’èdell’Uno” scrive proprio l’Uno come atto e non l’Uno come qualcosa che c’è – per questo Lacan non scrive “c’è l’Uno”. Autismo diventa il termine più adatto per nominare questo puro accadere, in quanto ne nomina efficacemente il “carattere” assoluto, cioè assolto dalla relazione, irrelato, separato. Ma usare un termine così pesante, così carico di significazione e così carico – se posso così dire – di dolore, usare il termine che più di ogni altro in psicoanalisi, e non solo, nomina la chiusura mortale e senza uscita, il buio della vita ripiegata su se stessa e per questo spenta e insopportabile, usarlo, appunto, per indicare il farsi della vita, va ben al di là della provocazione. Fare del termine autismo il nome dell’incessante farsi della vita, l’evento apertissimo del suo accadere, e non la chiusura della vita, la sua mostruosa contorsione, ha un valore paradigmatico, quello di smettere di intendere la vita a partire dal suo dispiegamento e frazionamento, dunque a partire dalla funzione dell’Altro, e iniziare a intenderla a partire dal suo semplice accadere.    

 

 

In questa direzione si potrà forse un giorno intendere appieno cosa voglia dire il fatto che il nostro tempo è il tempo del desiderio, cioè del rinvio della vita come struttura della vita, ed è il tempo del simbolico, cioè della funzione di un Altro che separa sempre più la vita dalla vita, foss’anche in quella modalità nuovissima e vecchissima dell’imperativo a godere, che proprio in tal modo già di per sé stacca il godimento dall’atto e ne fa un qualcosa da cercare e avere. In questa direzione il testo di Leoni potrà forse un giorno farci intendere, e tenerne conto nella pratica clinica, cosa voglia dire che «non siamo fatti di atti, ma siamo sempre e soltanto un atto» (p. 48).     

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Un libro di Federico Leoni

La strage di Nizza e l'età psicotica

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Siamo in epoca psicotica, non è la prima e non sarà l'ultima, nessuna apocalisse. Cos'è un'epoca psicotica? Come insegna Paul-Claude Racamier (1924-1996), la psicosi – tra gli altri sintomi familiari - è la negazione di qualsiasi tipo di conflitto. Nei sistemi psicotici “conflitto”, per definizione, significa “distruzione”. Bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Nei momenti in cui il conflitto “si mostra” - come direbbe Wittgenstein - si mostra in termini distruttivi, unica sua possibilità, giacché il resto deve essere “dialogo”. Sintassi dei sistemi psicotici.

 

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Il narcisismo estremo e il terrorista

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L’irruzione improvvisa di una potenza ignota o la lenta e distillata penetrazione attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere in grado di generare il desiderio di gloria che coinvolge e travolge le personalità dei terroristi suicidi.

 

I Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza nel giorno anniversario della rivoluzione francese, il 14 luglio 2016, ha ricevuto una radicalizzazione rapida della sua scelta. Atta, il capo terrorista dell’attentato alle Torri gemelle aveva avuto una lunga preparazione. Percorsi diversi per esiti simili. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se stesso. Tanto che se il terrorista suicida non muore si tende a considerare fallita l’operazione, come hanno già sostenuto Diego Gambetta e con lui Marco Belpoliti occupandosi del tema su doppiozero. L’azione terroristica suicida diventa allora una finalità trascendente basata sulla distruttività come fine ultimo. Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza che deriva dal compimento del sacrificio di se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore al narcisismo, le leve psichiche interiori, sollecitate dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide. Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra quella in corso, se non risponde a nessuno dei criteri con cui nel tempo è stato identificato quel fenomeno. Riprendendo quello che ha scritto Sergio Benvenuto: il vero fine del terrorismo non è vincere una guerra ma farci vivere nel terrore; se la guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un fine a muovere il terrorismo suicida. Così come accade quando si vede qualcuno correre in motocicletta così all’impazzata viene da domandarsi se non stia sfidando la morte e se chi lo fa non abbia piuttosto paura di vivere. Era stato Lucio Battisti qualche anno fa a cantare: correre a fari spenti nella notte per vedere se è tanto difficile morire.

 

 

Siamo di fronte con ogni probabilità ad una "distruttività trascendente ", e a renderla tale concorrono molti fattori, il primo dei quali sembra essere, con molte probabilità, la simultaneità pervasiva e quasi metafisica della rete, con la sua incondizionata liberazione del desiderio fine a se stesso, con la spettacolarizzazione virale e la neutralizzazione del tempo e dello spazio. Il desiderio, si sa, è sostenuto da un’area emozionale di base, una di quelle manifestazioni che ci coinvolgono prima delle nostre intenzioni e della nostra volontà. Prima desideriamo, infatti, in termini di nanosecondi – una misura che la nostra mente non è in grado di cogliere – e poi sentiamo che stiamo desiderando. Ogni desiderio può essere filtrato o meno dalla riflessione e dalle relazioni. Può accadere che si esprima senza filtro e allora diventa azione prima del pensiero che potrebbe temperarlo. Quando l’aggressività umana si esprime in presa diretta può diventare immediatamente distruttiva e trascende, per così dire, il soggetto che la mette in atto. Non è quindi inutile se non agli occhi di chi non vive quell’esperienza autoesaltante e totalmente coinvolgente. La dimensione trascendente di quella distruttività è peraltro paradossale nel momento in cui l'efficacia e il riconoscimento della sua azione e soprattutto dei suoi protagonisti si situano nella reputazione immanente che genera. Insomma, pur non agendo per la propria fortuna terrena i terroristi suicidi finiscono per ottenere una elevata reputazione e un riconoscimento sorprendente persino nel mondo a cui appartengono le loro vittime.

 

Stefano Chiodi aveva posto, dopo Charlie Hebdo, le premesse per una lettura di quello che sta accadendo sostenendo che il terrorismo islamista rappresenta molto più di una deriva violenta e intollerante che sembrerebbe facile dismettere come rigurgito di una brutale irrazionalità. Lo “scopo inaccettabile” che muove i terroristi suicidi, di cui aveva parlato Chiodi, pone una domanda che egli stesso aveva formulato: Come può una forza che corrompe, uccide, umilia, depreda, sradica e nega alla vita ogni dignità apparire così seducente in nome di questa stessa vita? Emergono gli estremi di un’estetica della distruzione come possibile via per comprendere quello che succede. La cura nei preparativi e la scelta degli obiettivi, da Charlie Hebdo, al Bataclan, a Bruxelles o a Nizza, o nella serie di attentati nei paesi africani e fin dalle Torri Gemelle di New York, mostra una attenta selezione della rilevanza simbolica e mediatica degli effetti comunicativi delle azioni. Si tratta di bersagli con elevata attesa di risonanza e, si sa, tra estetica e terrore vi sono forti affinità relative alle dinamiche del sentire. Le stesse leve interiori che portano un osservatore a risuonare con un’opera mentre ripercorre il gesto dell’artista, sono quelle che fanno detonare in tutti e in tutto il mondo il gesto del terrorista.

 

Fare un gesto per un cielo deserto di dèi con un occhio alla celebrità nel mondo terreno, trasformando quest’ultimo in un deserto di relazioni, sembra questa la finalità perseguita dal terrorismo suicida.

 

L’incertezza e la manipolazione semplificatoria dei riferimenti religiosi che emergono dalle comunicazioni provenienti dagli ambienti del terrorismo non consentono di comprovare una centralità della religione nelle azioni di terrorismo suicida e distruttivo. Anche se la religione non è mai stata estranea alle guerre, in modi diretti e indiretti, in questo caso richiamare la religione pare proprio un paravento, uno specchio per allodole, ma forse non è esattamente così. La trascendenza della distruttività si presenta soprattutto come un rituale di autoesaltazione che eleva chi la pratica con componenti evidenti sacrificali ed eroiche. La veste religiosa, infatti, sembra solo appena ricoprire superficialmente le gesta terroristico-suicide. Ne costituisce forse una leva, una miccia, ma l'esplosivo è fatto d'altro. La ricerca narcisistica di protagonismo ad oltranza, per individui in crisi di legame ed educati nell'indifferenza, che acriticamente confondono sul piano affettivo il reale col virtuale, attrezzati ed equipaggiati con alti standard persino nell'abbigliamento, si presta efficacemente a servire interessi finanziari di scala planetaria dove il confine tra regolare e criminale non è più riconoscibile. La religione fa da collante educativo col suo potere di modellazione delle capacità neuroplastiche del corpo-cervello-mente umano. Noi possiamo essere coinvolti e fortemente influenzati dalle relazioni e dal contesto in modi di cui non sempre ci rendiamo conto: ci stupiamo piuttosto quando osserviamo come gli altri sono influenzati e coinvolti. Se poi quell’influenza e quel coinvolgimento riguardano contenuti e scelte a noi estranei, allora tendiamo a non comprendere come possa accadere.

 

Eppure il poeta latino Terenzio, ripreso da Michel de Montaigne, ha scritto: “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. I modi in cui si combinano le cose nella storia personale dei terroristi suicidi e nel sistema di cui fanno parte ci appare lontano perché non ne siamo parte, ma è un fatto che quella combinazione sia tremendamente efficace. Come il comunismo per Lenin era uguale a elettrificazione più soviet, per il terrorismo suicida sembra equivalere a desiderio distruttivo più gloria.

 

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Che cosa cambia nello scenario dell'aggressività e della distruttività umane con il terrorismo suicida? A cambiare sembra soprattutto la natura nota della guerra come forma di aggressività distruttiva organizzata. La guerra è stata ed è una delle espressioni delle relazioni umane, messa in atto da parte di una specie che, col linguaggio e la competenza simbolica, è in grado di prevedere e sapere che cosa fa male – oltre che cosa fa bene – ai propri simili. Questa forma antagonistica convive, nelle relazioni umane, col conflitto inteso come incontro di differenze culturali, di individuazione, di interessi, di conoscenze. Convive naturalmente anche con l'accordo e la cosiddetta pace, e convive con l'indifferenza, intesa, quest'ultima, come una sospensione eccessiva della risonanza incarnata con gli altri. Oggi è forse l’indifferenza uno dei problemi più diffusi e la crisi di legame sociale ci riguarda tutti. Il vuoto di senso che crea ha certamente a che fare con le diversificate forme di adesione che tanti giovani nati e cresciuti in città europee ma a “mezza parete” tra culture e religioni di origine e culture di inserimento, manifestano verso il terrorismo suicida e la violenza. Le storie personali dei terroristi suicidi di Bruxelles o del Bataclan, ad esempio, sono idealtipiche di questa prospettiva.

 

Col terrorismo suicida, l'aggressività umana, come tratto costitutivo specie specifico, assume una connotazione peculiare e originale che merita di essere analizzata e che non è facile da comprendere. Mentre nella guerra e nelle sue forme note l'azione distruttiva contro l'altro era ed è condotta con l'attesa e la ricerca di uccidere senza essere uccisi, nel terrorismo suicida le cose non stanno così. La componente rituale della guerra e il suo piacere nascono dalla possibilità di liberarsi della paura del nemico per poter continuare poi a vivere "in pace", essendosene liberati. Nella guerra, in fondo, siamo di fronte a un intenso progetto di conservazione di sé, in cui sia la sostanza che l'intensità mirano alla sopravvivenza di se stessi e dei propri affini mediante la soppressione degli altri che sono nemici. In situazioni di guerra, insomma, la dinamica hospis/hostis è nettamente definita e l'altro diventa inospitabile e perciò insalvabile, ma per salvare ad ogni costo se stessi. L'esaltazione distruttiva che pure esiste è immanente e prevede la negazione dell'altro, con lo scopo principale di salvarsi. Una certa sacralità rituale è stata ed è presente nella guerra così come la conosciamo, ma nel terrorismo suicida l'autoesaltazione sperimenta un'escalation che è sostenuta da una metafisica della missione. Anche se si hanno elementi per ritenere che la componente religiosa trascendente lasci il posto a un narcisismo estremo, che si compiace dell'azione distruttiva in sé con una componente di mistica del terrore e dell'atto estremo, sempre più estremo e ben riuscito, da celebrare poi con la festa da parte del gruppo di riferimento dei martiri, di coloro che si sono martirizzati in un'estetica del terrore.

 

Nel terrorismo suicida la motivazione è, quindi, del tutto diversa da quella della guerra, o almeno così pare si possa ipotizzare. Una élite di individui letteralmente eletti, e in grado di sentirsi tali, consegna la propria vita a un sistema reputazionale molto potente, tanto potente da richiedere e ottenere che il sacrificio estremo sia vissuto come il supremo valore. Non è facile comprendere come sia possibile tutto questo. Per quanti sforzi si facciano, appare inaccessibile pensare e accettare che si possa uccidere per uccidere, che si possa colpire persone definite innocenti, che tra gli uccisi ci siano bambini. Tutte queste considerazioni trascurano due cose essenziali: che siamo esseri caratterizzati da neuroplasticità e che l’educazione plasma l’individuazione. Noi esseri umani non siamo, ma diventiamo e se ci chiediamo come si creano teste come quelle che praticano il terrorismo suicida, ebbene è opportuno rispondersi: come si creano tutte le altre teste, con le relazioni, con l’educazione e grazie alla neuroplasticità in quanto condizione necessaria ma non sufficiente, poiché è nelle relazioni che si forma l’individuazione e il cervello da solo non basta. Sappiamo infatti che è la relazione che fonda il soggetto e non viceversa; ci vuole un corpo in azione e in relazione con altri per ottenere un essere umano così come lo conosciamo, in tutte le sue manifestazioni. Il mondo interno fa da motore emozionale e spinge all’azione: può farlo, spesso, senza la mediazione della riflessione e quando accade comandano i processi emozionali allo stato immediato. Nel caso del terrorismo suicida e della sua distruttività trascendente siamo di fronte all’area emozionale del desiderio che nei terroristi sembra agire in modo immediato e senza freni. Reciproca alla loro azione è l’area della paura, che ormai comanda in tutti e crea nella maggioranza quel processo di “vittimizzazione secondaria” di cui abbiamo già avuto modo di parlare. La relazione tra chi semina il terrore suicidandosi e chi subisce quel terrore si basa in tal modo sul legame desiderio-paura. Del resto già Spinoza aveva, con un accento piuttosto eccezionale, come dice Lacan, sostenuto che “il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo, nella misura in cui essa è concepita a partire da qualcuna delle sue affezioni, concepita come dominata da una qualsiasi delle sue affezioni e determinata da questa a fare qualcosa”. A proposito del desiderio è importante distinguere tra tendenza e volontà: mentre la volontà implica qualche forma di ordine e di finalità organizzata, il desiderio come tendenza è ribelle a ogni forma e si realizza nella sua pura espressione e manifestazione.

 

Nella distruttività trascendente del terrorismo suicida, in particolare negli esecutori finali, sembra esserci all’opera il desiderio come tendenza, catturato e canalizzato certamente, anche in modo immediato e contingente, dagli organizzatori mandanti, che fanno leva su relazioni educative lungamente strutturate, ma anche su reclutamenti immediati che si agganciano proficuamente a forme di disagio e di alienazione, grazie all’efficacia della rete e alla sua problematica potenza di penetrazione e coinvolgimento senza riflessione e senza dubbi. L’azione educativa penetrante e capillare insieme alla contingenza del disagio e dell’alienazione si mostrano alla base delle forme di reclutamento dei terroristi suicidi, facendo sì che ci vogliano anni o poche settimane per fare una testa che chi ha paura ed è terrorizzato definisce mal fatta, ma che mostra di avere reputazione elevata nei gruppi di riferimento a cui i terroristi appartengono e, comunque, una forte attrazione in termini di stile, di manifestazione di potenza e di presenza pervasiva reale e fantasmatica nel mondo quotidiano di chi ha paura.

 

William Turner, Tempesta di neve (1842)

 

Come risulta da una ricerca  dell’IHS Jane’s Terrorism and Insurgency Centre, centro studi con sede a Englewood (Colorado, Stati Uniti), l’aumento esponenziale di morti per terrorismo suicida in Africa e nei paesi occidentali è stato del 750% dal 2009 al 2015, con l’emergere di nuove tendenze che hanno contribuito in maniera determinante alla moltiplicazione degli attentati. Mentre in Africa l’evoluzione del fenomeno sarebbe riconducibile a tre fattori: la collaborazione tra il gruppo nigeriano Boko haram e il Gruppo stato islamico (Is), l’espansione in Africa occidentale di al-Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim) e la resilienza di al-Shabaab in Somalia, nei paesi europei e occidentali le fonti di adesione e reclutamento sono strettamente connesse al disagio dell’interazione tra culture e appartenenze delle seconde o terze generazioni e ai disagi e all’alienazione connessa al conflitto fra orientamenti culturali e problemi di integrazione. Nello specifico, in ogni caso, si registra un notevole potenziamento delle capacità di comunicazione, grazie alle elaborate tecniche utilizzate dai centri di organizzazione del terrorismo suicida, che si combina con la creazione di processi educativi mirati ed efficaci. I gruppi organizzatori producono video e messaggi audio nel quadro di una più complessa ed estesa strategia di consolidamento della propaganda jihadista, postando in rete filmati di attacchi e criticando duramente chi sostiene i governi centrali. Il tutto alternando l’arabo alle lingue locali. La funzione di collante ideologico svolta dalla religione in tutto questo richiede una riflessione attenta. Oltre alla tradizionale e costante connessione tra religione e violenza, in particolare in occidente, la crisi del sacro osservata negli ultimi decenni del ventesimo secolo, pare lasciare il posto a un forte ritorno di attenzione per inedite forme di sacralizzazione non sempre facilmente riconoscibili come tali. Rimane il fatto che il terreno, in particolare in certi contesti, sembra essersi fatto più fertile per adesioni acritiche e settarie a forme religiose.

 

La crisi di legame sociale, l’indifferenza e l’alienazione che caratterizzano la vita di parti ampie delle società occidentali, pare canalizzare la domanda di sacro, propria degli esseri umani, verso forme organizzate estreme e capaci di rispondere alla domanda di senso e di autorealizzazione, capaci di corrispondere al desiderio di protagonismo e di affermazione così sospeso e alienato. L’immediatezza, la simultaneità e la confusione fra reale e virtuale propria della pervasiva presenza dei social media, crea processi di connessione e adesione contingenti e lontani dalla riflessione e dalla responsabilità, generando forme inedite di azioni e comportamenti. Si creano per queste vie condizioni favorevoli e un humus adatto a fornire risposte a desideri di gloria, affermazione e rivalsa, a risentimenti e attese di nuovi eroismi, che preparano, probabilmente, a una disposizione a praticare le forme di distruttività trascendente che stanno trasformando le nostre vite e la nostra socialità.

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Una riflessione psicologica

Il lume del sentimento e della ragione

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Sottotitolo: 

In questo sito Marta Baggiani scrive:

 

“Oggi io mi sento di combattere una guerra: una lotta contro la paura, contro l’ignoranza, contro chi ci vuole spaventati e manipolabili. A tutti loro dico: NOI NON ABBIAMO PAURA. Ci siamo fatti in quattro per aprire le nostre menti, sui libri ma soprattutto in giro per il mondo, dove abbiamo raccolto il fiore della tolleranza e piantato il seme dell’amicizia, quella che non guarda alla religione e al colore della pelle. Non avremo paura di prendere i nostri aerei per vedere se quei semi crescono. Non avremo paura di continuare a viaggiare, vedere, toccare, sorridere, amare oltre ogni confine. Lo faremo per la nostra causa. La nostra lotta è senza bombe, ma noi non abbiamo paura. E se cadremo vorrà dire che, come i nostri bisnonni non troppi anni fa, avremo combattuto per il valore più bello che c’è: la nostra LIBERTÀ. Questa è la nostra resistenza”.

 

Marta rappresenta, in modo splendido, una minoranza attiva. Questa minoranza – non so che tipo di studi Marta svolga – si è piegata sui libri, ha girato il mondo per incontrare gente come lei, si è sforzata di capire, di comprendere. Ci sarà ben qualcosa dietro la difficoltà di un testo filosofico, oppure dietro a un complesso teorema matematico. Ci sarà dietro pure un storia, oppure sono, come pensa la maggioranza che urla o uccide, elucubrazioni intellettuali?

 

Perché a questo siamo, chi studia per capire che cos'ha a che fare Platone, Hegel, la teoria della relatività, la biologia molecolare, con la libertà e la pace è, oggi, il capro espiatorio della maggioranza che grida, nascondendo la testa. Oppure di chi uccide. Faccio una differenza tra chi grida e chi uccide, certo. Mi domando solo se, chi grida, non dia spunti a chi uccide.

Siamo in un'epoca in cui le librerie e le case editrici chiudono, mentre le fabbriche di armi proliferano; dove, se hai un problema, hai la possibilità di prendere una sostanza chimica (legale o illegale) che te lo risolve.

 

Che c'entrano i libri? Bruciamoli!

Marta non ci sta. Combatte una battaglia per la pace, la libertà e la cultura.

Io sono ammirato di Marta e di tutte le persone come lei, che tra i venti e i trent'anni si battono con questo coraggio. Marta ha ragione a parlare ai suoi genitori, a noi che veniamo da un'altra generazione, che abbiamo vissuto un'epoca nevrotica, in cui parcheggiare in divieto ci faceva sudare per avere trasgredito una regola, in cui si entrava in una libreria e ci si rimaneva per ore, a cercare i libri, in italiano, ma anche in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, ebraico, arabo, se si poteva, col testo a fronte per capire meglio, si passavano ore e ore al tavolo. Il libro cartaceo, sottolineato, con appunti a margine, sciupato, era uno dei nostri punti di riferimento.

Quando non capivamo, non attribuivamo mai all'autore di non “scrivere come magna”, andavamo altrove ad approfondire. Sapevamo che esiste una tradizione di studi, di ricerca. A quell'epoca, fuori per le strade, era tutto relativamente tranquillo.

 

Arrivò anche l'era degli anni di piombo, si era annunciata il 12 dicembre del 1969 a Milano, ed ebbe un'escalation che culminò con l'assassinio di Moro il 9 maggio 1978. Episodi psicotici, sconvolgenti, ma scandalosi perché erano eccezioni. Insomma, noi figli del baby boom siamo vissuti per un lungo tratto della nostra vita, come dice un'espressione volgare, col “sedere nel burro”. Non c'erano tutti quei programmi Erasmus, ma all'estero ci si andava, i professori ci accoglievano, senza nessuna carta burocratica, si discuteva per strada, mangiando insieme. C'era fiducia nel prossimo, si faceva perfino l'autostop! Non ci riconoscevano gli esami, eppure si andava come ora.

 

La proposta di chiamare il periodo che stiamo vivendo “epoca psicotica” è conseguente alla mia formazione come psicologo clinico. Da molti anni studio i sistemi sociali attraverso le lenti cliniche, il mio laboratorio sono le sedute di psicoterapia – personale, familiare, di gruppo – spesso mi capita di lavorare con migranti, profughi e richiedenti asilo politico, di fare etnoclinica.

 

Un sistema psicotico, dal mio posto di osservazione, si basa sulla costruzione dell'indifferenza.

 

Vediamo se riesco a spiegarmi meglio: tu fai qualcosa, per esempio abbracci una persona, questa persona si irrigidisce e, in qualche modo, mostra fastidio. Fin qui nulla di grave, potresti avere infranto una regola sociale, religiosa, culturale, nulla è scontato. Poi questa persona ti attribuisce la colpa di non essere abbastanza caloroso, di avere paura dei tuoi sentimenti. Anche qui sto descrivendo una situazione, benché antipatica, che capita per esempio quando si litiga. Tuttavia, in quella circostanza, c'è, in aggiunta, una regola inconscia e inter-soggettiva. La regola dice: “È severamente vietato protestare, confliggere, discutere. Devi sopportare”.

 

Un altro esempio, una variazione del primo: tu sei un'insegnante di letteratura americana in un paese dove vige una “dittatura democratica”; un giorno uno studente del tuo corso ti chiede – siamo in democrazia, lecito domandare! – l'opinione su una legge del tuo paese, tu critichi la legge, non ti sembra una legge, ma un modo per arrestare ingiustamente una persona. Il giorno dopo un commando si reca a casa tua per linciarti in virtù dell'applicazione di questa stessa legge. In questo caso, l'eliminazione del conflitto avviene attraverso la stessa regola: “È severamente vietato protestare, confliggere, discutere. Devi sopportare”.

 

Questa volta però la regola non è più inconscia. È oscena. L'osceno psicotico sta in questa distorsione letale: qui c'è democrazia, puoi fare ciò che ti pare, dentro la scena, davanti alla televisione. Fuori scena c'è una feroce dittatura. Fuggi in Europa.

 

Terzo esempio: tu stai discutendo di politica con un tuo parente importante, una specie di leader politico-mafioso. Mostri il tuo dissenso verso di lui, denunci anche la sua maniera corrotta di gestire la cosa pubblica. Lo fai davanti a tutta la famiglia. Lui ti sorride. Il giorno dopo, mentre stai rientrando a casa, un gruppo col passamontagna ti aggredisce. Vieni picchiato fin quasi a morire, poi vieni torturato in una stanza, con filo elettrico. Non saprai mia chi sono le persone che ti hanno torturato. Fuggi in Europa.

 

Queste persone sono riuscite a raccontare, sono sopravvissute, ce l'hanno fatta. Ora hanno un altro problema: queste storie, che noi ascoltiamo durante gli incontri etnoclinici, verranno credute dai giudici, o, come nei sogni di Primo Levi, cadranno nell'indifferenza?

 

Questo mi fa pensare: siamo in un periodo psicotico. Non è la fine del mondo, ce ne sono già stati, anche di peggiori. I miei genitori, i nonni di Marta, hanno attraversato una guerra devastante, lo sterminio eugenetico, la Shoah. I miei coetanei polacchi, cechi, slovacchi, romeni, della Germania Democratica, coloro che vissero in quell'inferno che si chiamava Unione Sovietica, incarcerati repressi, uccisi, morti d'inedia in Siberia, come Emilio Kléber, combattente ebreo nella guerra civile spagnola, considerato traditore da Stalin, che gli strappò una falsa confessione sotto tortura.

Quando si scoprirono gli asili infantili della Bulgaria, con una miriade di bimbi in condizioni pietose, si scoprì che gli “operatori” che lavoravano in quegli asili ritenevano quei posti “normali”; quando vediamo un paziente legato al lettino, sostiene Peppe Dell'Acqua, in quel momento assistiamo a un “crimine di pace”. Per paura stiamo zitti, facciamo finta di nulla.

 

Cos'è dunque un sistema psicotico? È un sistema che si basa sull'indifferenza di fronte alla corruzione, all'eversione, alla tortura, al terrore, nelle parole e nei gesti, e che, contemporaneamente, esalta la morte e il suicidio “eroico”. Ci siamo dentro tutti, ha una forza significante enorme.

 

Marta, penso che le parole di Charlie Chaplin ti siano di conforto, sopravviverai, perché il mondo ritroverà il lume del sentimento  e quello della ragione. Questa è la nostra resistenza.

 

 

Hannah, significa Grazia, è il nome invocato da Chaplin. Marta invece significa Signora, Lady. Abbiamo bisogno di signore come te, che ci richiamino sempre alla ragione.

 

Marta, puoi sentirmi?

Ovunque tu sia, abbi fiducia.

Guarda in alto Marta

le nuvole si diradano

comincia a splendere il sole

prima o poi usciremo

dall'oscurità, verso la luce

vivremo in un mondo nuovo

un mondo più buono

in cui gli uomini

si solleveranno al di sopra

della loro avidità,

del loro odio, della loro brutalità.

Guarda in alto Marta,

l'animo umano troverà le sue ali,

e finalmente comincerà

a volare sull'arcobaleno

verso la luce della speranza.

Verso il futuro,

il glorioso futuro che appartiene a te,

a me, a tutti noi.

Guarda in alto Marta, lassù.

 

Marta, c'è stato di peggio, tu sopravviverai e ricorderai.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
A Marta Baggiani

Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale

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Di che si occupa la psicoanalisi? In particolare quella lacaniana? Si occupa del reale, è la risposta netta dello psicoanalista Alex Pagliardini, nel libro che ha da poco pubblicato con le edizioni Galaad (16 €): Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale. È una risposta non scontata, al contrario, perché il senso comune pensa che la psicoanalisi abbia a che fare soprattutto con parole e interpretazioni, con spiegazioni, con il senso “nascosto”; in sostanza con il linguaggio. No, la psicoanalisi si occupa invece del corpo. Ma di un corpo particolare, il corpo pulsionale. Lacan ci ha fatto comprendere che si diventa umani quando nel corpo di un piccolo mammifero entra il Simbolico. Fra simbolico e corpo comincia così una lotta all’ultimo sangue che non è sanabile, perché Homo sapiens coincide con questa lotta. Il reale del corpo, allora, è una condizione da conquistare, proprio perché il corpo umano, in quanto corpo simbolico/pulsionale, non è mai soltanto o esclusivamente corpo. Pagliardini segue questo movimento – dal simbolico verso il reale del corpo - attraverso dieci ricchi capitoli, che esplorano in dettaglio (talvolta anche nel dettaglio dell’analisi dell’autore) le forme che questo stesso reale assume, o può assumere, nelle nostre esistenze. Abbiamo pensato che il modo migliore per presentare questo lavoro fosse lasciare la parola all’autore, a partire da alcune domande che la lettura del libro aveva sollecitato. 

 

 

Cominciamo con una domanda più generale: Jacques Lacan. Ti sarai fatto una idea del perché, in questi anni, e in Italia in particolare, Lacan sia diventata una figura così presente e discussa, sui quotidiani, in Tv, ma anche in diversi dipartimenti universitari di Filosofia, quegli stessi Dipartimenti che per tanti anni lo avevano dimenticato? Un ruolo decisivo l'ha svolto sicuramente Massimo Recalcati, che ha saputo portare Lacan all'attenzione di un vasto pubblico che, finora, l'aveva probabilmente percepito come troppo difficile, se non del tutto incomprensibile. E però forse c'è anche altro. Che ci dice, Lacan, proprio ora?

 

C’è qualcosa di decisivo in Lacan. Chi ha a che fare con la sua pratica, o più semplicemente con il suo insegnamento, lo avverte – prima o poi. In estrema sintesi direi che sono tre i vettori che scrivono il tratto del decisivo in Lacan. Il primo. Avere dimostrato che l’Io è una iattanza e, al contempo, che l’Altro – l’alterità, la differenza, ecc… – è un’impostura. Il secondo. Avere affermato, con sempre maggior convinzione, che la materialità dell’inconscio – dunque della vita per la psicoanalisi – sta nel fuori senso, e al contempo aver messo a punto una pratica clinica, una logica della direzione della cura, “tarata” sul fuori senso e sulla indispensabilità, per ogni analizzante, di stabilire con esso un rapporto singolare. Il terzo vettore. Avere intrecciato linguaggio e pulsione, simbolico e corpo, significante e godimento. Intreccio niente affatto dialettico. È il linguaggio a essere degradato, a essere ridotto a fracasso, a rumore. È il linguaggio che cessa di essere la casa dell’essere, che cessa di essere luogo della parola, che cessa di essere spazio della rappresentazione, per diventare marchiatura in atto del vivente, taglio in atto, ed è questa marchiatura in atto, questo taglio in atto a essere il godimento, la pulsione – qui va collocato, finalmente, il maneggiamento del problema dell'Uno dell'ultimo Lacan.      

Il nostro tempo sta facendo risuonare questi tre vettori, ma, e qui è bene non equivocarsi, lo sta facendo attraverso una modalità tipicamente sintomatica, ossia attraverso l’orrore e il rifiuto. Proprio per quel che il nostro tempo sta facendo, ovviamente senza aver la benché minima idea di farlo, dei tre vettori di Lacan, per il modo sintomatico di trattarli, il nostro tempo invoca Lacan.    

 

 

Il titolo del tuo libro, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, mette insieme due concetti, a parte il nome di Lacan: sintomo e reale. Partiamo dal sintomo, che rimanda all'idea di una malattia, di un malanno che si rende manifesto attraverso, appunto, un sintomo. Qual è questa malattia?

 

Il titolo del libro viene da un passaggio del SeminarioXXIII di Lacan: «Ho veicolato molte delle cose che vengono chiamate freudiane. Ma per quanto riguarda quello che chiamo il reale ho inventato, giacché mi si è imposto. Si tratta di qualcosa che posso dire di considerare né più né meno come il mio sintomo. È nella misura in cui Freud ha veramente fatto una scoperta che si può dire che il reale è la mia risposta sintomatica». Per certi versi l’intero libro non è che una spiegazione di questo passaggio. La coppia che tu proponi, malattia-sintomo, il sintomo come manifestazione di una malattia, è stata debellata da Freud, e Lacan ha continuato in tale direzione. Seguendo la direzione che tu proponi troviamo comunque un’altra coppia, trauma-sintomo. Il sintomo è l’effetto di una causa, causa che è il trauma. Sul trauma torneremo. Mi preme qui sottolineare un aspetto sul quale Lacan è decisivo. Il sintomo è un effetto, ma un effetto che è risposta alla causa e non conseguenza della causa. La causa non è un qualcosa che è accaduto, non è la combinazione di molti qualcosa, non è la storia di ciascuno, con i suoi intrecci e le sue dinamiche, che determinerebbe di conseguenza alcuni effetti. La causa per Lacan è una discontinuità in atto, una distorsione permanente della vita e nella vita di ciascuno. Il sintomo è il modo fisso in cui ciascuno risponde alla discontinuità della causa. Si tratta di una risposta fondata sul rifiuto della discontinuità della causa, si tratta cioè di una difesa, di un tentativo di incapsulare la discontinuità della causa in una strategia. Tale strategia è destinata al fallimento e a essere disturbata dalla discontinuità che essa cerca di incasellare. L’analisi deve permettere di operare una torsione del sintomo in modo tale da renderlo ilmodofisso in cui ciascuno acconsente al farsi causare dalla discontinuità. A questo punto il sintomo diventa quel che Lacan chiama sinthomo. Il titolo corretto del libro sarebbe stato dunque Ilsinthomo di Lacan. Ma è lui stesso a mantenere l’ambiguità tra i due termini, e lo fa per delle buone ragioni.          

 

Carmelo Bene in Mario Schifano, Umano troppo umano +

 

A proposito, l'avevo dimenticato, l'immagine della copertina, un fotogramma estrapolato da un film di Mario Schifano, Umano troppo umano… Una donna nuda sullo sfondo, in un letto ricoperto da lenzuola bianche, e un uomo in primo piano (Carmelo Bene), vestito, seduto sul ciglio del letto, che tiene in mano un giornale, una sigaretta in bocca, lo sguardo assorto. È un’allusione alla celebre frase di Lacan, “Non c'è rapporto sessuale”?

 

La foto di copertina sta per molte cose. In primis sta per il mio amore per Carmelo Bene. Ti confido che ogni tanto penso: “non sarebbe male carmelobenizzare la psicoanalisi”. Quando CB dice “se uno è il panico il panico non costa niente”, “se uno diventa l’abbandono non può più patire l’abbandono” dice qualcosa che la pratica della psicoanalisi – per come la intende Lacan, che poco ha a che spartire con altri modi di praticarla – ha al suo fondo ma tende a dimenticare. In generale in CB c’è una frequentazione rigorosa del fuori senso, dunque lì, per lo psicoanalista, c’è qualcosa da imparare. Un piccolo esempio. Se riguardi il suo primo film, Nostrasignoradeiturchi, in particolare il capitolo “Il monaco” – mi dispiace ma i dvd hanno i capitoli, addirittura ora si può trovarlo estratto su youtube – vedrai una delle più nette incarnazioni di quel che Lacan intende con lalangue. L’immagine, o meglio il fotogramma della copertina, si può senz’altro intendere come un’allusione al “non c’è rapporto sessuale”, cioè al celebre aforisma di Lacan. Questo purché lo si prenda, finalmente, in termini affermativi – CB è pura affermazione. Che cosa significa prenderlo in termini affermativi? Significa non “vedere” più nell’aforisma “non c’è rapporto sessuale” la mancanza di qualcosa, l’assenza di qualcosa, ma l’affermazione pura e secca di qualcosa. Affermazione di che cosa? Affermazione di un godimento che non si rapporta a niente, di un godimento che è pura affermazione – a essere precisi dunque non si tratta dell’affermazione di qualcosa ma dell’affermazione in sé – e che in quanto tale, cioè pura affermazione, non entra nel rapporto, non si dispiega nel rapporto, ma causa il rapporto e ogni rapporto. Non a caso Lacan per far valere l’aspetto affermativo e non negativo di questo aforisma lo sostituisce, o meglio lo integra, nell’ultimissima fase del suo insegnamento, con “c’è il non-rapporto sessuale!”.       

 

 

L'altro concetto del tuo titolo è reale. Un concetto di moda, nell'economia – dopo la sbornia del capitalismo finanziario sono lì tutti a dirci di tornare all'economia reale (come se esistesse ancora ...), nella filosofia, il nuovo realismo di Maurizio Ferraris – nella critica moralistica dei social media: tornare ai rapporti in carne e ossa, basta con il mondo virtuale! Con questi "realismi" tu non c'entri nulla. Qual è allora il reale di cui ci parli? Come lo incontriamo, questo reale?

 

Tutto il libro è dedicato al reale, è occupato dal problema del reale, ogni capitolo è una variazione di quell’unica variazione che è il reale, pertanto è difficile dirti sinteticamente di quale reale si tratta nel libro. Di certo si tratta del reale di Lacan. Stringendo il problema in modo un po’ drastico isolerei tre aspetti. Il primo. Lacan ha inteso per molto tempo il reale a partire e attraverso il simbolico, la formalizzazione, la logica del significante. Qui il reale è l’impossibile. Il reale nel simbolico e a partire dal simbolico è l’impossibile. Nell’ultima parte del suo insegnamento Lacan cerca di maneggiare il realecometale, il reale in sé – se posso dire così – il reale a partire dal reale. Per intendere ciò maneggia e ci obbliga a maneggiare, l’incidenza de lalingua sul vivente, o meglio l’incidenza in atto, il taglio in atto che l’impasto lalingua-vivente è. Il reale in quanto tale sta da queste parti.

Il secondo aspetto. La riflessione di Ferraris non ha niente a che fare con il reale di Lacan. Ferraris si occupa degli accadimenti e cerca di discernere in questi il fatto e l’interpretazione. Il reale di Lacan non ha niente a che fare con gli accadimenti ma con l’accadere, è l’accadere in sé!

Il terzo aspetto. Nell'ultima parte del suo insegnamento Lacan ha spesso insistito sul fatto che un corpo è qualcosa che si gode, da non intendersi in modo riflessivo – “gode di se stesso” – ma in modo attualista – “sta godendo” – il che porta a dire che c'è un sigode che prende corpo – ripetutamente. Il reale come tale sta in questo si gode.  

 

 

Usi parole molto dure contro le psicoterapie, perché sarebbero incapaci di incontrare il reale dei loro pazienti. Mi piace questa durezza, perché mette le cose in chiaro, soprattutto in un tempo in cui, nonostante tutto questo interesse per Lacan, la psicoanalisi è attaccata su tutti i fronti, come pratica troppo lunga, troppo costosa, senza basi scientifiche. Qual è la differenza fra psicoanalisi e psicoterapia?

 

Hai ragione, nel libro ci sono alcuni riferimenti alle psicoterapie. Però non mi interessano le psicoterapie, non me ne occupo, dunque neanche le critico. I riferimenti che hai notato sono delle battute. L’incipit del libro è una battutaccia: «la psicoanalisi deve toccare il reale, in caso contrario è una farsa, oppure, detto altrimenti, una psicoterapia». Con questo non voglio dire che le psicoterapie – tra le quali fra l’altro occorre annoverare quasi tutta la così detta psicoanalisi – non siano efficaci, che non permettano alle persone che vi si sottopongono di staremeglio, di risolvere dei sintomi, di superare dei problemi. Ci mancherebbe altro! Ma non è questo il punto. Dico molto semplicemente che una psicoterapia – ripeto, qui includo quasi tutta la psicoanalisi – non può toccare il reale, maneggiare il reale, trattare il reale, non per incapacità, non per mancanza di mezzi, non per dei limiti, ma proprio perché è finalizzata, strutturata e concepita affinché il reale non sia in atto nella terapia e nella vita. Detto bruscamente: trattare il reale è l’etica della psicoanalisi, evitare il reale è la morale della psicoterapia. Frequentare e installarsi nel fuori senso è la logica e l’esito di un’analisi, dare senso al fuori senso è la logica e l’esito di una psicoterapia. Per questo le psicoterapie non sono altro che forme moderne di religione, ossia tentativi di dare senso al fuori senso. Per me, come mi è capitato di scrivere recentemente, “fuori senso c’è qualcosa di inestinguibile da frequentare”. Per questo cerco di occuparmi di psicoanalisi e mai di psicoterapia.    

 

Pollock

 

Il primo incontro con il reale, nel primo capitolo del tuo libro, è quello del trauma. Il trauma di cui ci parli non è un evento che capita a qualcuno, e a qualcun altro no. Il trauma è il fatto stesso di venire al mondo. L'essere umano ha a che fare con il trauma. Chi ci leggerà penserà che tu stia esagerando, che vedi il mondo con gli occhi dello psicoanalista, e che vedi dovunque quello che ascolti dai tuoi pazienti. In che senso, allora, il trauma ha a che fare anche con chi non è mai andato da uno psicoanalista, e non pensa di andarci mai? Perché il trauma ci riguarda tutti?

 

Il primo capitolo è dedicato al trauma. Tutto il libro è dedicato al trauma. Attraverso la logica della fine analisi cerco di interrogare e intendere il traumain, ossia: che cosa è il trauma prima che ci sia qualcosa o qualcuno per cui è traumatico – tutto il libro interroga il trauma, il godimento ecc… non a partire da che cosa è ciò per qualcuno ma a prescindere da questo qualcuno. Siamo soliti intendere il trauma come la rottura, la scissione, la frattura, di qualcosa, cioè dell’Io, del mondo relazionale, della soggettività. Lacan cerca di intendere il trauma come rottura in sé, scissione in sé, frattura in sé – dunque non di qualcosa che già c’è. La cosa lo spinge a intendere il trauma non come qualcosa di accaduto ma come quel che sta sempre accadendo. Il trauma non è una scissione accaduta nel soggetto e che si sta ripetendo, ma è una scissione sempre in atto di cui il soggetto non è che un tentativo di risposta. L’analisi è quella pratica che deve permettere la separazione tra il trauma in sé, il trauma sempre in atto, e le manifestazioni e fissazioni empiriche e fantasmatiche del trauma. Separando il trauma in sé dai vari traumi empirici-fantasmatici, l’analizzante da un lato si può staccare dai vari traumi e dalle loro fissazioni – avendo colto che questi non sono che modi per trattare e negare il trauma in sé – dall’altro ha l’occasione, o meglio la necessità, di stabilire un altro rapporto con il trauma in sé. Questo altro rapporto con il trauma in sé è la vera posta in gioco di ogni analisi. Tornando al merito della tua domanda, seguendo questo ragionamento occorre dire che il trauma non sta nel venire al mondo, ma che venire al mondo è un effetto del trauma. Il trauma sta nell’incidenza de lalingua sul vivente, o meglio nel loro incessante essere in atto. Ogni soggetto sorge, viene al mondo, come risposta a questa incidenza in atto, scissione in atto, taglio in atto che è il trauma.               

 

 

Un altro incontro con il reale è quello dello sguardo, a cui dedichi un altro capitolo del tuo libro. C'è molta confusione, a proposito di questa faccenda dello sguardo, perché si crede che abbia a che fare con la videosorveglianza, con la miriade di videocamere che riprendono dovunque le nostre vite, con lo sguardo anonimo che controlla i nostri spostamenti sui social networks. Lo sguardo di cui parli tu non è questo, o meglio, non è solo questo. È uno sguardo che ci portiamo dentro. Noi siamo quello sguardo, il che riporta alla questione del trauma. Allora, qual è il reale dello sguardo?

 

L’oggetto sguardo ha un ruolo importante nell’insegnamento di Lacan, in particolare all’interno del processo di formalizzazione dell’oggetto piccolo a. In primis per far intendere che l’oggetto piccolo a non è qualcosa di concreto, non è un qualcosa, ma un taglio nel campo dell’Altro nel quale il soggetto è dispiegato – l’oggetto sguardo è dunque un taglio, una spaccatura, nel campo visivo e del campo visivo, campo (Altro) nel quale il soggetto della visione è implicato. Lacan nel SeminarioXX arriva a dire che l’oggetto piccolo a non è che un sembiante rispetto al reale, il che non vuol dire che non sia importante, ma vuol dire semplicemente che l’oggetto piccola a presentifica il reale nel simbolico e non il realecometale. La riflessione di Lacan sull’oggetto sguardo contiene un altro elemento molto significativo, sul quale nel libro ho posto l’accento. Nell’incontro con l’insorgenza dell’oggetto sguardo nel campo visivo, cioè il campo dell’Altro dove è implicato il soggetto della visione, il soggetto si ritrova a essere ridotto a oggetto sguardo, questo significa che si ritrova annullato come soggetto della visione – da intendersi sia nel senso classico, cioè del punto di vista, sia nel senso fenomenologico, cioè di soggetto preso nella visione, il che è compatibile con il soggetto preso nel campo dell’Altro, il soggetto diviso. Dunque Lacan lavorando l’oggetto sguardo non solo va al di là – o meglio al di qua – del soggetto classico ma anche del soggetto diviso di cui lui stesso ha parlato, e si ritrova a incontrare il soggettocometale, ossia il fatto che il soggetto come tale non è soggetto ma oggetto, oggetto da non intendersi come entità passiva, ma come taglio nel simbolico o, detto altrimenti, come esigenza pulsionale. Infine la riflessione sullo sguardo permette a Lacan di ribadire con forza una nuova topologia, nella quale non ha più ragion d’essere la distinzione tra spazio interno e spazio esterno, tra dentro e fuori – insomma non ha più ragion d’essere la psicologia. Per dirla in modo spicciolo, quando guardo un quadro come soggetto dell’inconscio non solo sono nel quadro – come Io sono esterno dal quadro, ma abbiamo appunto detto che con l’Io è il caso di farla finita – ma propriamente sono nel quadro come taglio, cioè come oggetto, come porcheria.    

 

 

Il Lacan oggi più diffuso e discusso in Italia è quello di Massimo Recalcati. Ti riporto un passo esemplare della sua lettura di Lacan, che prendo dal suo Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (Cortina): «Lacan pensa che la psicoanalisi contenga una promessa di liberazione. Quale? Non certo quella che offrono il cinismo narcisistico o la perversione ipermoderni. Non certo quella falsa liberazione del desiderio dissociato dalla Legge della castrazione, del godimento dell'Uno separato dal legame con l'Altro, del godimento che inseguendo compulsivamente il miraggio del Nuovo ripete sempre la stessa insoddisfazione». È il Lacan della Legge, dell'Altro, un Lacan critico di questa modernità. Per un verso è difficile dare torto a Recalcati, però leggendo il tuo libro mi sono fatto l'idea che il 'tuo' Lacan sia più solitario, meno comunitario, meno preoccupato dalla Legge, più corporeo. A un certo punto scrivi che il compito che ha ciascuno di noi è "inventare il suo reale". Qui l'altro non c'è più. Mi sembra che questo Lacan sia, per certi versi, più scomodo di quello di Recalcati. Qual è, allora, il tuo Lacan?

 

Una risposta sincera a questa domanda è “passo!”. Ma non mi voglio sottrarre del tutto. Trovo divertente la circolazione in vari contesti di questo Due, il Lacan di Recalcati-il Lacan di Pagliardini. In tutta franchezza non posso che trovarlo lusinghiero nei miei confronti – potrei anche dirti che esiste il Lacan di Recalcati mentre non esiste il Lacan di Pagliardini, ma ciò mi obbligherebbe a non risponderti. Diciamo che prendo questo Due come un gioco – anche se Syd Barrett proprio nel salutare e nel venir salutato dai Pink Floyd si chiedeva appunto “che cosa è esattamente un gioco?”. Prendo la tua domanda come un invito a giocare e in tal senso rispondo. Sarò un po’ grossolano e un po’ ingeneroso con entrambi. Un solo punto. Mi sembra ci sia tra me e Recalcati un modo diverso di leggere la teoria di fine analisi, il che risuona inevitabilmente in altri aspetti della teoria e della pratica di Lacan – in particolare nel modo di intendere l’Uno. Recalcati mi pare intenda, con Lacan, la fine analisi come assunzione della castrazione e dunque del proprio desiderio – non c’è niente di più difficile che assumere il proprio desiderio ricorda spesso Lacan – e dunque del godimento implicato nel dispiegamento del proprio desiderio, del proprio slancio, della propria ricerca, della propria vocazione. Io tendo a leggere, con Lacan, la fine analisi come assenso incondizionato all’accadere che è il godimento, al taglio che è il godimento, alla pulsazione che è il godimento – il che comporta, per dirla tutta, un certo “farla finita con il desiderio”. Per di più Recalcati interpreta Lacan da vari punti di vista, uno dei più importanti è la costituzione del soggetto – non a caso il suo secondo volume JacquesLacan. La clinica psicoanalitica, che a scanso di equivoci considero un testo eccezionale, in particolare le parti sul transfert e la direzione della cura, inizia con un ampio capitolo su “il bambino lacaniano”, cioè sulla genesi della soggettività. Dal canto mio tendo a leggere Lacan quasi esclusivamente da un unico punto di vista, quello della fine analisi – indubbiamente questo è un limite.               

 

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Un tema estremamente interessante è quello della posizione femminile, la donna che è non-tutta dice Lacan. La fine analisi, se ho capito bene, coincide con la possibilità da parte di ciascuno di noi di assumere questa posizione. Qual è, allora, questa posizione, e perché sarebbe l'esito auspicabile dell’analisi? Ha qualche cosa a che vedere con il divenire-donna di Deleuze?

 

Nel capitolo Sulnon-tutto ci sono delle difficoltà, alcune cose le cambierei. Non cambierei invece, anzi la ribadisco con convinzione, la demarcazione netta che ho tracciato tra il paradigma non-tutto e il paradigma tutto-eccezione. Spesso si intende con non-tutto, capita frequentemente anche tra i lacaniani, un sistema, un funzionamento, attraversato da un’eccedenza irriducibile al funzionamento e al sistema, da un’eccedenza che fa eccezione. Dunque la tendenza è quella di intendere il non-tutto come un tutto-eccezione. Il non-tutto non indica un sistema, un funzionamento, attraversato-abitato da un’eccedenza che in quanto tale fa eccezione al funzionamento rendendolo incompleto e mancante – qui con funzionamento possiamo intendere, ad esempio, quel particolare funzionamento che per Lacan è il soggetto dell’inconscio. Questa logica di funzionamento non indica la logica del non-tutto in quanto è del tutto compatibile con il paradigma tutto-eccezione, all’interno del quale appunto ogni sistema-funzionamento è alimentato e sostenuto da un’eccedenza interna, da un’eccezione fondativa e necessaria.     

Il non-tutto, lo dico in modo rudimentale, è un non-funzionamento, da intendere non in chiave privativa, ossia manca il funzionamento, ma in chiave affermativa, ossia l’essere alle prese, finalmente, non con un funzionamento ma con un accadere, con un atto.

Seguendo questa linea ci ritroviamo alle prese con il godimento femminile, per certi versi la sostanza di questo non-tutto. L’errore a cui accennavo, ossia intendere il non-tutto come un tutto-eccezione, dà vita a un altro errore, quello di intendere il godimento femminile come supplementare a quello maschile-fallico, che eccede quello maschile-fallico. Concepire il godimento femminile in questi termini significa intenderlo sempre a partire dal godimento maschile-fallico, eccedente questo, supplementare a questo, ripetendo in sostanza lo schema della logica tutto-eccezione, dunque leggendo il godimento femminile attraverso la logica maschile – siamo qui alle prese con un godimento femminile sempre tarato e definito attraverso e per mezzo del godimento maschile-fallico.

La riflessione di Lacan sul non-tutto ci obbliga invece a concepire il godimento femminile in sé, cioè al di fuori della misura fallica, al di fuori della logica maschile tutto-eccezione, funzionamento-eccedenza. Ci obbliga per di più a radicare in questo godimento la concezione stessa del godimento, a capire che in sostanza il godimento in sé, il reale del godimento – non l’immaginario e il simbolico del godimento – è il godimento femminile in sé. Il godimento femminile in sé va così inteso come godimento Uno e non più come godimento Altro, termine che definisce il godimento femminile ancora a partire dal godimento fallico rispetto al quale appunto quello femminile sarebbe Altro.

 

L’analisi deve permettere – obbligare? – a ogni analizzante di trovare il modo – modo che non è che uno scarabocchio, un tic, ed è qui che il modale di Deleuze è prezioso, che il diveniredonna, il divenire musica, il divenire impercettibile ecc... di Deleuze è fondamentale per intendere di che cosa si tratta in questo “modo” – per farsi prendere da questo godimento in sé, da questo godimento femminile. Mi chiedi per quale ragione ciò sia auspicabile. In effetti non so se sia auspicabile. Quello che posso dirti è che dedicare la vita a far “rientrare” la vita, il suo accadere, che è del non-tutto, nel funzionamento tutto-eccezione è una grande fatica, costa troppa fatica. Allo stesso tempo dedicare la vita a far rientrare il godimento in sé – cioè il godimento femminile, il godimento Uno – nel godimento fallico e nelle sue eccedenze, è troppo faticoso. Come dice Lacan nel SeminarioXI, fino a un certo punto è proprio questa troppa fatica l’unica cosa che giustifica la logica dell’analisi e il suo esito. All'interno di questo ragionamento Deleuze è fondamentale. La sua pratica filosofica è costantemente all'insegna del non-tutto ed è una lucida demolizione dell'aspetto poliziesco di ogni logica maschile. Deleuze è poi fondamentale per intendere la psicoanalisi come pratica di produzione dell'inconscio – e non come pratica di conoscenza dell'inconscio.       

 

 

Ancora sulla fine analisi. Insisto su questo punto perché mi sembra che abbia molto a che fare con la nostra condizione: da un lato, scrivi, il fine analisi ha a che fare con la "necessità del sacrificio", dall'altro, però, ha anche a che fare con la possibilità di "accedere al godimento". Il primo elemento puzza di sacrestia (una sacrestia che ultimamente mi sembra sempre più affollata, pensa a Bertinotti che dice che il "dialogo con chi ha una fede può essere la scintilla che ridà speranza"; un comunista che spera di trovare ispirazione nella fede?), il secondo mi piace di più. Come fanno a stare insieme?

 

La logica di fine analisi incentrata sul desiderio – siamo qui in un'etica del desiderio – implica la rinuncia al godimento assicurato – quello del fantasma, che dunque è bene chiamare assicurato e non immediato – per incontrare un godimento proprio e contingente nel dispiegamento del desiderio. Nel libro affermo in molti modi che in Lacan c'è un'altra variazione della fine analisi e dunque dell'etica, una fine analisi incentrata sul godimento, dunque un'etica del godimento – un fine analisi, come detto, dell'assenso al taglio in sé, al marchio in sé, che è il godimento. Ci tengo molto a dire, e nel libro lo faccio più volte, che le due logiche e dunque le due etiche non vanno messe in contrapposizione, ma che la prima sia in funzione della seconda – direi quasi propedeutica – e non viceversa. Per dirla in soldoni: per acconsentire al reale del godimento occorre aver rinunciato al legame con il godimento assicurato, tanto più un analizzante si è separato dal godimento assicurato, tanto più ha rinunciato a questa posizione, tanto più potrà farsi prendere dal godimento in sé. Dunque a mio avviso le due cose stanno insieme in un modo molto semplice – la psicoanalisi di Lacan sa essere molto semplice!    

 

 

Ma che cos'è, per finire, il Momlo-Domlo?

 

Trovo interessante il fatto che tu mi stia ponendo sempre la stessa domanda! Momlo e Domlo non significano niente. Non solo non significano niente in generale, ma non significano niente neanche per me. Sono delle lettere precipitate nella mia analisi che hanno scritto il “mio” assenso al godimento in sé, al reale del godimento.

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Intervista a Alex Pagliardini

Paura e indifferenza. La concatenazione psicotica

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Quando un giorno sì e uno no accadono eventi di terrore per le strade, si crea indifferenza e paura.

Si crea paura quando qualcosa ci minaccia, direttamente o indirettamente. La minaccia indiretta, quella della mafia, per esempio, pone chi è sotto minaccia in una condizione d’ansia incontenibile. Nei casi di questi giorni, non c’è minaccia, diretta o indiretta. Si sta creando però un’aspettativa che qualsiasi luogo possa essere pericoloso. Si può vivere così? Ci sono paesi dove da tempo questo è diventato “normale”.

Invero, alla paura c'è rimedio, Marta Baggiani ce lo insegna.

 

All'indifferenza no, l’indifferenza è paura celata dietro l’espressione assente, lo sguardo nel vuoto, la vita quotidiana che non si stacca dall’eccezione, dallo scandalo. L'indifferenza non è solo paura. Benché l'indifferenza si ammanti di paura, essa è composta anche da pigrizia e codardia. La codardia va oltre la paura, è sentimento che induce repressione: quando ci si abitua a non far emergere il conflitto, quando non si reagisce più, quando non ci si stupisce più di nulla. La codardia, a sua volta, si accompagna alla pigrizia: sono modi di reagire alla paura.

 

 

Il sistema psicotico fa paura perché, con quel sistema, non si può entrare in conflitto, l'altro non mostra il suo volto, il colpo ti arriva di sorpresa, quando meno te l'aspetti, senza ragione. Il sistema psicotico, visto dallo psicopatico che lo costruisce, si adegua a un’orribile battuta maschile, attribuita a un proverbio cinese: “quando rientri a casa picchia tua moglie, tu non lo sai perché, ma lei sì”. Qui, ogni gesto è assassinio della madre, del padre, dei fratelli.

 

Ali David Sonboly spara sulla folla. Qualcuno gli grida qualcosa dal tetto, mentre lui uccide: “fatti vedere da uno psichiatra!”, lui risponde qualcosa: “sono bavarese, godo dei sussidi e sono in cura!”. Se è così, chiunque lo abbia diagnosticato depresso ha preso un grosso abbaglio. Ma, forse, la parola “depresso” esce dai media, è un modo per rassicurare tutti: se Sonboly è depresso, non c’è d’aver paura. Per favore riservate la paura ai gruppi terroristici organizzati, altrimenti qui non si capisce più nulla!

 

Sonboly, si suicida. Questo diciottenne sembra non avere avuto rapporti con organizzazioni fondamentaliste religiose, neppure con gruppi nazionalisti, sembra, sembra, sembra.

 

È certo però che ieri notte in radio qualcuno diceva che non poteva essere uno psicopatico, che doveva essere un professionista affiliato a qualche organizzazione islamica, che era troppo esperto d'armi e strategie. Anche questo serve a ridurre la paura. Non può essere una scheggia impazzita! Deve pur avere un significato quel che accade!, grida il politologo. Si sbagliava nella terminologia e nella previsione. Nella terminologia perché confondeva “psicopatico” con “psicotico”. Due patologie molto differenti.

Lo psicopatico ha un disordine dell'impulsività, mette paura davvero e ha paura a sua volta; inoltre ha pensieri ricorrenti di vendetta, spesso contro i suoi stessi fallimenti, le sue frustrazioni. Si prepara e addestra, entra in organizzazioni criminali o fondamentaliste, il suo disordine è definito anche sociopatia o disordine antisociale. Altri clinici, più sottili, assimilano alcune psicopatie a forme maligne di narcisismo. Insomma, lo psicopatico, solitario o aderente a un’organizzazione di psicopatici, è pericoloso, può anche avere successo.

 

 

Lo psicotico invece ha disturbi deliranti, allucinazioni, in generale ha disturbi gravi della coordinazione del corpo proprio, è del tutto inerme e inoffensivo, benché a volte appaia aggressivo verbalmente o fisicamente, difficile che sia in grado di usare mezzi tecnologici come un'arma da fuoco.

Perché è questo il problema: sparare per uccidere necessita di un certo addestramento tecnologico. Chi si sottopone a questo addestramento trasforma la paura in aggressività.  Se so menare le mani, non ho più paura, se ho una pistola in tasca, ne ho ancora meno. La tecnologia conta. Inoltre necessita di una possibilità di accedere facilmente all'acquisto di armi. Tutti sanno che nelle aree dove la vendita delle armi da fuoco è libera ci sono molti più assassinii. Ma si fa finta di nulla, indifferenza psicotica.

 

Nei miei scritti precedenti – La strage di Nizza e l'età psicotica e Il lume del sentimento e della ragione– parlavo di un'epoca psicotica. Un'epoca psicotica funziona come un individuo psicotico, ma non a livello individuale o familiare, bensì a livello del sistema sociale. Se l'individuo psicotico è del tutto sottomesso e impotente, non è in grado di coordinarsi e delira, lo stesso accade a un sistema sociale psicotico, il delirio è collettivo e si compone di individui incontenibili. I pensieri incontenibili, si materializzano in agenti incontenibili. Che abbiano a che fare o meno con le organizzazioni politiche criminali, è meno importante, per chi voglia leggere il fenomeno sociale (non certo per le polizie, i giudici e i governi!). Schegge impazzite, loro non sono folli, folle è il sistema che li produce e li promuove. La paura dilaga ovunque, l’abbiamo tutti, ma la paura inibisce il coraggio e induce indifferenza. Viviamo dentro la commedia Piccoli omicidi di Jules Feiffer.

 

Sonboly si richiama a Breivik. Breivik ha un programma ideologico, ha un'organizzazione composta da lui solo, a quanto pare. Ora sono due. Con i fatti di Nizza, forse tre. Se così è, stiamo assistendo a una diversa forma di proselitismo, un proselitismo autonomo, antagonista, senza ideologia di riferimento, un proselitismo sotterraneo, subliminale, che scavalca i mass media, l'informazione.

Si sta costituendo un'estetica della violenza, qualcosa che agisce su se stesso, la violenza per la violenza. La violenza ha sempre avuto una dimensione estetica, ma prima questa era sullo sfondo di un programma politico. Fuori da tutte le giustificazioni politico-sociali, la violenza è gesto, puro gesto psicotico, scissione. Questo è ciò che incute massimamente paura.

 

Dalla parte delle vittime, chi muore sono giovani che stanno per le strade, liberi, che non provano ancora paura, che, se la provassero, si munirebbero anche loro di armi, come nel romanzo Si recano da scuola a casa, vanno a fare la spesa, viaggiano da un paese all'altro per studiare, fare ricerca, lavorare negli uffici, nei bar, nei ristoranti; stanno fuori, magari per fare arte di strada, convincere la gente a pagare per qualche organizzazione no profit, distribuire giornali, volantini. Che differenza c'è tra queste vittime e gli ebrei, gli armeni, i curdi, le persone uccise dalle vecchie organizzazioni terroristiche (IRA, ETA, RAF, BR, ecc.)?

 

Le persone che muoiono oggi non sono obiettivi da colpire, martiri da opprimere, nemici di classe, gruppi inferiori, nemici del popolo, ecc. Sono solo vittime, oggi il nemico è la vittima. Chi voleva l'autonomia antagonista l'ha ottenuta, fino in fondo. L'autonomia antagonista non sceglie neppure più un nemico specifico, il suo nemico è chicchessia, l'autonomia del soggetto antagonista è guerra di tutti contro tutti. L'individuo si fa soggetto collettivo per ricorrenze gestuali: Sonboly emulo di Breivik. Chissà che questa concatenazione del gesto criminale non trovi altre ricorrenze.

Il gesto non ha un referente a cui rivolgersi, si riferisce a se stesso, è puro spettacolo “reale”. Scioglie qualsiasi legame di rispetto, solidarietà, amore, reciprocità. Estetico, non artistico, non confondiamoci. Arte ed estetica non sono la stessa cosa. Ma è su questa differenza che nascono tutte le forme di totalitarismo psicotico.

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Per reagire pensando

Comanda la paura

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Trasformati dall’urto della storia, arranchiamo atterriti dalla paura. Ne abbiamo di motivi per avere paura, ne abbiamo tanti e ne abbiamo sempre avuti. Tanto è vero che con l’evoluzione abbiamo selezionato riguardo alla paura una delle principali aree delle nostre emozioni di base. D’altra parte sono gli emotivi che interagiscono col mondo, che sono sensibili. Sentire o provare, come si dice, le emozioni rende noi stessi strumenti, nel senso che cambiamo, costruiamo, nascondiamo, intensifichiamo direttamente le emozioni.

 

L’antropologo William M. Reddy ha intuito, in accordo con i risultati delle più recenti scoperte su come siamo fatti e come funzionano le nostre emozioni, che c’è una dimensione interiore nelle emozioni che non è del tutto e semplicemente rappresentata da dichiarazioni o azioni. Siamo di fronte al necessario fallimento di ogni sforzo di rappresentare un sentimento che dovrebbe coincidere con la nostra adattabilità. Insomma le emozioni non sono semplicemente resoconti di stati interiori. Un’emozione come la pura, fondamentale per la nostra sopravvivenza e la nostra storia evolutiva, non è solo un carattere di individui e gruppi sociali, ma media tra ognuno di noi e la società in cui viviamo. È proprio quel ruolo di mediazione che va in crisi in questi mesi. Mediare vuol dire in buona misura tradurre e noi non ce la facciamo più a contenere l’esigenza di tradurre quello che ci accade intorno in qualcosa di comprensibile.

 

Altan, qualche giorno fa sulle pagine di la Repubblica, ha consegnato a un suo personaggio il nostro sentimento del tempo; con le braccia conserte dice: “Ora basta”. Ma non è un’affermazione indignata o una presa di posizione. No. È una supplica. Come a dire: non ce la facciamo più.

 

Ecco: le emozioni mediano i confini tra lo spazio corporeo e lo spazio sociale. È come se il corporeo non ce la facesse più a contenere quello che il sociale gli propone giorno per giorno. Qualche anno fa, era il 2007, Joanna Bourke aveva scritto che, “dopotutto, la paura è un’emozione estremamente democratica, che colpisce chiunque contempli il rischio di morire” (Paura. Una storia culturale, Laterza, Roma-Bari 2007).

 

Rothko

 

Tutto pare sia cominciato quando noi esseri umani abbiamo scoperto il tempo. E col tempo abbiamo scoperto la finitudine. La nostra finitudine. Da allora noi esseri occidentali, noi esseri al tramonto, noi che viviamo il tempo occidentale ci siamo accorti che le nostre vite sono interamente irradiate d’alba e tramonto, che si distendono fino a coprire tutta l’estensione della luce diurna: i dispositivi e i loro nomi. Il tempo è diventato la cosa indicibile, imprendibile, ineffabile: la più strana di tutte, la più inspiegabile, quella che illumina tutte le altre senza poter essere mai vista: la cosa gratuita, indisponibile, irreparabile: il tempo. La nostra condizione è divenuta, così, irreparabile e per molti aspetti insalvabile. Da quel momento la paura è diventata nostra sodale e per salvarci abbiamo dovuto inventare istanze salvifiche, appunto, a cui consegnare la nostra angoscia della finitudine. Abbiamo iniziato a farlo in molti modi, sfruttando la nostra capacità immaginativa e inventiva, spinta verso l’oltre, verso l’aldilà con molteplici vie e forme, ma tutte accomunate dal rinvio, dal rinviare a qualcosa o a qualcuno il compito di aiutarci a risolvere le nostre angosce. Da allora nulla è più stato lo stesso, nessuna cosa è più stata la cosa in sé e noi non abbiamo mai più coinciso con noi stessi. Avremmo dovuto poter accedere al tempo dominandolo e invece, scoprendolo, ci siamo accorti di esserne dominati. Ci siamo accorti della nostra finitudine scoprendo che ogni inizio ha ineluttabilmente una fine; scoprendo, in sostanza, la pura della morte.

 

Non è che prima non morissimo, ma una cosa è morire, altra cosa e sapere di morire; altra cosa ancora è sapere di morire pur essendo capaci di concepire l’infinito e la non finitudine. Il mistero della nascita, pur impegnativo, non è privo di paura e travaglio ma non ha la stessa portata del mistero della morte. Il primo, per quanto inspiegabile, certo non sul piano scientifico, ha a che fare con l’inizio. Il secondo, pur spiegato scientificamente, riduce al silenzio e atterrisce con la sua ineluttabilità, anche perché ha a che fare con la fine di tutto per chi muore. La tensione rinviante ad altro rispetto al mondo fisico di cui siamo parte, quella tensione rinviante che ci caratterizza e di cui siamo capaci, quella tensione che è anche alla base della nostra autoelevazione semantica, che ci fa sentire di sentire, che ci rende capaci di creare l’arte che ci commuove o ci fa vivere il mondo come un progetto e un’invenzione, che fa di noi gli esseri che non solo sanno ma sanno di sapere, che ci rende in grado di generare la scienza e la tecnologia; quella tensione rinviante è anche alla base della creazione e dell’invenzione di universi separati – sacro viene dal latino sacer che vuol dire separato – a cui consegnare i tentativi e le speranze di elaborazione e soluzione delle nostre angosce dell’ignoto e della morte. Quel mondo a parte, relegato, quel contesto della nostra disposizione alla religio, è stato da noi proiettato oltre il mondo fisico perché da lì ci potessimo guardare e confortare difendendoci dalla paura, nella ricerca di risposte a domande di cui siamo capaci e che risposte non hanno, per le quali non troviamo nel mondo di qui le risposte. Il sacro è per molti aspetti l’invenzione di un altro mondo, separato da questo mondo di cui siamo parte.

 

Non vi è traccia di esseri umani, da quando ci siamo accorti del tempo e di noi, da circa duecentomila anni, che non abbiano inventato una qualche forma di sacro. Uno degli effetti di quella sistematica e reiterata invenzione è stata ed è la separazione di noi umani dal resto della natura di cui siamo parte. Una separazione con la quale ci siamo curiosamente collocati al di sopra della terra e aspiranti al cielo. Una curiosa terapia della paura: un tentativo di affrontare un’ansia primaria travolgente che poi genera ansie secondarie di ogni tipo. Sospesi a metà strada tra la finitudine angosciante a cui siamo comunque attaccati e l’eternità a cui ci affidiamo, abbiamo desacralizzato la natura di cui siamo parte, l’abbiamo progressivamente dissacrata con comportamenti sempre più esecrabili e ci siamo consacrati a un mondo di là da venire. Oggi ci accorgiamo di aver iniziato a segare il ramo su cui siamo seduti e da non poco tempo dubitiamo dell’appiglio a cui abbiamo a lungo pensato di poterci aggrappare per non cadere. Ritornare a noi senza appigli ci rende soli, troppo soli nel nostro individualismo narcisistico. Siamo finiti nel tempo del culto dell’io e da un lato il narcisismo individualistico ci rende cercatori di gloria fino agli atti estremi pur di renderci visibili, dall’altro ci sentiamo troppo piccoli per contenere la paura che ci viene da tutto il mondo, prima ancora che imparassimo a tenere quella che ci veniva dal nostro villaggio. La rete è una terribile amplificatrice di paura per esseri che sono ancora impegnati ad elaborare la pura del vicino. Il solito, incontenibile scarto tra tecnica e valori.

 

Accanto al culto narcisistico del corpo e di se stessi, nel nostro tempo non solo il sacro mostra di non riuscire a salvarci dalla paura ma si afferma l’uso politico e distruttivo del sacro. Sono soprattutto i monoteismi alla base di questa deriva. Con i politeismi le cose vanno in modo diverso. Questo non significa che in quei casi non ci sia la guerra, ma i politeismi risultano più traducibili, consentono più possibilità di approssimazione e di mediazione. Il monoteismo comporta una radicalizzazione con conseguenti processi di negazione, esclusione e offesa. La realtà è come noi la pensiamo e le religioni possono diventare strumento politico radicalizzante, come sta accadendo in buona misura oggi.

 

Viviamo oggi, nella maggior parte dei casi, una solitudine pervasiva che Emanuela Fellin ha definito: “solitudine sacralizzata”. Ci è venuta a mancare la dimensione del tempo. Tutto viene bruciato in pochi secondi. Se pensiamo alla fotografia, come ha detto Uliano Lucas, ci sono fotografie che sono divenute icona di un tempo. Oggi in rete, sui siti dell’informazione, una fotografia rimane per pochi secondi. Viviamo in un eterno presente. Per essere comunità c’è bisogno di tempo. Diventiamo invece sempre più egocentrati con poca capacità di relazione. Questa dilatazione del presente genera uno scarso senso del passato e poca capacità di pensare il futuro. Il sacro si riduce al culto dell’io.

 

Paure interne ed esterne ci attanagliano, ma anche orizzontali, nella contingenza del tempo presente, e verticali, derivanti dal tempo profondo da cui proveniamo, che ci finisce addosso con la conoscenza e con la portata meravigliosa e inquietante della sua evidenza. Allora ci sentiamo piccoli e gli equilibri dei nostri sistemi emotivo-motivazionali mostrano di traballare. La paura, insieme alla curiosità ci può prendere anche visitando una mostra.

 

 

Ci si sente piccoli, ma proprio piccoli, dopo aver visitato la mostra Estinzioni al Muse, Museo delle scienze di Trento. Magari quel sentimento fosse capace di lavorare in noi. Magari ci inducesse a riflettere su quello che la nostra specie sta facendo per concorrere a causare la crisi ecologica che stiamo vivendo. Ci si sente piccoli nella lunga durata del tempo profondo, ma anche di fronte agli eventi catastrofici a cui sono associate le sei estinzioni che la mostra documenta. Eventi più grandi di noi che hanno causato alterazioni dell’atmosfera, rapidi cambiamenti climatici e stress ecologici. Dalla probabile collisione di un meteorite di dieci chilometri di diametro con la Terra alla velocità di quaranta chilometri al secondo, di cui c’è traccia in un cratere dello Yucatan, e che sembra alla base della quinta estinzione, quella più nota, che provocò la fine dei dinosauri, alla terza estinzione, quella del Permiano-Triassico in cui scomparvero circa il novantasei per cento delle specie animali marine e il settantacinque per cento dei vertebrati terrestri, passando per la prima, la seconda e la quarta, la mostra documenta la bellezza e la fragilità della vita sul pianeta che ci ospita. Ma la più intensa esperienza di sentirsi piccoli la facciamo proprio di fronte alla sesta estinzione, quella in corso, e alle situazioni che derivano e sono causate in buona misura dal nostro sentirci grandi, troppo grandi e superiori, come esseri umani. Proprio quella presunta grandezza, infatti, nell’era che definiamo Antropocene, quella attuale, caratterizzata dal pervasivo dominio della nostra specie sul pianeta Terra, ci fa sentire piccoli per il modo in cui irresponsabilmente incidiamo sugli equilibri terrestri e stiamo mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Riusciremo a utilizzare la nostra distinzione di specie per trovare le vie di una coevoluzione appropriata col sistema vivente di cui siamo parte? Questa è la domanda che ci si porta con sé nel corso della visita alla mostra. Il progetto espositivo nasce da un importante lavoro di ricerca e selezione dei più significativi reperti originali di vertebrati estinti provenienti da molti musei: dallo scheletro di un grande dinosauro che accoglie il pubblico all’ingresso del Muse, al celebre cranio di Homo neanderthalensis “Guattari I”, il meglio preservato nel nostro paese. Il percorso interattivo e multimediale della mostra consente di conoscere aspetti originali e di fare approfondimenti particolarmente importanti, fino a sostenere la possibilità di mettere in relazione la paleoantropologia con gli studi sul comportamento umano e con l’economia, per evidenziare i rischi e i pericoli con cui dobbiamo fare i conti, osservando anche le affinità tra i grandi eventi del passato e l’epoca che stiamo vivendo. Emerge così che il vincolo catastrofico delle estinzioni sta nella scomparsa delle specie. Quello della sesta estinzione, in particolare, riguarda il fatto che coinvolge oggi anche molte specie carismatiche che abbiamo conosciuto nel corso delle nostre vite. Certo, un’estinzione ha liberato anche opportunità per le specie che non si estinguono. Non si tratta di essere catastrofisti, ma di ricordare che dopo le grandi estinzioni la vita si è ripresa. I momenti di crisi coincidono con grandi opportunità. Gli organismi che sono sopravvissuti si sono trovati in un mondo nuovo, diverso, in cui i loro adattamenti, le loro evoluzioni adattative sono tornati utili. Oggi la responsabilità di una nuova estinzione dipende largamente da noi, dalla nostra specie e dai nostri comportamenti. E ritorna la paura di non farcela. L’attenzione della mostra si rivolge anche all’evoluzione linguistica e culturale e consente di osservare non solo il valore della biodiversità, ma anche quello delle diversità linguistiche, mettendo in evidenza lo straordinario patrimonio che le differenze che generano differenze costituisce per noi e per tutto il sistema vivente, essendo probabilmente uno dei principali tratti distintivi e caratterizzanti della vita stessa.

 

Può quell’uomo che siamo e che si sente piccolo di fronte alle estinzioni di massa fare qualcosa per contrastare la sesta estinzione? Con questa domanda si esce dalla mostra e si riconosce quale può essere il grande valore di un museo che ci permette di misurarci concretamente con una delle questioni più rilevanti, forse la più importante, con cui oggi la nostra specie deve fare i conti. La sensazione è che possiamo fare molto ma bisogna rimboccarsi le maniche e prendere sul serio le questioni che la mostra solleva, traducendole in azioni, scelte e comportamenti concreti. Accanto a questa sensazione sentiamo la pura di non farcela, piccoli come siamo, ma anche pervasivi e distruttivi.

 

Allora emerge quello che forse è il principale effetto problematico e angosciante della paura: il fatto che quell’area delle emozioni di base che ad essa si riconduce attacca in modo frontale e profondo un’altra area emozionale che ci caratterizza e distingue, il sistema emozionale della ricerca, come lo chiama il neuro scienziato Jaak Panksepp in Archeologia della mente pubblicato da Raffaello Cortina Editore. Quel sistema emozionale della ricerca è necessario alla sopravvivenza e lo avvertiamo particolarmente a rischio quando la paura si fa vicina perché è il nostro simile la sua principale fonte.

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Archeologia della mente

Non si dà vita vera se non nella falsa

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Fin dal sottotitolo La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo (DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 106) di Paolo Godani si presenta come un pamphlet propositivo di un intreccio indissolubile tra pensiero filosofico e azione politica e, come ogni pamphlet, parte da una presa di posizione radicale e traccia le linee introduttive di una teoria e una pratica da fare. Il riferimento più costante del testo, quello da cui prende le mosse e con cui non si abbandonerà mai il confronto, è senza dubbio il frammento di Walter Benjamin che prende il nome di Capitalismo come religione.

 

In esso Godani trova gli strumenti d’analisi per rendere conto della situazione esistenziale contemporanea segnata da un’atomizzazione atta a formare degli individui in solitudine e del tutto incapaci di una vera comunicazione, anche se occupati tutti nelle stesse attività, da un lato; e dall’altro la totalizzazione di un senso della vita individuale che trova in un compimento destinale e teleologico la propria conclusione. Entrambi questi aspetti, che sono strettamente legati, presentano un correlato al contempo genealogico ed esistenziale rispettivamente in ciò che Benjamin chiama «le preoccupazioni», e il dispositivo di indebitamento e colpa. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto non si tratta tanto della colpa che assumerebbe un eroe tragico, e che quindi lo assegnerebbe inevitabilmente all’espiazione con il pagamento della vita – da un punto di vista “sociale” tale modo di intendere le cose ricorda la sequenza discontinua di internamenti come analizzata da Michel Foucault nell’ambito delle società disciplinari –, bensì dell’inscrizione di ogni individuo in un sistema che, come una religione «senza tregua e senza pietà», è totale e privo di zone d’ombra che consentirebbero di costituirsi parte antagonista e sfuggire a quella stessa inscrizione che ti individua nel momento stesso in cui ti incide nella carne un debito e una colpa che si possono ripagare solo rilanciando colpa e debito, in una destinazione senza compimento perché già da sempre compiuta.

 

A partire da qui l’insorgere di preoccupazioni costanti e assillanti che, preso atto dell’assenza di ogni possibile via d’uscita comune, non fanno altro che approfondire solitudine e colpa dal momento che ognuno è preso dalla soluzione delle sue pre-occupazioni che non gli consentiranno mai di occuparsi di qualcosa, di sentirsi ingaggiato da ciò che di comune pure si riuscirebbe a vedere, a patto di poter prendere un po’ di respiro. Se Gilles Deleuze per tutta la vita ha cercato di proporre il paradigma di un desiderio produttivo contro quello di un desiderio acquisitivo che per più di due millenni ha occupato la speculazione etica e metafisica, qui il problema diventa ancora più profondo. Infatti nella struttura di funzionamento della preoccupazione, per cui la soluzione di un problema già soffoca con la consapevolezza che un altro problema sorgerà, sembra di vedere il rovescio o l’ombra più scura del desiderio acquisitivo che si vuole insoddisfacibile e rilanciato da ogni oggetto che consuma. Tuttavia se almeno tale desiderio poteva portare ad una momentanea, brevissima, soddisfazione, togliersi una preoccupazione non lascia che l’illusione d’una soddisfazione negativa data dal fatto, almeno per qualche minuto, di essere lasciati in pace.

 

In contrapposizione a tutto questo Godani immagina la possibilità di un comune, di una vita comune, che già scorre al di sotto della parcellizzazione capitalistica e che si tratterebbe di riscoprire o – vedremo alla fine, forse contro gli intenti del libro – di inventare. Termine paradigmatico di questa vita comune è per Godani quello di carattere, che ha l’ambivalenza di funzionare benissimo sia in un contesto di “comune”, sia in quello di una idiosincrasia individuale. Se nel secondo caso indica il tratto proprio, o appropriato, di ciascuno nella sua individualità e che eventualmente potrà fare società in consorzio contrattuale con altri caratteri; nel primo caso esso non ha altra valenza che il tratto da commediante, che ognuno si trova a recitare con una distanza tale da non prevedere un sostrato cui applicarsi né appropriazione possibile, nel gesto di una pura espressione. Si tratta di pensare a un mondo che Godani chiama, operando un rovesciamento già implicito nel libro di Robert Müsil, di «qualità senza uomo», in cui sono i tratti singolari ad essere condivisi e a intessere un multiverso di relazioni e ambienti che potremmo definire con il termine simondoniano di transindividuale: a patto però di far saltare il dispositivo ontologico società/individuo, che prevede di scegliere a quale termine concedere una realtà effettiva – operazione, questa, sulla quale Godani tende a sorvolare, coerentemente con le sue posizioni argomentative che di fatto non prevedono il sussistere di qualcosa come un soggetto.

 

Scrive Benjamin in Capitalismo come religione: «Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è – per una profonda analogia ancora da esaminare (ci proveranno altri, attorno al 1972 [n.d.A.])– il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio». Paolo Godani sembra assumere tale punto e, proponendosi di pensare a questa vita comune senza soggetto, sottrae alla psicoanalisi il suo punto di applicazione più proprio. Questo gli consente di abbozzare dei ripensamenti di condizioni mentali e stati d’animo che egli sente urgenti da indagare – la depressione, la paranoia, l’amore, il feticismo e la melanconia – non come affezioni che colpirebbero qualcuno, bensì come stimmungen collettive, come risonanze transindividuali, tutte pronte a mostrare la loro doppia faccia e a potersi trasformare in risorse. Se depressione e paranoia sono atmosfere individualizzanti/assoggettanti che precludono anche la percezione di qualcosa di comune, esse possono essere ribaltate e mostrate come comuni nella loro costituzione più intima. Se feticismo e melanconia pervertono il desiderio, essi mostrano anche altri accessi possibili allo stesso desiderio, nei termini di un attaccamento ai tratti non individuali il primo, e di una veggenza contemplativa senza oggetto il secondo. Così come l’amore diventa tragico e destinale quando incatenato alla fedeltà per l’oggetto amato, mentre diviene libero e gioioso nell’affermazione dell’incontro d’amore.

 

In tutto il testo di Godani l’attenzione si pone, anche sulla scorta de L’uso dei corpi di Giorgio Agamben, sul come delle forme di vita, sulla loro molteplicità di stili e modalità espressive, sul loro essere in comune. Proprio per questo, nel momento in cui si tratta di provare a stilare una proposta etico-politica, diventa necessario ribaltare il che fare? di Lenin per trasformarlo in un come fare? E la risposta ha a che vedere con l’affermazione di un’immanenza radicale della vita comune, la quale si sottrae ad un progetto che consentirebbe di realizzarla, al prezzo del sacrificio di ciò che non è necessario ad alimentare il progetto stesso. La vita comune si porrebbe quindi in una dimensione eterogenea rispetto al dispositivo mezzi/fini, ed eterogenea quindi, sostiene Godani, al tempo cronologico. Proprio questo si presenta come il punto più problematico del libro, poiché il capitolo dedicato alla struttura del tempo è anche quello in cui emergerebbe con forza l’aspetto pratico, ed evidentemente è il capitolo centrale del testo (anche nelle intenzioni dell’autore, che vi rimanda in nota per tre volte).

 

Lì Godani ricusa la proposta di Francis Fukuyama sulla fine della storia, tuttavia, escludendo qualsiasi tipo di rapporto progettuale tra presente e futuro e non costruendo un altro tipo di relazione possibile, arriva a tematizzare qualcosa di ben più disperato come una fine del mondo. In tal modo non si pensa affatto un’uscita dalla cronologia (affidata bergsonianamente al rapporto presente-passato nei termini di una memoria materiale), ma l’asserzione di un presente perpetuo in cui – Godani lo riconosce – il sentimento dominante non può che essere la disperazione. Quest’ultima stimmung mostrerebbe il suo lato comune nel momento in cui si scollega dalle speranze disattese per voltarsi a contemplare ciò che esiste in quanto tale, nella speranza che sia del tutto esatta quella favola secondo la quale il mondo messianico è esattamente questo mondo, solo spostato di un millimetro. Eppure sarebbe forse meno disperante prendere sul serio quel breve cenno delle tesi Sul concetto di storia di Benjamin secondo il quale agli uomini «è stata consegnata una debole forza messianica», e cominciare a pensare al mondo messianico come questo mondo, solo da spostare di un millimetro.

 

Lo stesso Paolo Godani sembra pensare a qualcosa di migliore della sua ultima soluzione quando parla di una «strategia del disconoscimento» (p. 13) per la quale si tratterebbe di pretendere di non vedere ciò che la società mostra come evidente, di non negare nulla in effetti, ma di fingere altre possibilità non previste dal progetto totalizzante del capitale. Si tratterebbe di usare a distanza un desiderio non assoggettato per rodere la maglia della vita sociale e riempire quei fori – dietro i quali forse non c’è nulla che non vi si metta – con vita comune. E d’altronde, la scrittura di questo libro non è forse il modo di Paolo Godani di giocare il disconoscimento? La vita comune è infatti scoperta quanto inventata; sostenuta quanto proposta, fabulata e creata. 

Per citare Franco Fortini, citato da Godani, «non si dà vita vera se non nella falsa», perché è tramite questa falsificazione che si può forse inscenare una guerriglia contro debito e colpa, per continuare ad accedere ad una vita che, ovviamente non autentica, può però sognare di essere libera.

 

Si giocherebbe qui tutta quella potenza del falso, come la chiamerebbe Deleuze, in cui è la fabulazione comune a costituire un avvenire non progettuale, già insito in questo presente e in questa vita. Se si tratta di combattere la mitologia colpevolizzante con una mitopoiesi che, come direbbe Enzo Melandri, libera un vissuto più forte della coazione a ripetere di un gesto calcificato, allora forse, nel tessere la rapsodia di nuovi miti, sarà necessario ristabilire un soggetto o due. Questi ultimi, come il girotondo di prigionieri di Vittorio Sereni, «sanno di un bagliore che verrà | con dentro, a catena, tutti i colori della vita | – e sarà insostenibile.»

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Pregiudizio

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Storie 

(a)

Quattro aperitivi analcolici, aveva ordinato al cameriere quello di loro che sembrava più a suo agio degli altri. Certo, era l’unico che aveva il cellulare alla cintura, i blue jeans e la camicia a scacchi colorata. Anche altri due di loro si muovevano con un certo agio, come chi ormai conosce i posti e ha imparato alcune abitudini di base. Era il quarto che si misurava evidentemente con quel mondo per la prima volta. Statuario, col suo fez col pon pon, si guardava intorno alla ricerca di segni accessibili e si muoveva con una certa pesantezza nel suo vestito lungo, sotto il quale spuntavano dei corti pantaloni e sandali di cuoio consunto. Gli altri tre no: avevano scarpe da ginnastica di quelle che non cambiano mai colore anche quando sono vecchie, e esibivano una certa confidenza col luogo. La piazza era quella di una città del nord est, medievale e curata da attenti restauri, nell’atmosfera di un sabato pomeriggio dei primi di novembre. Seduti al tavolo del bar avevano intavolato da subito una di quelle fitte conversazioni fatte di parole incatenate le une alle altre, interrotte solo da fragorose risate, che portano nei nostri pomeriggi perbene pezzi di mondi diversi e lontani.

 

Il cameriere aveva depositato sul tavolo prima di tutto la ciotola con le noccioline americane con un cucchiaio infilato al centro e solo dopo i quattro bicchieri ripieni a metà di un liquido rosso. Il parvenu, l’ultimo arrivato, quello con il fez, aveva subito allungato la mano, e preso il cucchiaio lo aveva riempito di noccioline e stava per portarlo alla bocca. Non aveva fatto in tempo ad avvicinare il cucchiaio alla bocca che il cameriere, giratosi di scatto, gli aveva intimato con un eloquente gesto della mano, di non fare così, invitandolo a riporre le noccioline e mostrandogli come si deve mangiarle. Aveva preso il cucchiaio e mimando il gesto di depositare nell’incavo della mano un po’ di noccioline riponendo poi il cucchiaio, simulava l’atto di mangiare le noccioline una alla volta, dicendo al parvenu:" vedi, si fa così". Fu a quel punto che il parvenu piazzò il suo colpo di teatro. “Ma come!, disse ai compagni, nel suo francese maghrebino, “sono venuti da noi che mangiavamo con le mani e ci hanno detto che eravamo incivili e non appartenenti alla specie umana per i nostri costumi selvaggi; ora ci dicono che dobbiamo tornare a mangiare con le mani, facendo ancora una volta quello che vogliono loro!”

 

(b)

Una sensazione vaga di essere osservato l’aveva avuta, come quando uno sfondo preme sulla figura pur rimanendo sfondo. Del resto la sua attenzione era protesa a leggere dal cartellone bianco l’ora d’arrivo del treno alla stazione di Lecco. Gli sembrava di essere in ritardo per andare incontro all’amico che arrivava da Milano. Purtroppo le domande di fine seminario non finivano più e poi, si sa, c’è sempre quell’ultimo partecipante che ha bisogno di un chiarimento riservato e non rinviabile sulla soglia della porta dell’aula. Dopo la doccia si era cambiato del vestito di lavoro indossando una tuta che era risultata più larga del solito. Negli ultimi tempi era dimagrito. La cosa gli aveva procurato un certo piacere. L’elastico dei pantaloni della tuta non gli stringeva più i fianchi, anzi il corpo ci giocava dentro e le linee affusolate gli avevano procurato un certo compiacimento. Di corsa fino alla stazione dove aveva dovuto affrontare il solito problema del parcheggio, si era rassegnato a lasciare l’automobile fuori posto con le luci lampeggianti. Era entrato in stazione dallo spazio laterale facendo gli scalini di corsa a due a due. Finito direttamente sul primo binario non aveva visto alcun treno e si era perciò orientato a cercare il cartellone degli arrivi. Era esposto sul muro dell’edificio della stazione che dava sul primo binario, a lato di una panchina di pietra, come accade nelle stazioni di provincia che ostentano ancora un certo tocco di liberty. Proprio su quella panchina erano sedute due donne, una giovane e una anziana che per lui erano null’altro che sagome di sfondo, concentrato com’era a capire dove fosse il treno del suo amico. Fu dalla donna giovane che venne la voce sibilante, quasi un urlo, nel momento in cui, sporgendosi per leggere l’ora d’arrivo del treno, si era sistemato i pantaloni della tuta, scesi leggermente sulla vita. In un italiano approssimativo ma chiarissimo, con un forte accento slavo, la giovane donna gli urlava che i suoi genitali lui li mostra a sua sorella, che non ci provi con lei, che non si permetta. A nulla era valso il suo tentativo di spiegare come stavano le cose, di dire che aveva semplicemente sistemato i pantaloni larghi.

 

Anzi, era stato peggio. La signora aveva urlato ancora di più brandendo due sacchetti di plastica pieni di roba e supportata dalla signora anziana che era con lei. Tanto era bastato perché in un attimo si formasse un capannello di persone accorse a commentare il fatto, e sentiva alle sue spalle la gente dire che al giorno d’oggi non ci si può fidare più di nessuno; guarda un po’, sembrava una persona per bene; e poi in piena situazione pubblica; qualcuno alludeva alla possibilità di chiamare la polizia e la signora urlava sempre più. Prima ancora di pensarci cambiò tono e urlando a sua volta, con la massima autorità di cui era capace disse: adesso basta! Non l’ho neppure vista e non ho fatto né farei niente che la riguardi, perciò la smetta! Non fu la giovane signora a cambiare atteggiamento ma le persone presenti. I loro commenti cambiarono di tono e qualcuno cominciò a dire che questi immigrati dovrebbero starsene a casa loro; che è inaudito che uno a casa propria non possa mettersi comodo e fare quello che vuole; che se loro vengono da mondi e abitudini barbare non è colpa nostra, e avanti di questo passo. Da potenziale stupratore si ritrovò paladino della guerra agli immigrati e dell’autenticità etnica. In entrambi i casi si sentiva stretto in una tenaglia. Per fortuna arrivò il treno, le signore si precipitarono a prenderlo, le persone del capannello si dileguarono e il suo amico apparve tra la folla del sabato sera, sul primo binario della stazione di Lecco.

 

Ridurre la varietà del mondo e le sue differenze a una forma sola: questo è quanto fa il pregiudizio quando si fossilizza in stereotipia. La più grave delle conseguenze, dentro l’illusione di sicurezza che ne deriva, è la negazione delle capacità creative. Il mind wandering si atrofizza e non vaghiamo più. La bellezza della plurale varietà del mondo, la sua vaghezza, appunto, si mortifica in una sola forma, sacrificando sull’altare della rassicurazione la molteplicità delle vie possibili. Del pregiudizio si sono dette tante cose, ma la sua capacità, nelle versione della stereotipia, di attaccare e neutralizzare la capacità creativa, è forse uno degli aspetti più caratterizzanti. Se creare è il modo naturale di funzionamento della mente, c’è da chiedersi come è possibile che quel modo naturale finisca per essere neutralizzato, messo almeno in parte a tacere, negato. Noi disponiamo, per via evolutiva, di una disposizione a scomporci, mettendo in discussione un ordine costituito, e a ricomporci, generando nuovi mondi e nuove prospettive. La creatività è un aspetto costitutivo dell'identità e della soggettivazione, che prende vita quando la mente riesce a fare proprie le percezioni e le sensazioni corporee e si completa con la creazione di quel magnifico ponte, per comunicare con se stessi e con gli altri individui, che è l'oggetto artistico. Così si esprime sulla creatività Stefano Calamandrei, in L’identità creativa. Psicoanalisi e neuroscienze del pensiero simbolico e metaforico, edito da Franco Angeli nel 2016. 

 

 

 

Basta osservare una bambina che gioca per comprendere che nella creatività, così come in quasi tutta la nostra esperienza, si realizza ancora una volta il primato dell’azione. Avevamo a lungo pensato che quella bambina componesse e scomponesse i suoi giocattoli o altri oggetti, li montasse e li smontasse a partire da “teorie mentali” o “immagini mentali” che applicava, trasferendole, alla realtà degli oggetti. Verifichiamo oggi che sono gli atti motori sostenuti dal sistema motorio che presidiano alle espressioni generative con cui il bambino smonta e ricompone in atti continuativi e interminabili gli oggetti del mondo, dando vita allo stesso tempo all’invenzione di animali fantastici, che pur non esistendo nella realtà, esistono per quella bambina e quel bambino. L’adulto non è da meno, se si ascolta, e se non censura la propria capacità generativa consegnandosi alla razionalità illusoria o al pregiudizio che diventa stereotipia. Tutto ciò pone una domanda: se la creatività è la principale attività della mente umana, come può accadere che si rinunci ad essa o se ne neghi la funzione e l’azione fino a non vedere di non vedere? Sì, perché il pregiudizio, quando si fossilizza in stereotipia è una forma di autoaccecamento; un sacrificio della creatività sull’altare della rassicurazione. Se creare è una disposizione naturale della mente umana, una capacità di scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente, il pregiudizio che diventa stereotipia opera una specie di glaciazione di questa disposizione in nome di una rassicurazione nei confronti della paura di cambiare idea su qualcuno, su qualcosa o su un fenomeno del mondo.

 

È stato il premio Nobel Gerald M. Edelman a identificare il cervello umano come un “generatore di diversità”. Nelle dinamiche circolari corpo-cervello-mente-relazioni-contesto, quella capacità generativa, a un certo punto, pare essere investita per ostacolare o negare l’insorgere di differenze e per trattare le diversità come un pericolo. Mentre in molti casi il filtro degli stimoli esterni avviene con significativi investimenti di creatività da parte del sistema sensoriale, e si producono ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto, nella situazione di pregiudizio stereotipante la mente è come se si privasse di vagare e si agganciasse a un solo appiglio, sempre quello, dismettendo la sua attenzione fluttuante. Si congela la capacità di finzione e l’esplorazione dell’ambiente di vita si affida a una sola prevalenza tra le vie per interagire con il mondo. La nostra mente, infatti, esplora l’ambiente, che comprende anche gli altri, e si accoppia con esso, provando paura per evitare pericoli; categorizzando le differenze del mondo; sentendo desideri; arrabbiandosi per rimuovere ostacoli; prendersi cura di se stessi e degli altri; giocare; immaginare.

 

A un certo punto, col presentarsi del pregiudizio e con la sua trasformazione in stereotipia, l' elevata varietà di queste dinamiche sembra ridursi a una, prevalentemente alla paura, che spesso si combina con l’aggressività e la rabbia. Quando la creatività si dissecca e implode, accade in buona misura perché non riusciamo a cambiare idea, a rimuovere un ostacolo affettivo e cognitivo che ci impedisce di vedere il valore di una differenza, o non ce la facciamo a sentire prossimo chi tale è. Se la creatività è figlia di una capacità umana specie specifica, essa dipende spesso anche da risposte all’angoscia. Possono esservi paure angoscianti che ne neutralizzano l’espressione a tutto vantaggio dell’affermazione di stereotipi e pregiudizi. Sia la stereotipia che il pregiudizio non tollerano il vuoto della ricerca e del dubbio, e così le differenze non fanno sentire vivi, non diventano forme vitali, ma sono vissute come minacce. Così come nell’atto creativo, che avviene nel mondo interno e cerca riconoscimento nel mondo intorno a noi, lo sguardo dell’altro è decisivo, nel pregiudizio stereotipato lo sguardo dell’altro non conta; anzi l’indifferenza e la saturazione del proprio sguardo, congelato nella certezza rassicurante, impediscono di considerare quello sguardo fino a negarlo, ad escluderlo, ad appartarlo.

 

La perdita è netta, se è vero come è vero che solo nello sguardo dell’altro ci riconosciamo, a partire dallo sguardo materno. La creatività è sempre caratterizzata da un difficile accordo tra mente e mondo: in quegli scarti si aprono problemi e disagi da elaborare, ma anche spazi generativi. Del resto il disagio è proprio relativo a quella particolare situazione in cui non si è perfettamente a posto. L’accordo tra mente e mondo sarà anche faticoso, ma è portatore di quella particolare tensione che può dare vita a quello che prima non c’era. Nel pregiudizio la mente si arrende alla realtà così come si ritiene senza dubbio che sia, patendone l’imposizione in cambio di una rassicurazione acritica e vissuta come definitiva. Definitiva fino alla sua naturalizzazione, alla sua normalizzazione naturale. Come scrive Ta-Nehisi Coates, in Tra me e il mondo, Codice edizioni, Torino 2016: “Gli americani credono nella realtà della ‘razza’ come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale” (p. 15).

 

 

La lingua è rivelatrice del processo di fissazione e naturalizzazione che la stereotipia pregiudiziale produce. Anche se è proprio la lingua a spostare l’attenzione dalla dura concretezza degli effetti del pregiudizio stereotipato verso una lettura che sembrerebbe indicare che quegli effetti potrebbero fermarsi ad aspetti di superficie. Non è così. Il pregiudizio attacca i corpi e genera molteplici forme di esclusione e distruzione. Scrive ancora Ta-Nehisi Coates: “La nostra stessa terminologia, relazioni di razza, divario tra razze, giustizia razziale, profili razziali, privilegio bianco, persino supremazia bianca, serve a offuscare il fatto che il razzismo è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti” (p. 19). Rivolgendosi al figlio a cui indirizza la narrazione del libro, l’autore gli dice: “Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi della regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo” (p.19). E approfondisce il proprio sentimento di vittima di pregiudizio stereotipato, affermando: “Ora ti dico che il problema di come si debba vivere dentro un corpo nero, all’interno di una nazione perduta nel Sogno è il dilemma della mia vita” (p. 21). La nazione del Sogno sono naturalmente gli Stati Uniti. Il pregiudizio stereotipico non solo nega, ma anche nasconde, cela, elude. Il volto pubblico e rassicurante degli Stati Uniti d’America, così sovente squarciato da eventi violenti e distruttivi prodotti dal pregiudizio verso i neri, si cela, infatti, sotto una falsa moralità. “Avevo il presentimento che la scuola ci stesse nascondendo qualcosa, drogandoci con una falsa moralità così da impedirci di vedere, di chiedere: perché per noi, e solo per noi, l’altra faccia del libero arbitrio, dello spirito libero, si traduce in un assalto contro i nostri corpi?”, così aggiunge Ta-Nehisi Coates (p. 39). La domanda inquietante apre alla necessità di un’analisi che sia capace di cogliere la complessità del pregiudizio, oltre le spiegazioni semplicistiche.

 

Da quando il fenomeno è stato studiato con una certa attenzione è stato possibile riconoscere l’importanza di evidenziarne la dimensione relazionale e intersoggettiva. Per un comportamento che denigra l’altro (eterodenigrazione), a cui corrisponde di solito un’autoesaltazione, sembra esservi dall’altra parte una posizione corrispondente di autodenigrazione e di eteroesaltazione. Come sempre non vi è vittima senza carnefice e non vi è carnefice senza vittima. Per comprendere questa dinamica di glaciazione delle differenze e di negazione della discontinuità creativa è necessario non perdere di vista la distribuzione delle responsabilità. Dalla costruzione di uno stigma fino alla violenza fisica sui corpi, non è possibile non considerare, per quanto possa essere difficile farlo, il comportamento delle vittime. Vale anche per la persecuzione degli ebrei e per i comportamenti collusivi che, perlomeno all’inizio, generarono una capacità di reazione tiepida. La nostra disposizione a restare sudditi, come dice Spinoza, non va mai trascurata. Ciò detto, è importante, inoltre, vedere nel pregiudizio anche una dinamica che, prima che diventi stereotipia, è abbastanza diffusa, poiché ogni giudizio è di solito preceduto da una valutazione preliminare, provvisoria e parziale che lo anticipa. Comunque si consideri, incluse queste dinamiche che lo caratterizzano, il pregiudizio che diventa stereotipo può essere riconosciuto come una delle cause principali della negazione della capacità creativa umana, e in questo sta la sua problematicità; da questo derivano le sue conseguenze più gravi. 

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I repertori dei matti (II)

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Sottotitolo: 
Bologna, Milano, Torino, Roma, Parma, Cagliari, Andria e Livorno

 

 

Qui la prima parte.

 

Una delle cose che non volevamo fare quando abbiamo cominciato a lavorare sui Repertori dei matti delle viarie città, era un libro su dei matti scritto da dei sani. 

Io, allora, alla fine del 2014, avevo appena letto dell’idea di Lacan che il matto, ormai, in occidente, non poteva più considerarsi quello che si metteva lo scolapasta in testa e credeva di essere Napoleone. Il matto, secondo Lacan, avevo appena letto, era Napoleone che credeva di essere Napoleone, e questa idea di Lacan sono stato tentato di metterla in epigrafe ai repertori dei matti delle varie città fino a che non ho letto un saggio di Manganelli dove Manganelli spiega perché ha cominciato a scrivere, e dice che ha cominciato perché non sapeva come allacciarsi le scarpe, e indica il matto come modello di quelli che, come lui, scrivono. 

«Il matto – scrive Manganelli – viene prima dello scrittore, dell’astrologo, dell’alchimista; in qualche modo, è la figura archetipa, l’esempio che costoro imitano. È ovvio che non si valuta un matto: non si dice “costui è un matto ‘bravo’”, non ci sono matti migliori di altri; un matto è un capolavoro inutile, e non c’è altro da dire».

 

Questa immagine di Manganelli del matto come capolavoro inutile, che si ritrova in una una sua poesia: («Scrivi scrivi / se soffri adopera il tuo dolore: / prendilo in mano, toccalo, / maneggialo come un mattone, / un martello, un chiodo, / una corda, una lama; / un utensile insomma. / Se sei pazzo, come certamente sei, / usa la tua pazzia: i fantasmi che affollano la tua strada / usali come piume per farne materassi; / o come lenzuoli pregiati / per notti d’amore; / o come bandiere di sterminati / reggimenti di bersaglieri [Giorgio Manganelli, Poesie, Milano, Crocetti 2006, p. 184]), noi l’abbiamo un po’ presa come guida, e quando io mi sono accorto di essere finito nel repertorio dei matti della città di Bologna, cioè che uno dei matti bolognesi ero io, devo dire che sono stato contento. Tra gli estensori del repertorio dei matti della città di Torino c’era Angelo Fioritti, che è stato per anni direttore del Servizio di Diagnosi e Cura dell’ASL di Bologna e che coi matti ci ha lavorato per anni. Angelo ha detto che per lui è stato molto interessante fare questo lavoro perché per lui è stato anche un momento per capire il modo in cui chi, come me e come la maggior parte degli altri redattori, non aveva mai avuto frequentato in modo continuativo dei matti, considerava i matti, e quando poi il libro è uscito Angelo ha organizzato una presentazione in un posto bellissimo, l’oratorio di Santa Maria della Vita, in centro a Bologna; io quel giorno lì ero un po’ agitato perché non sapevo come sarebbe andato, l’incontro, invece la cosa mi sembra che poi sia andata bene e alla fine, una delle pazienti di Angelo mi ha chiesto «Ma perché non avete fatto un repertorio dei normali, della città di Bologna? Io ne ho scritto uno, posso leggerlo». E il suo normale diceva «Uno si svegliava al mattino, faceva la doccia, si faceva la barba, si vestiva, faceva colazione, caffelatte e biscotti al cioccolato, si lavava i denti, usciva». Una cosa noiosissima.

 

Una cosa che mi ha detto Angelo, quella sera lì, e nemmeno a quella avevo pensato, era che noi, nei nostri libretti, avevamo un po’ cancellato il confine tra sanità e pazzia, che è una cosa che mi è tornata in mente quando, lavorando al Repertorio dei matti della città di Roma uno dei redattori ha letto questo matto:  «Uno che si chiamava Nino B. stava nel padiglione 16 e quando gli dissero che volevano chiudere il Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico di Roma, prese il direttore sanitario Tommaso L. e gli disse: “non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori”».

Dopo il Repertorio dei matti della città di Bologna, che abbiamo fatto alla libreria Modo Infoshop di Bologna, e il Repertorio dei matti della città di Milano (che abbiamo fatto ai Frigoriferi milanesi) abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Torino (al Circolo dei lettori di Torino) e il Repertorio dei matti della città di Roma (alla Liberia Altroquando). 

Per quel che ne capisco io (poco, credo) il matto più torinese dei matti di Torino è:

 

Uno  che telefonava ai vicini per dire che dalla sua finestra vedeva  un quadro storto e  per favore di drizzarlo, se no non riusciva a dormire.

 

I matti torinesi, per quel che ne capisco io (poco, credo), sono matti domestici, se così si può dire, quasi tutti in interni, e si comportano come se fossero in interni anche quando sono all’aria aperta, come questo: 

 

Uno percorreva le vie attorno a Porta Nuova munito di spruzzino tipo Vetril e di straccio. Spruzzava il detersivo su marciapiedi, davanzali, auto parcheggiate, eccetera e poi puliva.

 

O questo qua: 

 

Uno si puliva i denti col filo interdentale in chiesa, durante la messa.

 

Altri matti di Torino sono questi: 

 

Uno faceva il cantautore andava col treno a suonare in giro per l’Italia. Raramente faceva il biglietto. Una volta era arrivato un controllore e gli aveva chiesto il biglietto. Lui si era alzato di scatto, “Oh, proprio lei stavo cercando” gli aveva detto, poi gli aveva spiegato di essere un giornalista de La Stampa e di stare facendo un articolo su Trenitalia e che doveva assolutamente parlare col capotreno. Poi gli aveva fatto un sacco di complimenti e il controllore lo aveva accompagnato dal capotreno. Il cantautore aveva fatto un sacco di complimenti anche al capotreno e anche molte domande e il capotreno era così contento di fare un’intervista che aveva risposto a tutte le domande e gli aveva poi fatto anche vedere la cabina di guida. Poi alla fine quando erano arrivati a Torino il cantautore gli aveva detto che il pezzo sarebbe uscito la settimana successiva ed era sceso, lasciando il capotreno tutto contento, così contento che si era scordato di chiedergli il biglietto. 

 

 

Uno si era rapato a zero lasciando solo un  ricciolino che gli ricadeva sulla fronte. Alla domanda “perché quel ricciolo?”, rispondeva: “perché  mi chiedano perché quel ricciolo? Quando incontro qualcuno non so mai cosa dire e da cosa cominciare”.

 

Una volta mentre il cantautore si trovava su un treno in Abruzzo era arrivato il controllore e gli aveva chiesto il biglietto. Lui si era alzato di scatto, “Oh, proprio lei stavo cercando” gli aveva detto, e gli aveva spiegato che lui era una vita che aveva un sogno nel cassetto e quel sogno nel cassetto era annunciare agli altoparlanti del treno Intercity l’arrivo alla stazione di Pescara, e il controllore doveva essersi sentito un po’ lusingato che qualcuno desiderasse fare così tanto una cosa che lui faceva così spesso, così gli aveva fatto annunciare la stazione di Pescara. “Siamo in arrivo alla stazione di... Pescara” aveva detto scandendo bene le parole il cantautore al microfono, e la sua voce era riecheggiata in tutte le carrozze del treno in arrivo alla stazione di Pescara. Il cantautore aveva ringraziato tanto il controllore per avergli dato la possibilità di esaudire quel sogno, poi mentre il treno si fermava e le porte si aprivano aveva raccolto la chitarra ed era sceso, lasciando il controllore così contento che si era scordato di chiedergli il biglietto.

 

Un’insegnante ogni volta, ma proprio ogni volta, che usciva da scuola, sbraitava in crescendo: «Sono stufa, ma stufa, ma stufa, ma stufa…………… aaaaaaaaaaaaah come sono stufa!». Una volta andata in pensione continuava: «Ero stufa, ma stufa, ma stufa………….. aaaaaaaaaaaah com’ero stufa!».

 

Uno aveva passato un po’ di anni chiuso in casa a guardare la filmografia di Bergman poi si era comprato una Volvo per affetto.

 

Uno nel 2009, due anni prima di diventare sindaco di Torino, aveva detto a un giornalista di RepubblicaTv: “Perché se Grillo vuole far politica, fondi un partito, metta in piedi un’organizzazione, vediamo quanti voti prende, e perché non lo fa?”

 

Una aveva preso in prestito un libro e c’era una annotazione a matita nella prima pagina: “bellissimo”. Dopo averlo letto, condividendo l’opinione dello sconosciuto che lo aveva preceduto nella lettura, aveva scritto, sempre a matita: “è vero”. Dopo l’aveva restituito. Ogni tanto, poi, provava a riprenderlo in prestito per vedere se la conversazione fosse andata avanti, ma non si imbatteva mai nella copia di allora e ci rimaneva male. 

 

Una è traduttrice. Quando ha pronte le varie stesure di un testo, prima la versione pigra, con quello che le viene in mente lì per lì e poi, poco a poco, la bella (che proprio bella bella non le sembra mai) le legge tutte ad alta voce facendo avanti e indietro lungo il corridoio, per accompagnare l’andamento sintattico. Siccome ormai le case hanno i muri di cartone, un giorno lungo il corridoio ha sentito la vicina che diceva al telefono: «Questa qui di fianco è matta, parla da sola per delle ore, poveretta, così giovane, meno male che non ha figli». 

 

C’era uno che ha lasciato un’impronta di sé, una figura sofferente e statica, ormai molti anni fa. Di tanto in tanto ci sono periodi in cui si concede un'ostensione, pubblica, ma sempre molto ben protetta; per tutte e tutti coloro che continuano a credere di riconoscerlo.

 

Poi dopo abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Roma. Io, ne so poco, ma ho l’impressione che, a Roma, se ne potrebbe scrivere uno al giorno, dei Repertori dei matti della città di Roma. Uno arriva in stazione, comincia a guardarsi intorno, e prende nota. Alcuni esempi, comunque, di quel che è saltato fuori quando ci abbiamo provato poi, sono questi: 

 

Uno era un autista dell’autobus 62. Quando arrivava la notte, alla fine della corsa al capolinea di Piazza Bologna scriveva sul suo display “Gotham city”.

 

Uno su una cassetta delle lettere al Trullo ha messo un cartello: Tra mail whatsapp e sms / le mie prospettive nun so più le stesse / me sembro n’anziana ‘n po’ rimbambita / che in mezzo alla strada osserva la vita / la vita che ormai m’ha messo da parte / insieme all’inchiostro co’ le sue carte / servo sortanto pe’ mette alle strette / intere famije, co murte e bollette! / Non c’ho cartoline di viaggi in Australia / ma lettere infami firmate Equitalia.

 

Uno, stanco di abitare in una strada che non aveva un nome, un giorno, sotto casa sua ci aveva piantato un cartello. C’era scritto “Via Meglio di Niente”.

 

Una volta uno è entrato in una libreria. Dopo essersi guardato intorno per un po’ ha detto: “Ma qui vendete solo libri?”.

 

 

Una che prendeva spesso l’autobus 301 gridava ai passeggeri “servo!”, “proletaria!”, oppure “serva lesbica!” se era una donna. Arrivata alla sua fermata con gentilezza diceva “Scusi operaio, devo scendere. Vai col mitra”. Poi scendeva.

 

Uno è l’uomo uccello di Torpignattara. Si chiama Claudio Montuori e indossa piume e ciabatte, ha una nuvola di capelli bianchi e ricci in testa e suona gli strumenti che si costruisce da solo. Una volta, alla fine di una canzone, ha detto: “L’unica legge che regge è la leggerezza” e poi ha soffiato su una piuma che gli era volata via dalla testa mentre suonava. 

 

Al cimitero di Prima Porta una portava le figlie a vedere le salme bruciare per abituarle alla morte.

 

Scriveva messaggi d’amore alla ex fidanzata nelle pagine degli annunci economici di un quotidiano gratuito. “Ti amo ancora, mi manchi da morire. Ti ho vista da Pizza e Polli ieri sera, che emozione”.

 

Uno era quello che aveva preso a schiaffi Moravia, che aveva dato una ginocchiata sulle palle a Pippo Baudo, che al Festival di Spoleto si fece trovare nella stanza del compositore Gian Carlo Menotti col indosso il suo pigiama, che si autoproclamò figlio segreto di Guttuso e che, secondo Oriana Fallaci, sapeva la verità sull’omicidio di Pasolini. Si chiamava Mario Appignani e lo chiamavano Cavallo Pazzo.

 

Ogni tanto una di Via delle Fornaci faceva vestire le bambine con gli abiti da festa per andare a teatro e poi diceva che non andavano più così le educava alla difficoltà della vita.

 

Uno era quel tifoso della Roma che andò al campo di allenamento della squadra a Trigoria, aspettò che i giocatori uscissero dal parcheggio per fermarsi a fare gli autografi e quando vide il difensore Cesar Gomez, da due anni alla Roma e con una sola presenza in campionato con la sconfitta al derby, fermò la sua macchina e gli disse: “A Cesar Gomez se c’hai ‘na penna te faccio l’autografo”.

 

Uno di Trastevere è il proprietario di una Smart Nera con l’immagine di Gesù sulla fiancata e la scritta: “Con Gesù sei insuperabile”.

 

Uno era Papa Stefano VI che riesumò il suo predecessore Papa Formoso nove mesi dopo la sua morte, ne rivestì il cadavere con abiti papali, lo mise sul trono e lo interrogò e lo accusò di essere diventato papa senza averne il diritto. Fu chiamato "Sinodo Cadaverico”: giudicato colpevole di eresia, il cadavere di Papa Formoso venne condannato come “antipapa”, poi venne spogliato, gli amputarono due dita, quelle con le quali impartiva la sua falsa benedizione e poi venne buttato nel Tevere. Qualcuno poi trovò il cadavere di Papa Formoso e lo portò a San Pietro.

 

Uno era Sergio III che riesumò il suo predecessore Papa Formoso, morto, riesumato, interrogato, condannato nove anni prima. Come fece già Papa Stefano VI, Sergio III condannò Papa Formoso per eresia, gli asportò altre dita e lo ributtò un'altra volta nel Tevere dopo averlo decapitato. Ma il cadavere senza testa di Papa Formoso venne ritrovato nella rete di un pescatore e venne riportato un'altra volta a San Pietro.

 

C'era uno a piazza Fiume che alle 16,00 in punto si metteva davanti alla fermata dell'autobus e gridava: “Ansiaaaa, Ansiaaa”, tre o quattro volte, poi si bloccava, cercava con gli occhi qualcuno o qualcosa, e ricominciava a gridare: “Ansiaaa, anssiaaa". Quando gli venne chiesto chi cercasse, rispose che si trattava del suo cane.

 

Il repertorio dei matti della città di Torino è stato scritto da: Lucio Aimasso, Monica Bedana, Donatella Bosio, Francesco Caligaris, Gabriella Dal Lago, Diego Finelli, Mariangela Fassino, Sara Fiorillo, Giovanni Frigione, Pino Pace, Monica Rasino, Paola Restagno, Luca Vallese, Giorgio Viarengo e Sharon Zanni; il repertorio dei matti della città di Roma è stato scritto da Flavio Balzano, Gaspare Bitetto, Simona Caleo, Andrea Cardoni, Roberta Clementoni, Flora Farina, Francesca Fiorletta, Giorgio Galli, Matteo Girardi, Stefano Maria Girardi, Emanuela Lancianese, Antonio Migliore, Flavia Montecchi, Flavio Paioletti, Fabiana Sargentini, Margherita Schirmacher e Mara Terranuova; si continua la prossima settimana con i matti di Cagliari e Parma. 

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Occhiello: 
Il senso del ridicolo, 23/25 settembre 2015

Porno. La morte della sessualità

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I due volti della vergogna

 

La vergogna ha due volti. Da un lato è sentimento interno, che si prova di fronte a un gesto del soggetto, il soggetto si divide in due: la parte che ha commesso quel gesto, prima, la parte che giudica il gesto commesso come disonorevole, dopo. Il contrasto tra queste due istanze produce vergogna, come se il soggetto si svegliasse da un sogno. Per esempio, il sogno di essere nudi di fronte a persone di rispetto. Sogno d’inibizione. Freud ci ha insegnato cha accade a tutti, dunque la vergogna diminuisce. 

La vergogna ha un lato interno e uno esterno, posso provare vergogna di fronte a me stesso, senza che altri conoscano le vicende che me la procurano. Per alleviare le pene della vergogna posso confidare le vicende che mi hanno condotto a vergognarmi. Ne parlo a persone di cui mi fido, ma mi metto a rischio. La persona che riceve le mie confidenze può custodirle, dirmi una parola di conforto, che serva a rendere la vergogna più lieve, ma può condannarmi oppure approfittare della mia confidenza, per render note queste vicende agli altri. Così si rompono le amicizie, così si creano le ferite familiari.

Ma c’è di più, può accadere che il gesto della vergogna diventi pubblico, come a Tiziana Cantone. In questi giorni il suo caso ne ha fatti emergere altri, una ragazza di quindici anni, una donna di quaranta.

 

Ph Francesca Woodman.

 

La vita e la morte sessuale

 

La questione, nel caso di Tiziana Cantone, riguarda la pubblicazione di video porno che qualcuno avrebbe girato, in cui lei sarebbe stata protagonista, qualcosa relativo al sesso, nella sua dimensione brutale. In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo. Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore. Accade che quel che sogniamo diventa reale, esce dal dominio immaginario e si mostra pubblicamente. In questi casi ci si può non svegliare più. Il rimorso di essere protagonisti di un evento pubblico, la cognizione che quell’evento sia passato dal regno dell’immaginario a quello reale può farci piangere, disperare, impazzire, uccidere.

La storia e la fenomenologia del gesto suicidario sono altrettanto importanti. L’impiccagione non è un omicidio/suicidio qualunque. Ha rapporti più stretti di quanto si pensi con la sessualità.

 

Eva Cantarella racconta che l’impiccagione tra gli antichi è gesto o destino femminile. L’impiccagione di Giocasta, moglie e madre di Edipo, l’impiccagione, da parte di Ulisse, delle ancelle infedeli, che hanno rapporti sessuali con i proci, sono i due esempi più noti. Cantarella aggiunge che in Arcadia e in Tessaglia le giovani vergini si impiccano per evitare lo stupro. 

C’è un nesso arcaico tra impiccagione e sessualità, tra impiccagione e stupro, incesto. Il gesto di strappare i vestiti di dosso, che avviene durante lo stupro, ha qualcosa in comune col gesto del togliersi un capo di vestiario, il foulard, la cravatta, la cintura, per impiccarsi.

Le giovani vergini di Arcadia e Tessaglia s’impiccano per evitare la vergogna dello stupro, lo fanno in maniera preventiva, conoscono il loro destino e lo evitano impiccandosi. 

 

Tragedia e realtà

 

Qual è la differenza? I racconti arcaici stanno all’origine della civilizzazione, mostrano le conseguenze di quanto accade dove non c’è protezione, dove il soggetto è inesorabile preda della necessità. Là, di fronte allo sgomento, non resta che il suicidio. 

Con la tragedia, emerge la differenza tra il piano letterario, dove il destino si compie, e quello della vita reale, che produce l’immedesimazione, quindi la paura e l’angoscia di ripercorrere lo stesso cammino. La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità. 

In epoca moderna questa funzione è svolta anche dalla psicoterapia: Freud, nell’inesauribile capitolo sesto dell’Interpretazione dei Sogni, racconta dell’analisi di una donna che, nel dire al marito: “impiccati!”, esprime un desiderio sessuale verso di lui, avendo letto di recente che nell’impiccagione maschile si manifesta una repentina erezione. 

 

Ph Francesca Woodman.

 

Oggi però non ci sono più protezioni, la tragedia è morta, la psicoanalisi tramonta, come quando in un circo si toglie la rete, per accrescere la suspense, ma anche i rischi di morte. 

Nel caso di Tiziana Cantone l’impiccagione avviene a posteriori, nachträglich, per usare un termine caro a Freud. Non è tragedia, è peggio, è tragedia che diventa realtà. Non c’è bisogno di andare a teatro, basta leggere il giornale, guardare la televisione, quelle scatole che dicono cosa davvero accade. 

La tragedia è morta, è morto il dispositivo che mette in guardia il soggetto di fronte alle conseguenze dei suoi gesti; che, attraverso la scena, li rende possibili, ma non necessari. Siamo di nuovo preda della necessità. Abbiamo bisogno di una nuova cultura per rielaborare le conseguenze delle nostre azioni, una cultura meno psicotica.

 

Responsabilità

 

La psicologa Carol Gilligan, nel libro Con voce di donna, parla di un’etica della responsabilità più affine al femminile, un’etica in cui ogni nostro gesto, anche quelli che ci appaiono sommamente giusti, è inserito in una trama di eventi che possono stravolgerlo e farci vergognare di averlo “commesso”. In quel momento di crudeltà, abbiamo bisogno della tenerezza. Del gesto protettivo materno.

Non voglio essere frainteso, queste righe sono lontane da prescrizioni moraliste. La sessualità ha sempre contemplato orizzonti “perversi e polimorfi”, è una pluralità di pratiche differenti. Voyeurismo, feticismo, masochismo, sono azioni diffuse dentro la sessualità. La pratica sessuale ha bisogno di restare dentro“il messaggio ‘questo è gioco’”, come ricorda il titolo di un colloquio condotto da Gregory Bateson presso la Fondazione Josiah Macy, nel 1956.

 

La civiltà non è moralismo, è spirito di finezza nel saper dividere il privato dal pubblico, capacità di distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto, differenza tra il letterario e il reale.

Se il rapporto sessuale – con tutte le sue variazioni masturbatorie, clitoridee, anali, voyeuriste, feticiste, masochiste – diventa affare pubblico, che si svolge nella realtà di una macchina della verità (giornale, televisione, computer, internet, social network), vuol dire che i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, che tutto è uguale a tutto, che se qualcuno spara, posso sparare anch’io. 

Come ha sostenuto Ugo Morelli, in un saggio recente, si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato. In questo caso, la vergogna è sentimento che si può non provare, alieno. Dipende dalle inibizioni, dal tempo e dalla memoria. Tiziana Cantone questo sentimento lo ha provato, si è vergognata, e si è suicidata di fronte al cyberbullismo di quelli che vergogna non ne provano mai.

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I repertori dei matti

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Il repertorio dei matti di Cagliari lo abbiamo fatto grazie all’aiuto di Sardinia Post, e il direttore di Sardinia Post, Giomaria Bellu, quando ha letto il libro, ha detto che ci ha trovato dentro il tipico umorismo cagliaritano, che è una cosa che a me è piaciuta anche perché il tipico umorismo cagliaritano io non sono capace di distinguerlo dal tipico umorismo di Sassari, o di Nuoro, o di Olbia, ma credo che abbia ragione Bellu, e giudicate voi: 

 

Uno era il marito della figlia della sorella della moglie del cugino di Virgilio Savona, quello del quartetto Cetra. Lo diceva a tutti. 

 

Uno era il presidente della Regione. 

Appena eletto, parlando delle quattro province della Sardegna, aveva detto 'Le nostre undici amministrazioni provinciali'. Aveva copiato così com'era il discorso di insediamento del Presidente della Regione Lombardia.

 

Uno partecipava a tutti i funerali. In cimitero, si avvicinava alla vedova (o al vedovo), la abbracciava e le diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”. Poi si avvicinava al figlio (o alla figlia) del morto, lo abbracciava e gli diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”. Poi si avvicinava alla sorella (o al fratello) del morto, la abbracciava e le diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”.

 

Uno era un uomo che per tutta la vita aveva fatto l'autista dell'arst, quando mangiava era solito guardare il Tg Regione e tutti i giorni c'era un momento in cui lui fermava il chiacchiericcio dei familiari a tavola e, poggiando con decisione le mani sul tavolo “Schh!! silenzio”, poi si alzava per sentire meglio. Tutti stavano zitti e lui diceva “questa la conosco, l'ho accompagnata a scuola per cinque anni” oppure “questa lavora all'ospedale di Nuoro, prendeva il pullman delle cinque e un quarto, sempre in ritardo” o ancora “il figlio di questa rubava il rame dai cantieri, me l'ha raccontato una volta in confidenza, ma non ditene a nessuno”. Tutti i giorni mentre guardava il Tg3 riconosceva qualcuno. Tutti i giorni. A volte anche più di uno. Era convinto di aver accompagnato mezza Sardegna.

 

C'erano due, marito e moglie. 

Non avevano figli e non avevano amici. Passavano la settimana a lavorare, ma la domenica mattina indossavano il vestito bello, mettevano musica degli anni Quaranta sul giradischi e ballavano insieme nel salotto di casa. 

 

Uno girava per Is Mirrionis e i gruppi di ragazzini lo temevano. Si dicevano tra loro “se lo chiami Pizzaiola si incazza” e “marrano (ti sfido) a chiamarlo Pizzaiola”. E allora di tanto in tanto decidevano di sfidare il destino e, armandosi di coraggio, quando lo vedevano in lontananza gli gridavano “o Pizzaiolaaa”. E gridare e cominciare a correre era tutt’uno, perché Pizzaiola tirava fuori il coltello e si dava all’inseguimento dei ragazzini biascicando parole di vendetta. 

 

Uno era emigrato per qualche mese in Germania negli anni sessanta. Di quell'esperienza raccontava solo che era stato a Berlino e aveva saltato il muro, passando alla parte orientale, perché lui voleva vivere in un regime socialista, diceva. Era stato arrestato e dopo pochi giorni espulso, raccontava. “Avevano ragione loro”, diceva. “Come facevano a sapere che non ero una spia?”

 

Uno era diventato famoso per la quantità di cibo che era in grado di mangiare, si chiamava Gnassinu e se ne andava in giro in compagnia dei suoi due fratelli. Gnassinu e i suoi fratelli da bambini avevano conosciuto la miseria, così una volta diventati grandi e avendo lavorato sodo tutta la vita, spendevano quel che guadagnavano in cibo. Una volta li videro alla festa di santa Rega a Decimo mangiarsi 100 muggini in 3. Ma Gnassinu nel bel mezzo del record si mise a piangere, mangiava e piangeva, e quando gli chiesero perché piangesse rispose semplicemente così: “non m'acudint is barras” (“le guance non sono abbastanza capienti e veloci per far spazio a quel che mangerei ancora”).

 

Uno era quello che pisciava nella lettiera del gatto per dimostrargli che era lui il capobranco. 

 

C’era uno che un giorno stava cagando, quando aveva cominciato ad uscirgli della roba bianca dal culo. “Sembravano le pappardelle Barilla”, raccontava. Allora aveva pensato fossero le sue budella, l’intestino magari, ma non si era preoccupato più di tanto. Stava sempre lì sul cesso quando gli era venuto in mente che però senza intestino non si può mica vivere, e che dunque era bene non perdere le frattaglie. Con calma e coraggio, utilizzando il pollice della mano destra, aveva allora rinfilato tutta quella roba bianca, che era in realtà una tenia, da dove era venuta.

 

 

 

 

Uno era Manlio Scopigno, detto il filosofo. Allenava il Cagliari più forte di sempre. Parlare parlava poco, agli allenamenti si appoggiava a un palo e guardava Cera che tirava il gruppo. Se pioveva, spesso, la seduta saltava e tornavano tutti negli spogliatoi. Durante una trasferta in una Bologna nevosa e gelida, la rifinitura si svolse nei corridoi dell’albergo. Non tutti i giocatori però, solo quelli che avrebbero dovuto correre di più. “Che senso ha prendersi un’influenza?”, aveva detto. Quel Cagliari non faceva ritiri, perché è “una cosa che fanno le squadre che stanno per retrocedere, e poi retrocedono lo stesso”.


Parlare parlava poco, ma ogni frase era una sentenza. Come quella volta che un giornalista, alla fine di una certa partita, gli chiese se fosse rigore o no, quel certo intervento. “Chiedetelo al pallone”, gli aveva risposto Scopigno. O come quella volta ad Asiago, durante un precampionato estivo, quando entrò nella stanza di Riva, grande fumatore, e ci trovò Albertosi, grande fumatore, e un altro paio di loro. Sul tavolo era apparecchiata una partita di poker e qualche bicchiere di troppo. Nell’aria una spessa coltre di fumo bianco. Il filosofo, grande fumatore, si accomoda e dice: “Do fastidio se fumo?”. In cinque minuti erano tutti a letto.
Parlare parlava poco, tanto che Zignoli raccontò: “In due anni ha detto, a me e Niccolai, una sola volta ‘Mi siete piaciuti’. E avevamo pure perso”. Parlare parlava poco, ma il 15 dicembre del 1969, nella stagione dello scudetto, aveva parlato con il guardalinee, durante una trasferta a Palermo. Gli aveva suggerito, pare, di infilarsela da qualche parte, la bandierina. Fu squalificato per 5 mesi.
Scopigno era un grande fumatore, tanto che a carriera finita scriveva velenosi corsivi sulle pagine del Giorno, con lo pseudonimo di “Senza Filtro”, ma aveva anche una discreta passione per il whisky. Nell’estate del ’67 il Cagliari, come altre squadre europee e sudamericane, finì negli Stati Uniti a disputare il campionato americano organizzato dalla United Soccer Association, con il nome di Chicago Mustangs. I giocatori chiesero un aumento, il filosofo stava dalla loro parte e i rapporti con la dirigenza si incrinarono.

 

Poi a Chicago l’ambasciata italiana diede un ricevimento, una festa ingessata e borghese. Solo con un po’ di whisky si poteva arrivare sino in fondo. E forse neanche con quello, se è vero che Scopigno, che era uno che parlare parlava poco, chiese alla padrona di casa dove fosse il bagno. Quella scherzando indicò il giardino, lui senza scherzi pisciò sopra un cespuglio. L’eco di quel getto di urina sui rami secchi arrivò sino in Sardegna, e al ritorno dall’America il filosofo fu esonerato.
Tornò sulla panchina del Cagliari un anno più tardi, per riprendere doveva aveva interrotto, per arrivare secondo nel ’69, dietro la Fiorentina, e primo nel ’70, davanti a tutti. È stato il primo allenatore a portare lo scudetto nel Sud. Oltre a lui solo Bianchi e Bigon, con il Napoli di Maradona.
Parlare parlava poco, Scopigno, come quella volta che c’era tutto il suo Cagliari alla Domenica Sportiva, il 19 aprile del 1970, e Lello Bersani disse: “Come avete visto, abbiamo i campioni d’Italia”, e poi, rivolto a Scopigno: “Dunque Scopigno di lei hanno detto: lo scettico blu, l’enigmatico, il filosofo, il sornione, lo squalificato. Ma insomma Scopigno, lei chi è? Come si può definire?”.
“Uno che c’ha sonno, in questo momento”.

 

Uno se ne andava in giro per Gonnosfanadiga vestito da Batman. Fermava le persone e chiedeva “Avete bisogno di aiuto?”.

 

Uno che abitava in un paese della provincia di Cagliari, disse a un compaesano che scendeva in città di fargli la cortesia di scattargli delle fototessere perché doveva rinnovare la carta d'identità.

 

Uno aveva lavorato all'Enel, e quando lavorava all'Enel era delegato sindacale, e dicevano, ne dicevano tante, dicevano che in una riunione con l'azienda, lui era lì come delegato della CGIL, in una riunione che durava troppo, lui aveva detto che i problemi dell'Enel si risolvevano se l'Italia usciva dal patto atlantico; aveva proposto l'uscita dell'Italia dal patto atlantico, ma la proposta non era stata messa a verbale, e dicevano che l'aveva fatta ma non si sapeva. Si sapeva invece che dall'Enel se ne era poi andato, se ne era andato in continente, e partendo, dalla nave che lasciava Cagliari, si diceva, forse lui stesso diceva di aver detto a sé stesso “Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini”.

Se ne era andato in continente a tradurre libri, a scrivere libri, ché quando lavorava all'Enel scriveva già nei giornali. Nei libri scriveva di antiche leggende sarde, di giudici banditi, di minatori e cani e addii. Era diventato un traduttore e uno scrittore, uno scrittore sardo dicevano in continente, e una volta era venuto in Sardegna ed era morto. Ma era morto in mare, mica scrivendo. Era morto in mare ma in un vecchio sogno “arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: “Lo attraverso?” e rispondeva: “No. È troppo largo”.”

 

Uno aveva scritto alla casa editrice e, per conoscenza, al curatore del Repertorio dei matti della città di Cagliari, lamentando che le espressioni in sardo contenute nel suddetto repertorio non rispondevano ai criteri del sardo uniformato ai sensi della Legge 15 Dicembre 1999, n. 482 "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche " pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 297 del 20 dicembre 1999.

Gli riposero che:

 

1. si erano posti il problema;

2. avevano chiesto un parere al Comitato dei matti di Cagliari in data 11 luglio 2015;

3. il portavoce del Comitato aveva risposto che i matti, in quanto tali, non potevano essere uniformati.

 

Poi abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Parma, che per me è strano perché a Parma ci sono nato e ci ho vissuto trent’anni, è un libro un po’ diverso dagli altri perché i parmigiani per me son della gente speciale io mi ricordo per esempio la delinquenza, l’impressione che avevo quando ero piccolo che abitavo a Parma era che non ce n’era, di delinquenza, a Parma, negli anni sessanta e negli anni settanta quando io ero piccolo. 

Cioè magari c’era, ma io, a me sembrava che anche se c’era, era una delinquenza particolare, parmigiana, il che un po’ cambiava le cose e mi sembra così ancora adesso, devo dire. Non so, per esempio, uno che uccide i suoi genitori, l’ho anche già scritta da un’altra parte, questa cosa, uno che uccide i suoi genitori, per esempio, se è uno di Parma, io il primo pensiero che ho “Si vede che gli avevan fatto qualcosa”, mi vien da pensare. 

Comunque il Repertorio dei matti della città di Parma poi alla fine l’abbiamo fatto (al circolo di lettura e conversazione) e alcuni dei matti parmigiani son questi qua: 

 

Uno faceva la dieta dei Ciocorì. Calcolava le calorie giornaliere e le convertiva in Ciocorì. 

 

Una era fissata con la cronaca nera. Andava in pellegrinaggio in tutte le città dove c’erano stati degli omicidi. Era stata a Cogne, a Erba, a Novi Ligure, a Garlasco. Non si capacitava del fatto di non essere ancora passata davanti alla casa dei Carretta e diceva che chissà perché le cose interessanti della tua città capita sempre che sono le ultime che vai a visitare.

 

Uno, durante un pubblico discorso, ha detto: “Come ad Atene hanno il Partenone, noi a Parma abbiamo il teatro Regio”

 

Una è andata dal ginecologo che aveva paura di essere incinta, il dottore le ha detto di spogliarsi, poi l’ha visitata e l’ha fatta rivestire, “Ma lei ha rapporti sessuali?” le ha chiesto il dottore. “No”, ha risposto lei, poi ha aggiunto che era anche in menopausa. 

 

Uno si chiamava Vasco, era molto cattolico e non aveva il suo onomastico; questo fatto lo infastidiva parecchio e una volta aveva addirittura scritto al Papa per far presente la questione: prima di inviarla l’aveva letta ai suoi amici per una conferma che le sue richieste fossero scritte in modo corretto: la lettera faceva così: Egregio signor Papa, Vi scrivo perché non trovo che sia tanto cristiano il fatto che alcuni abbiano il proprio nome che è quello di un santo e altri come me invece no; Vi chiedo se è possibile aggiungere i nomi di quelli mancanti anche nello stesso giorno di quelli che già ci sono; avete già tante coppie di santi: oltre ai nomi tanto usati come Pietro e Paolo che sono il 29 giugno, avete fatto anche coppie con nomi poco usati come Timoteo e Tito il 26 gennaio, Giuliano e Euno il 27 febbraio, Rufina e Seconda il 10 luglio, Nazario e Celso il 28 luglio, Proto e Giacinto l’11 settembre, Dionisio e Redento il 29 novembre; sono tutti nomi di santi molto belli ma di persone con questi nomi io non ne conosco nemmeno una, tranne Giuliano che è il mio barbiere; però è giusto che abbiano il loro santo sul calendario, ma allora anche quelli come me o come la mia amica Jessica devono avere il loro santo da festeggiare e pregare; so che adesso siete più attento ai giovani e volete fare la chiesa più moderna e secondo me dovete partire dai nomi dei santi: Vasco e Jessica ci stanno benissimo come nuovi santi magari ne potete parlare nella prossima riunione lì in Vaticano; aspetto una vostra risposta, se non avete tempo di scrivere perché dovete fare tante cose, me la potete anche dire dalla finestra di San Pietro alla domenica, io vi seguo sempre in televisione e sarei tanto felice se Voi poteste fare un santo anche per me e la mia amica Jessica.

 

Uno, che era il figlio di Tonino di Borgo della Posta, si perdeva sempre nelle vie del centro. Via Farini, Borgo Maestri, Borgo Giacomo Tommasini, Borgo Retto, per lui erano un labirinto di strade dalle quali non riusciva ad uscire e si vergognava a chiedere aiuto. Aveva escogitato un sistema. Se trascorsa una mezz’ora non veniva a capo della soluzione, fermava qualcuno per strada e con voce ferma e sicura chiedeva “Excuse me, where is via Farini?” calcando l’accento inglese. Chiunque incontrasse si dava da fare per dare al meglio le indicazioni da lui richieste. Solo una volta gli era capitato che un passante mentre gli stava rispondendo lo guardò bene e gli chiese se lui per caso non fosse il figlio di Tonino di Borgo della Posta.

 

Uno andava sempre nel bar che c’è all’angolo tra Borgo Regale e Via XXII Luglio, aveva sempre gli occhiali neri e un grosso cappello in testa. Era vecchio e al bar ci arrivava abbracciato alla badante che lo lasciava lì prima di andare a fare la spesa, arrivava e si sedeva e la badante gli diceva, vado a fare la spesa, e lui rispondeva, aaahhhh perché non riusciva più mica tanto a parlare, ordinava un bicchiere di lambrusco che beveva con una cannuccia e restava lì a guardare chi entrava e chi usciva e ogni tanto diceva aaahhhhh, però quando nel bar entrava una donna diceva, che bel culo. 

 

Uno attaccava i manifesti funebri e non sapeva leggere. Si orientava con le ‘i’ che quando c’erano era tranquillo e bastava attaccare i manifesti con il puntino verso l’alto. Se non c’erano era un problema.

 

Uno era un direttore d’orchestra, nato vicino al parco ducale. Era uno che, per dire, quando venne nominato senatore a vita rispose al presidente della repubblica con un telegramma con scritto “no, grazie”. Raggiunta la fama, si era trasferito in America, e i teatri facevano a gara per averlo; i musicisti un po’ meno, dato che era solito rivolgersi loro dicendo: “look at me, teste di cazzo”.

 

C’era uno che diceva: se ho un figlio lo chiamo Leone, se ho un figlio lo chiamo Orso, se ho un figlio lo chiamo Lupo; poi figli non ne ha avuti, ha comprato un cane e l’ha chiamato Arturo

 

Uno che era assessore aveva proposto di cambiare il nome del parco Falcone-Borsellino in parco Sandra-Raimondo.

 

Uno era il registro nascite di Noceto alla fine dell’800: Numitore, Mamollina, Donutilla, Pudenziana, Prescilla, Arisalda, Cirtemio, Ambellina, Cimbro, Illuminato, Ormisda, Leovigildo, Edelgilda, Debolina, Iperide, Ermanegilda, Acquillina, Migialdo, Aga, Gliceria, Crealdo, Alpinolo, Clineide, Plautilla, Elrben, Beroe, Moella, Servidio, Agapito, Fiovo, Cilideo, Midia, Eroteide, Damaso, Artemisca, Rechilde, Anella, Frosina, Venezio, Zelinda, Bellina, Effrosina, Delelmo, Esilde, Mirteo, Orma, Deborina, Argia, Sperindio, Gilio, Filigenio, Dimma, Primitiva, Teore, Orelia, Argemiro, Siviero, Azor, Odilia, Gilva, Sidonia, Imeria, Tisba, Bacio, Vetruglio, Caronte, Melibeo, Terredo, Paldemina, Leoncina, Aneide, Fauno, Corizio, Roldo.

 

Una volta, in serie B, c’era la partita Pescara – Parma, gli ultras del Pescara avevano fatto un coro: «Solo i prosciutti, avete solo i prosciutti. Solo i prosciutti, avete solo i prosciutti». 

E gli ultras del Parma avevano aspettato un po’ poi avevan risposto «Anche i formaggi, abbiamo anche i formaggi. Anche i formaggi, abbiamo anche i formaggi». 

 

Uno, che non era di Parma ma aveva vissuto molti anni a Parma e aveva scritto «Ho vissuto molti anni a Parma, molti mi credono di Parma e talvolta anch’io, mi credo di Parma», aveva scritto anche una raccolta di poesie che si intitolava Stricars int’na parola (Stringersi in una parola), dove c’era la dimostrazione e la confutazione dell’esistenza di Dio: la dimostrazione in una poesia che si intitolava Dio e cominciava così: «Dio c’è. / Se c’è la figa c’è. / Solo lui poteva inventare una cosa così, / che piace a tutti a tutti / in ogni luogo, / ci pensiamo anche se non ci pensi / appena tu la tocchi cambi faccia», e la confutazione in una poesia che si intitolava Forse e faceva così: «Forse l’emozione / più grande della mia vita / è stata una notte, / c’era un’afa, / un fermo, / come prima del terremoto, / Dio entrò nella mia camera / impalpabilmente / e mi disse a te / solo a te faccio sapere / che non esisto».

 

[Il repertorio dei matti della città di Cagliari è stato scritto da Antonio Boggio, Alberto Bocchetta, Chiara Saiu, Bachisio Bachis, Roberta Mele, Vanessa Aroff Podda, Mauro Tetti, Gianni Zanata, Giorgia Pittau, Francesca Mulas, Carola Farci, Daniele Ortu e Nicola Muscas.

Il repertorio dei matti della città di Parma è stato scritto da Michela Alessandrini, Giorgio Ambanelli, Caterina Bonetti, Alessandro Cimaglia, Roberto Camurri, Giovanna Cattabiani, Caterina Dacci, Elisabetta Dacci, Svetlana Erokhina, Matteo Ferrari, Marisa Lanzerotti, Francesca Laurieri, Guido Moreschi, Carlotta Varga e Elisa Vignali.]

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Mito e (neuro)scienze

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Pubblichiamo un estratto da un saggio del numero speciale della rivista Philosphy's Kitchen, MITO. Mitologie e mitopoiesi nel contemporaneo (a cura di Giovanni Leghissa ed Enrico Manera). Pensato come espansione del volume Filosofie del mito nel Novecento, Carocci 2015,il numerodella rivista ospita interventi dedicati alle forme contemporanee della mitologia nel Novecento in diversi ambiti (arte, letteratura e cinema, storiografia, mito, esoterismo, scienze cognitive).

 

L'intelligenza del dio

 

Molti sono gli antropologi e gli psicologi di orientamento cognitivo che sostengono che le credenze religiose e mitiche siano una conseguenza naturale dell'evoluzione della mente umana, o mente/cervello, come si dovrebbe dire per sottolineare l'impostazione materialista di questi autori.

Considerando il suo ruolo fondamentale nella storia delle scienze cognitive, un punto di vista interessante è quello di Howard Gardner, il padre della teoria delle «intelligenze multiple» (Gardner, 1987). Gardner (2000) analizza la possibilità di una forma autonoma di intelligenza, spirituale o religiosa, che comprenderebbe due abilità principali: realizzare particolari stati fisici coinvolti nella meditazione e in altre tecniche di manipolazione della coscienza, e raggiungere certi stati fenomenologici consistenti in una qualche esperienza di unione con il tutto. Secondo Gardner, però, nessuna di queste due capacità cognitive è specifica di un'intelligenza spirituale o religiosa, perché le abilità meditative possono essere ricondotte all'intelligenza corporeo-cinestetica e l'esperienza “estatica” di unione spirituale può scaturire da altre forme di intelligenza, come quella matematica o quella musicale, soprattutto nei momenti creativi. Per individuare una forma autonoma di intelligenza si devono poter individuare computazioni specifiche del dominio e secondo Gardner non è questo il caso per la presunta intelligenza spirituale. Gardner si domanda se sarebbe possibile attribuire a una «intelligenza esistenziale», legata all'esistenza di sé come individuo nel cosmo e alla capacità di interrogarne il senso, la capacità di «effettuare computazioni (in senso lato) su elementi che trascendono la normale percezione sensoriale, forse perché sono troppo grandi o troppo piccoli per essere appresi direttamente» (ivi, p. 29). Ma in mancanza di evidenze neuroscientifiche non c'è ragione per ipostatizzare un'intelligenza apposita.

 

Mito e cognizione

 

Gli antropologi cognitivi che si sono occupati di miti e religione hanno formulato spiegazioni specificamente cognitive, guidate dalle ipotesi sull'architettura della mente umana: il presupposto forte è che abbia senso parlare di “natura umana”, come i cognitivisti ammettono (Chomsky - Foucault, 2005).

I primi lavori di Dan Sperber, antropologo cognitivista e allievo di Lévi-Strauss, forniscono un buon esempio per una breve panoramica sul modo in cui le scienze cognitive hanno trattato il mito e le credenze religiose, “irrazionali” (Sperber, 1985). Nel contesto di uno studio sul simbolismo in generale, Sperber nel 1974 (ed. it. 1981) si è sforzato di sottrarre idealmente il suo maestro allo strutturalismo francese. Sperber attribuisce in generale scarsa produttività scientifica alla semiologia saussuriana (Sperber - Wilson, 1995) e contesta alla radice l'ideologia scientista secondo la quale

 

ogni oggetto della conoscenza ha per forza un senso, una significazione: dal senso della vita al senso del colore delle foglie in autunno. Dire di un fenomeno che non ha senso, equivale ad ammettere di non poter dire nulla sul suo conto […] L'attribuzione di senso è un aspetto essenziale dello sviluppo della nostra cultura; il semiologismo è uno dei fondamenti della nostra ideologia (Sperber, 1981, pp. 82-83).

 

Con questa critica del senso semiologico e del simbolismo, trattato già in una prospettiva cognitivista, Sperber contesta alla teoria lévi-straussiana la concettualizzazione del mito come articolazione delle somiglianze e differenze tra versioni diverse di uno stesso racconto. La natura dei miti è eminentemente cognitiva:

 

i miti secondo Lévi-Strauss [...] sono generati da un dispositivo che ammette un insieme infinito e non enumerabile di input possibili. [...] Il dispositivo che dovrebbe generare i miti dipende da uno stimolo esterno ed è affine ai dispositivi cognitivi, mentre si oppone ai dispositivi semiologici: è un sistema interpretativo e non generativo. [...] Lévi-Strauss ha dimostrato il contrario di ciò che afferma e i miti non costituiscono un linguaggio. [...] Se Lévi-Strauss ha concepito i miti come un sistema semiologico, i miti sono stati concepiti da lui, e a sua insaputa, come un sistema conoscitivo (Sperber, 1981, p. 82-83).

 

Secondo Sperber, Lévi-Strauss ha inconsapevolmente concepito le rappresentazioni della cultura primitiva come il risultato dell'interazione tra menti che elaborano input e producono output, in una non intenzionale coerenza con il paradigma computo-rappresentazionalista. La lettura sperberiana di Lévi-Strauss è certamente controcorrente; Sperber ha successivamente ribadito e precisato l'ideale vicinanza del suo maestro allo spirito delle scienze cognitive (Sperber, 2008). Ma che cosa sono i miti, nella prospettiva del primo Sperber?

 

Si immagini, per esempio, un racconto storico trasmesso oralmente in una società priva di scrittura. A meno che non si faccia uno sforzo particolare per conservarlo nella sua forma iniziale, certi episodi cadranno dopo poco tempo nell'oblio e altri invece verranno esaltati; l'insieme, in certi punti impoverito e in altri arricchito, acquista una struttura più regolare, una portata simbolica maggiore e una facilità a essere ricordato che il racconto originale non possedeva; in breve, esso si trasforma in un oggetto culturalmente esemplare e psicologicamente emozionante, che, dal momento in cui è adottato da una società, diventa per l'appunto un mito (Sperber, 1981, p. 78).

 

I miti dunque sono oggetti culturali rilevanti ed esemplari, adottati presumibilmente per la loro stessa rilevanza ed esemplarità. È questa un'interpretazione cognitivista del modo in cui la mente/cervello gestisce le informazioni che assumono forma di rappresentazioni mentali, alle quali gli interpreti, assumendo una prospettiva metarappresentazionale, attribuiscono un significato mitico-religioso. Vale la pena notare che agisce già qui uno schema teorico che verrà esplicitato in Sperber e Wilson (1995): le rappresentazioni mentali si formano e selezionano in accordo col principio economico del massimo effetto e del minimo sforzo. È anche interessante rilevare come, secondo la lettura sperberiana, l'idea di una trasmissione culturale che gestisce i propri contenuti economizzando rispetto alle capacità cognitive umane (semplicità, regolarità o simmetria, memoria) sia sostanzialmente già contenuta in Lévi-Strauss (Sperber, 1981, pp. 79-80).

 

Sviluppando la prospettiva epidemiologica, alternativa e avversaria alla memetica di Dawkins (1976), Sperber (1996) propone un'analisi materialista del dispositivo mitologico: ciò che chiamiamo mito è composto da tre categorie di oggetti o eventi materiali: narrazioni, storie, catene causali. Le narrazioni sono rappresentazioni pubbliche, ossia manifestazioni materiali (acustiche o scritte) delle storie; queste sono rappresentazioni mentali (conoscibili solo attraverso la loro rappresentazione pubblica) di eventi; le catene causali, infine, costituiscono il legame tra storie-narrazioni-storie-narrazioni, ecc. (Sperber, 1996, p. 32).

Il percorso del pensiero sperberiano sul mito si configura così dall'inizio alla fine come un netto oltrepassamento dello strutturalismo in direzione di una prospettiva cognitiva e materialista.

 

Religione? Naturale!

La ricerca dell'antropologo Pascal Boyer si inserisce pienamente nel solco della psicologia evoluzionistica, che è un innesto della psicologia cognitiva sul neodarwinismo (Barkow - Cosmides - Tooby, 1992). Anche per Boyer (2013) Lévi-Strauss è un predecessore «brillante e problematico» dell'antropologia cognitivista. E coerente con l'impostazione dei lavori di Sperber è anche la prospettiva di Boyer (1992) sulla trasmissione culturale delle credenze mitiche e religiose, intese come particolari forme di rappresentazione mentale e di narrazione. Boyer spiega le credenze mitiche e religiose partendo dall'ipotesi che esse siano sempre coerenti con i meccanismi della cognizione umana, che nella prospettiva della scienza cognitiva è l'insieme dei processi mentali pensabili come elaborazione di informazioni: dalla comprensione di una frase a un ragionamento logico, alla visione di una scena o all'ascolto di una musica. Anche la trasmissione culturale sottostà alla “benformatezza” delle storie: come hanno mostrato gli studi pionieristici di Bartlett (1932; 1923; 1958) le “buone” storie, cioè quelle ben costruite rispetto ai vincoli cognitivi, si ricordano meglio, e le narrazioni mitiche raccolte dagli antropologi sembrano conformarsi alle caratteristiche determinate negli esperimenti di laboratorio. Questo significa che nel processo di trasmissione della memoria mitica le narrazioni sono “formattate”, oppure vengono dimenticate: i miti e i riti tradizionali sono composti rispettivamente di storie e sequenze di gesti e azioni particolarmente memorabili (Boyer, 1992, p. 19).

 

Il contenuto delle credenze mitiche non avrà una variabilità indefinita perché le caratteristiche cognitive della mente umana costituiscono i vincoli di formazione, conservazione e trasmissione delle credenze stesse. Così, le idee religiose sono “naturali” (Boyer, 1994), ossia comprensibili e spiegabili all'interno di un'epistemologia naturalizzata (Quine, 1969).

Gli esseri umani si trasmettono nozioni religiose all'interno del proprio gruppo sociale. Secondo Boyer, però, la trasmissione reale delle credenze non corrisponde a un'immagine naive e semplicistica: acquisire rappresentazioni mentali non è un processo passivo e i bambini che imparano i contenuti religiosi della propria cultura filtrano attivamente tutte le informazioni dell'ambiente. Il paragone con l'apprendimento linguistico può essere illuminante: non si apprende la sintassi della lingua materna sulla base di stimoli espliciti, come voleva il comportamentismo, esizialmente criticato da Chomsky (1959), bensì in maniera complessa, naturale e inconscia (Bloom, 2000). Le regole di comportamento, invece, si apprendono per insegnamento esplicito, e non con la semplice osservazione degli esempi di interazione sociale. La matematica costituisce un caso diverso, che richiede un certo sforzo di apprendimento e dunque la relativa coscienza di apprendere qualcosa.

 

Non c'è dunque un unico modo di apprendere i contenuti che ci rendono culturalmente competenti, perché la disposizione del cervello umano ad apprendere può essere differente a seconda del dominio considerato: è naturale apprendere entro i sei anni la corretta sintassi e la fonetica della propria lingua, mentre le norme sociali vengono interiorizzate secondo un diverso ritmo. In tutti questi casi si ha disposizione ad apprendere perché si ha disposizione ad andare oltre la mera informazione presente nell'ambiente, come Chomsky (1959) ha messo per primo in evidenza relativamente al linguaggio (non si raggiungerebbe mai la competenza linguistica degli adulti se ciò dipendesse esclusivamente dalle informazioni ambientali: è l'argomento della “povertà dello stimolo”). La mente che acquisisce informazioni non è una tabula rasa (Pinker, 2006) bensì ha istruzioni innate per organizzare l'informazione e conferire senso a ciò che si osserva e impara, oltrepassando il mero dato informazionale. La mente effettua inferenze a partire dalle informazioni ambientali e le inferenze costruiscono concetti generali a partire dall'informazione frammentaria. Le inferenze sono naturalmente governate da principi (probabilmente innati) che fanno combinare il materiale concettuale in determinati modi, non in altri. […]

 

Che la religione sia un fenomeno culturale, come i gusti in fatto di cibo, musica, buone maniere e abbigliamento, non significa dunque che essa sia infinitamente variabile, come un malinteso culturalismo lascerebbe pensare; per gli antropologi cognitivi, anzi, che qualcosa sia culturale è proprio la ragione per la quale non varia oltre una certa misura. Che cos'è in definitiva la religione, nella prospettiva cognitiva di Boyer? È uno «spandrel», un fenomeno evoluzionistico parassitario dei moduli cognitivi della mente umana (Fodor, 1988; Sperber, 2001), com'è parassitario lo spazio risultante fra due archi in una basilica come quella di San Marco a Venezia: non ha una funzione precisa, ma la sua mancanza di funzione non è immediatamente visibile (Gould – Lewontin, 2001). Si noti che le spiegazioni evoluzionistiche che non assegnano una funzione evolutiva ad attività umane che oggi ci appaiono fondamentali sono abbastanza diffuse: Pinker (1997), per esempio, considera la musica alla stregua di una «torta alla panna uditiva», e anche per Sperber la musica è soltanto un «parassita evoluzionistico» (Levitin, 2008). La costruzione di concetti religiosi richiede dunque dispositivi cognitivi e capacità disparate insite nella natura della mente umana, che vengono reclutate dall'immaginazione religiosa. Ma, come per Gardner e Sperber, non c'è ragione di ipotizzare un modo speciale di funzionare della mente, dedicato particolarmente ai pensieri religiosi.

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Dal numero speciale di Philosphy's Kitchen

Sovversione dell’eterosessualità

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Quando pubblicai il testo integrale della relazione dal titolo Sovversione dell’eterosessualitàsulla piattaforma di “Effimera”, in molti e in molte mi domandarono per quale motivo auspicassi – letteralmente – la sovversione dell’eterosessualità. Alcuni, con un tono divertito, mi domandarono se avessi per caso in mente dei metodi per farlo. Con un tono più disciplinare, nella misura in cui “disciplinare” sta sia per “tutela dell’ordine” sia per “rigore scientifico-filologico”, altri, e a volte gli stessi, mi domandarono invece per quali motivi avessi scelto di nominare l’“eterosessualità” come sostantivo, senza ulteriori declinazioni o aggettivazioni – come ad esempio “obbligatoria”, aggettivo che proviene dalla riflessione di Adrienne Rich. O – per non citarne che alcune – perché non “eteronormatività”, come la definì Michael Warner, o “Norma eterosessuale”, per dirla con il glorificante maiuscolo di Mario Mieli, o “mentalità eterosessuale” (straight mind), per usare invece la definizione di Monique Wittig, o “eterosessismo”, come lo definisce, tra le altre, Nancy Fraser (Fortune del femminismo, 2014) e, più in generale, la trattatistica filosofico-politica. Perché “eterosessualità” e basta?

 

Ph Petra Collins.

 

A scanso di equivoci, approfitto di questa occasione per precisare che tutte queste declinazioni o aggettivazioni del concetto di “eterosessualità” sono ancora valide. Anche al di là della loro rilevanza storica e politica, ciascuna di esse ci consente ancora oggi di cogliere, e di problematizzare, una sfumatura del fenomeno: parlare di “obbligatorietà” non significa infatti parlare di “norma” (o di “Norma”), né di “mentalità”; i suffissi “-normatività” e “-ismo”, a loro volta, non sono interscambiabili. Si tratta di concetti tra loro adiacenti, ma distinti, e ci esortano a comprenderli, e a usarli, facendo riferimento a lessici diversi, e soprattutto a movimenti diversi, del pensiero e della pratica. Il lesbofemminismo, il freudomarxismo, il femminismo separatista, o il queer sono solo alcuni di questi.

Detto questo, mi sembra di poter dire che ciò che quei tutori disciplinari (nella doppia accezione) dell’eterosessualità cercassero, in fondo, fosse una rassicurazione circa il fatto che l’eterosessualità non potesse, e forse non dovesse, essere ridotta a un obbligo, a una norma, o a un -ismo. E che, di conseguenza, un conto fossero le declinazioni dell’eterosessualità, in quei termini radicalmente critici; un altro, invece, le esperienze eterosessuali particolari e situate, più o meno libere, più o meno consapevoli, e felici – come tutte le forme di relazione. Mancare di sottolinearlo, mancare cioè di specificare di quale accezione dell’eterosessualità si parli, non solo renderebbe anacronistico il proposito di sovversione, in particolare dal momento che, come sostiene Fraser, “empiricamente, il capitalismo contemporaneo non sembra aver bisogno dell’eterosessismo”, ma tirerebbe anche acqua al mulino dei movimenti neofondamentalisti e, in particolare, dell’accusa di “eterofobia” che i loro potenti leader già muovono nei riguardi di coloro che definiscono “omosessualisti”, o adepti alla “teoria del gender”. Occorre precisare fin da subito che tali apprensioni non siano affatto circoscritte alla pamphlettistica d’occasione redatta dalle forze più retrive attualmente presenti sulla scena internazionale – retrive ma, è bene precisarlo, economicamente potenti e in rapporto di collusione con molti governi occidentali. Né, al contempo, sono circoscritte alle posizioni condivise dai movimenti neofascisti, i quali spesso sono anche anticapitalisti. Eppure, la circoscrizione di tali apprensioni al revival dei movimenti autoritari (il cui consenso cresce di pari passo con l’impoverimento generale della classe media, nella crisi del neoliberismo), o il loro declassamento a inciampo nel progresso universale della Ragione, sono parti, spesso involontarie, e spesso sottaciute, della stessa struttura argomentativa disciplinare e difensiva dell’eterosessualità. Per questa ragione, è importante indugiare nella critica e domandarsi quali timori impediscano alla cultura progressista di prendere serenamente in considerazione l’ipotesi che sia l’eterosessualità stessa – senza aggettivi, senza attenuazioni, senza clausole concessive – a dover essere sovvertita.

Altrettanto importante, per essere onesti, è precisare che la posizione di Nancy Fraser, piuttosto diffusa e condivisa, non sia di certo di certo comparabile, sotto più punti vista, a quella di quanti temono che il proposito di sovversione dell’eterosessualità lavori al servizio delle apprensioni dei movimenti neofondamentalisti. Fraser è un’intellettuale femminista, chiaramente impegnata contro l’omofobia; tuttavia, le accomuna qualcosa. Per la prima, le politiche di diversity management implementate dalle grandi multinazionali sarebbero la dimostrazione “empirica” dell’avvenuta sussunzione, da parte del capitalismo neoliberista, delle lotte delle minoranze di genere e sessuali, al punto tale da rendere la critica dell’“eterosessismo” anacronistica o, addirittura, inservibile nella più ampia, e necessaria, critica del neoliberismo. Per i secondi, invece, il presunto sentimento di ostilità da parte delle minoranze di genere e sessuali nei riguardi della stragrande maggioranza della popolazione – l’eterofobia – diverrebbe più rilevante, e pericoloso, non solo della stessa risignificazione neofondamentalista del concetto di omofobia, ma anche del fatto che i movimenti neofondamentalisti annoverino l’“omosessualismo” o la “teoria gender” proprio tra i frutti avvelenati del capitalismo.

 

[…]

 

Ph Kobi Israel.

 

Sappiamo bene che non tutta la politica delle minoranze di genere e sessuali sia anticapitalistica, né anche solo lontanamente animata da ideali di giustizia sociale e di eguaglianza – che non sia, almeno, la mera eguaglianza omonormativa garantita dalla possibilità di sposarsi o di accedere alle carriere militari, come già fanno gli eterosessuali. All’opposto, lo è solo un’esigua minoranza. Mi domando, però, se uno dei motivi di tale apparente disimpegno non possa dipendere dal fatto che l’anticapitalismo, o la giustizia sociale, o l’eguaglianza sostanziale – tutti concetti abbracciati, seppur declinati diversamente, dall’estrema sinistra come dall’estrema destra – non siano di per sé forieri di benefici per le vite delle minoranze di genere e sessuali, né siano garanzia di una più ampia trasformazione sociale delle relazioni di genere e sessuali. Tale trasformazione, infatti, non potrebbe prescindere dalla sovversione di quei rapporti di forza che poggiano sull’esistenza di una maggioranza e sulla produzione di minoranze. La sintesi immaginaria anticipata dalle parole che presumono il soggetto politico dell’anticapitalismo, della giustizia, dell’eguaglianza, mi sembra, rischia di essere un modo per includerci nella conta senza però metterci nelle condizioni di contare.

La trasformazione in un senso più egualitario e giusto della società e la politica delle minoranze di genere e sessuali richiedono dunque una più ampia conciliazione. Questa conciliazione, come tenterò di suggerire, consiste nell’assumere la sovversione dell’eterosessualità come principio guida sia di una concezione della trasformazione sociale non vissuta come minacciosa o neutralizzante da parte delle minoranze, sia di una più ampia lotta di genere e sessuale che intenda la giustizia sociale e l’eguaglianza come parte della propria critica sociale. E il motivo per cui intendo accordare un valore trasformativo alla sovversione dell’eterosessualità deriva, ancorché indirettamente, da una duplice constatazione. La prima è che la maggior parte delle posizioni anticapitalistiche o non vede la questione del privilegio eterosessuale, o lo confonde con l’inclusione antiomofobica, o esplicitamente difende tale privilegio ricorrendo a strategie discorsive, e azioni, più o meno violente. La seconda è che la politica LGBT mainstreamè senz’altro più interessata a lottare contro l’omofobia che non a sovvertire l’eterosessualità. E, come tenterò di illustrare, c’è una grossa differenza tra le due cose.

 

[…]

 

Porre il problema della sovversione dell’eterosessualità significa porre un tipo di problema che, attualmente, non trova, né può trovare, alcuna soluzione nelle politiche di riconoscimento, né in quelle di inclusione differenziale, che provengano dai parlamenti o dalla gestione delle risorse umane dell’azienda. È in questo senso, pertanto, che tendo a resistere alle considerazioni critiche di Nancy Fraser, ma che al contempo – in quanto emblematiche di una certa linea di pensiero – mi offrono l’opportunità di articolare meglio la mia critica.

In Fortunes of Feminism, Fraser scrive: “I principali avversari dei diritti di gay e lesbiche non [sono] le multinazionali, ma i gruppi religiosi culturali conservatori, la cui ossessione è lo status, non il profitto”. Da tale affermazione Fraser trae la conclusione per la quale il capitalismo neoliberista, a differenza del neofondamentalismo (gruppi religiosi e conservatori), non avrebbe alcun bisogno dell’eterosessismo. Fortunatamente, verrebbe da commentare, che le politiche omonormative e che talune articolazioni – nazionaliste, razziste, classiste e perbeniste – della lotta all’omofobia siano con il capitalismo neoliberista del tutto compatibili, ci è chiaro da tempo. Ma si tratta, appunto, di “politiche omonormative” e di lotta all’“omofobia”. Nel ritenere che le politiche di diversity management o l’estensione delle forme di welfare aziendale ai dipendenti omosessuali, e ai loro congiunti (anche nei casi in cui gli stati non riconoscano la loro unione), dimostrino “empiricamente” che l’insieme delle relazioni sociali, e di produzione, non sia più imperniato attorno al paradigma eterosessuale, Fraser opera semplicemente una fallacia. E questa fallacia, molto diffusa, deve essere disinnescata insistendo proprio sulla radicale distinzione tra l’inclusione antiomofobica, o apparentemente tale, e la sovversione dell’eterosessualità.

Tre, in particolare, sono i motivi per i quali ciò che scrive Fraser è parziale. Il primo è che accanto ai gruppi neofondamentalisti che ella menziona in quanto unici “avversari dei diritti di gay e lesbiche”, deve essere annoverata la stragrande maggioranza degli stati, le cui legislazioni, al di là delle dichiarazioni formali, sono piuttosto lontane dal garantire eguali diritti (si pensi all’impianto familistico-eterosessuale della legislazione sociale italiana), o che attivamente perseguitano e puniscono con la comminazione di multe, incarcerazioni, espulsioni, pestaggi da parte della polizia e pene capitali le soggettività non-eterosessuali – e ciò accade in vari modi, a tutt’oggi, da Oriente a Occidente. Chiaramente, vi sono delle differenze tra quegli stati che esplicitamente neutralizzano le minoranze e quelli che, invece, lo fanno implicitamente, lasciando inalterate, o alimentando, le condizioni che, di fatto, possono anche condurre alla neutralizzazione: ed è precisamente la distinzione che intercorre tra un potere di tipo sovrano e uno di tipo governamentale. Tutto ciò è per dire, in ogni caso, che lo status non ossessiona solo i gruppi di pressione neofondamentalisti, ma anche lo stato, il quale, a differenza dei primi, ha potere legislativo e detiene il monopolio della forza legittima. E ciò, dal mio punto di vista, non dovrebbe essere obliterato al netto dell’esemplare avvedutezza della critica queer nel deciframento di ciò che s’intende per “omonazionalismo”, ossia di tutte quelle retoriche nazionaliste che sfruttano strumentalmente il maggior progresso conseguito in materia di diritti civili di gay e lesbiche per occultare il pesante disconoscimento di altri diritti (sociali, in primis), o dei diritti di altri (come nel caso dei migranti, o di coloro che vivono sotto occupazione, come in Palestina). E la sintesi tra queste due prospettive, apparentemente contrapposte, è costituita dalla politica del posizionamento, la quale dovrebbe imporci di ricordare che tali forme di critica hanno valore solo se condotte dalle soggettività queer, non da chiunque. Non vorrei, infatti, che si pensasse che la critica queer stia al fianco dei movimenti neofondamentalisti nella critica del “nazionalismo gay” o del “capitalismo gay” – mentre invece attendo alcune specificazioni, in questa direzione, da molti pensatori e pensatrici di sinistra.

Il secondo motivo è che l’espressione “diritti di gay e lesbiche” tradisce la circoscrizione dell’analisi di Fraser alle politiche omonormative che lei stessa implicitamente liquida come sussunte. Ma, innanzitutto, esistono solo “gay e lesbiche”? Che ne è per Fraser dei diritti delle persone trans, ad esempio, le quali fanno decisamente più fatica a trovare un lavoro di quelle cisgenere (anche all’interno delle multinazionali, o dei set cinematografici statunitensi, come dimostra ad esempio il recente tentativo di neutralizzazione dei riots di Stonewall del 1969 operato dal film diretto da Roland Emmerich, Stonewall, in cui la storica figura di Sylvia Rivera viene sintomaticamente elisa in vece di un giovane uomo cisgenere, bianco, e muscoloso)? O che ne è dei diritti dei bambini intersessuali, che lo stato aggira ogni qual volta la sua politica di genere implementata dai medici li sottoponga a invasivi interventi di normalizzazione, finalizzati a renderli più adeguati ai canoni corporei e performativi eterosessuali?

 

[…]

 

Ph Petra Collins.

 

In attesa di queste risposte, un’altra è la domanda che l’affermazione di Fraser sollecita: per quale motivo le lotte delle minoranze di genere e sessuali dovrebbero essere circoscritte alla rivendicazione di modelli giuridici di riconoscimento già esistenti, cui Fraser allude? Farlo passare con leggerezza, ancorché involontaria, significa non solo dare per scontato che “gay e lesbiche” ambiscano tutti/e all’inclusione mediante il riconoscimento dell’identità e della coppia, ma significa soprattutto perpetuare quell’idea secondo cui la loro lotta possa essere riconoscibile, o degna di essere condotta, solo se avviene in questi termini. Significa, in altre parole, naturalizzare una gerarchia che ci parla invece di un conflitto sempre aperto: quello tra le lotte per il riconoscimento dell’identità, attraverso il diritto, e le lotte per la sovversione dell’identità, ossia per la trasformazione sociale dei parametri di intelligibilità e degli strumenti della riconoscibilità – e, dunque, anche del diritto – che sono imperniati attorno all’identità e alla coppia egemonica, quella eterosessuale, e che da essa, mimeticamente, dipendono.

È importante, infatti, sottolineare che nei riguardi del diritto non vi è alcun pregiudizio aprioristico. Come ha scritto, bene, Michele Spanò, il diritto è “quell’istanza discorsiva capace di produrre il mondo che designa”, e ha “un potere di trasformazione senza eguali: è una macchina di astrazione che, tramite il medio linguistico, traduce e produce altrimenti il reale”. Il punto, semmai, è comprendere che difficilmente questa “trasformazione” e questo “altrimenti” potrebbero pervenire a traduzione, o produzione, in assenza di una sovversione della relazione vigente, giuridica ed extragiuridica, tra chi è riconoscibile e chi non lo è (il “reale”), perché in assenza di questa sovversione c’è la riproduzione dell’“identico”. Che questa relazione sia improntata al paradigma eterosessuale è palese tanto negli strumenti attraverso cui il diritto civile riconosce le forme affettive e parentali, quanto nelle modalità di riconoscimento di molti diritti economico-sociali – i quali, non va dimenticato, vennero introdotti nella fase fordista del capitalismo come stampella della famiglia nucleare eterosessuale, e non del singolo soggetto, né delle molteplici forme di relazione a cui esso può dar vita, o in cui può trovarsi coinvolto, al di fuori di quella specifica, ed egemonica, modalità.

Il terzo motivo della mia critica a Fraser, pertanto, è che come il capitalismo fordista, anche quello postfordista, o neoliberista, non rinunci affatto all’eterosessualità, a differenza dei gruppi neofondamentalisti: la triste verità è che la preservano tutti. La differenza, semmai, consiste nel modo. Il neofondamentalismo, in maniera evidente, lo fa ri-radicalizzando la gerarchizzazione delle differenze biologiche e corporee, la quale produce come esito la priorità ontologica dell’eterosessualità e la naturalizzazione delle identità e dei ruoli di genere maschili e femminili (gli uomini e le donne) da essa istituiti. Il neoliberismo, invece, lo fa in modo più subdolo, ma tuttavia complementare: se per i neofondamentalisti ogni deviazione dall’eterosessualità è un abominio “contro natura”, per l’ideologia neoliberale ogni forma della sessualità, o quasi, è invece “naturale”. E se è “naturale”, significa che non c’è alcun motivo di dilungarsi in noiose discussioni – come quelle sulla de-naturalizzazione del genere, o sul suo carattere performativo. Questo è il primo presupposto alla base della “privatizzazione” della sessualità, per usare un’espressione di Gianfranco Rebucini: l’ideologia neoliberista consente senz’altro di non estromettere il gay o la lesbica dagli odierni processi di valorizzazione e sfruttamento, a patto che il gay o la lesbica, preferibilmente bianchi, esteticamente “conformi”, cisgenere e “abili”, performino una certa assoggettabilità e una certa spoliticizzazione. Ma tutto ciò è quanto di più distante dalla dimostrazione “empirica” della sopraggiunta inutilità dell’eterosessualità. Al contrario, non fa che offrirci l’ennesima conferma del fatto che la razionalità neoliberista operi mediante la naturalizzazione delle gerarchie sociali, esattamente come già fa con molte altre relazioni gerarchiche – come ad esempio quella tra i ricchi e i poveri.

Il problema, tuttavia, è che “naturalizzare” una gerarchia non equivale a “sovvertire” una gerarchia. Come ha scritto Olivia Fiorilli, all’opposto, è solo “sullo sfondo di una struttura sociale radicalmente cis-etero-normativa”

 

che il diversity management può funzionare. La promessa di “giustizia” che esso offre stimola produttività e sollecita commitment proprio perché si innesta su un fondamentale bisogno di riconoscimento. […] Per le soggettività eccentriche rispetto all’ordine eteronormativo, pertanto, la resistenza alla “seduzione all’assoggettamento”, offerta dalla promessa di riconoscimento che si accompagna al diversity management, ha costi particolarmente alti.

 

Naturalizzare le gerarchie sociali significa dunque trasformare, e privatizzare, la “gerarchizzazione” in “differenza”. In secondo luogo, significa occultare l’esistenza di quei privilegi che la gerarchizzazione continuamente costruisce ed esplicitamente difende. In terzo luogo, significa silenziare il conflitto sociale mediante la squalificazione di ogni forma di pensiero critico, nonché di pratica critica, che rischi di mettere in evidenza, e di smascherare, la sostanza ideologica della gerarchia stessa. In altre parole, significa che la razionalità neoliberista agisce di concerto con quella neofondamentalista.

Una macabra complementarietà governa questo agire di concerto. Il neofondamentalismo mira infatti a restringere, o ad annientare, le modalità di riconoscimento delle soggettività non-eterosessuali; il neoliberismo, al contrario, promette un riconoscimento illusorio, e lo fa in cambio di un assoggettamento a un’ulteriore modalità di soggettivazione, disciplinabile e spoliticizzata, senza alcuna erosione sostanziale di quegli elementi da cui dipende la diseguaglianza. Il diversity management, in altre parole, sta lì a testimoniare che il mancato riconoscimento è strutturale, e che esso è una costante sulla quale poter addirittura investire. Ciò significa che il suo ruolo compensativo è ancillare alla minaccia della disattesa costante di quel “fondamentale bisogno di riconoscimento” che è parte integrante dell’esperienza delle soggettività non-eterosessuali. Ma ciò significa anche un’altra cosa: ossia che se la critica del diversity management rimpiazza una lotta più radicale contro ciò che lo pone in essere, la nostra critica rischia di essere funzionale proprio ad esso. Ossia al privilegio eterosessuale.

Se il diversity management non è che uno dei modi attraverso i quali opera la razionalità neoliberista, e se esso si innesta su un “fondamentale bisogno di riconoscimento” che non è solo minato dal neofondamentalismo, ma è innanzitutto indotto da un ordine simbolico e sociale in cui l’eterosessualità occupa una posizione di privilegio, appare chiaro che per resistere sia al neoliberismo sia al neofondamentalismo occorra innanzitutto sovvertire ciò che ci espone al bisogno di riconoscimento. È sulla base di tale considerazione, suggerisco, che il proposito di sovversione dell’eterosessualità non dovrebbe farsi deviare dalle seduzioni poste in campo dal neoliberismo. È sulla base di tale considerazione, di conseguenza, che dovrebbe riformularsi la rivendicazione dell’eguaglianza. Una trasformazione sociale all’insegna di un’eguaglianza desiderabile, infatti, non potrebbe prescindere dall’erosione del privilegio eterosessuale. O forse tale privilegio è irrilevante ai fini della riproduzione delle forme più basilari di ingiustizia e di diseguaglianza? L’ingiustizia e la diseguaglianze materiali, economiche, sono radicalmente scindibili da quelle epistemiche, culturali?

Sappiamo bene quanto il capitalismo neoliberista abbia in parte indotto a una revisione di quell’assunto secondo cui il genere sarebbe un principio strutturante dell’economia politica, in quanto struttura di lavoro riproduttivo non retribuito e in quanto principio che presiede alla divisione sessuale del lavoro. E, tuttavia, dico “in parte” perché non bisogna comunque dimenticare che la maggior parte dei lavori di cura o sessuali, informalizzati e precari, e su scala globale, continui a contare, in modo preponderante, sulle differenze di genere – per non fare che un esempio eloquente. Dunque a essere in crisi è l’assunto secondo cui l’istituzione eterosessuale del genere operi necessariamente in quel modo, ma non il fatto che continui a operare, massicciamente, in quel modo. A non essere radicalmente mutato, in altre parole, è quel principio per cui il posto del genere all’interno dell’economia, di qualunque tipo esso sia, sia circoscritto dalla regolamentazione eterosessuale – e il diversity management, d’altro canto, non fa che confermare precisamente questo assunto. Il diversity management ci offre l’opportunità di osservare i nuovi modi attraverso i quali avviene questa regolamentazione, tali per cui non vi sono validi motivi, per il capitalismo, di escludere i gay e le lesbiche dai processi produttivi e di consumo. Esso suggerisce anche, però, che le soggettività gay e lesbiche disciplinabili, spoliticizzate, e preferibilmente cisgenere, sono più includibili di altre soggettività, e che dunque è all’opera uno specifico modo di produzione economico della soggettività che mira a mantenere la stabilità del genere – e, dunque, dell’eterosessualità, dal momento che questa stabilità è tale in relazione a essa. E il diversity management neoliberista, indirettamente, ci suggerisce anche che l’esclusione delle soggettività abiette e queer, meno disciplinabili e più politicizzate, fuori norma e fuori controllo, proprio in quanto essenziale alla stabilità dell’ordine (etero)sessuale e (ri)produttivo, continua a costituire anche il suo punto di maggiore instabilità. Sarebbe un errore sottovalutare questa traccia fondamentalista interna allo stesso discorso neoliberista.

In questo senso, nonostante del queer sia stato comunemente recepito, e narrato, un solo aspetto, di tipo meramente descrittivo, secondo il quale non vi sarebbe alcuna distinzione “ontologica” tra le identità di genere e sessuali, può essere utile ricordare che 1) il queer non è una teoria della normalizzazione, né della pacificazione: in altre parole, non legittima il divenire-minoranza degli eterosessuali, né il divenire-vittima; 2) il queer, al contrario, considera, e analizza, l’eterosessualità nei termini di matrice per la produzione delle soggettività di genere e sessuali e per la conseguente allocazione differenziale di privilegi e costi; 3) il queer è animato, più o meno esplicitamente, da un proposito normativo – o, ideologico – di sovversione di quella matrice, poiché, in assenza di quella sovversione, la produzione delle soggettività è indistinguibile dalla produzione di gerarchie. In altre parole, il queer ci dice che non siamo affatto queer, e che non lo siamo mai stati, per dirla con José Esteban Muñoz (Cruising Utopia, 2009), perché i modi attraverso i quali viviamo ci parlano di una solida persistenza dell’ordine simbolico e sociale eterosessuale, quali che siano il nostro genere o la nostra sessualità. La queerness, pertanto, è un’“idealità”, non una realtà. È un’“utopia”, un “modo di desiderare che ci consente appena di vedere e di sentire al di là del pantano del presente”.

 

[…]

 

Continua in Sovversione dell’eterosessualità, ne Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di Federico Zappino, ombre corte, Verona 2016.

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Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo

Ritratto di Mario Mieli

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L’unico ricordo dal vivo di Mario Mieli che ho è in scena, al Teatro Out Off, che in questi giorni celebra i suoi quarant' anni, in un avventuroso momento della Sei Giorni del Monologo, visto da ragazzino di soppiatto. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi, perché io ero finito lì per caso con un amico dei miei appassionato di performance, ma il performer aveva fama di scandalo e io avevo quattordici anni, cosa che, ovviamente, mi ha costretto a fare di tutto per vederlo, aspettando con una certa ansia in uno zigzag complicato di lavori di avanguardia e tradizione. Magrissimo, avvolto da poco più di un velo, declamava come una presenza di fantasima il suo allucinato Krakatoa, distillato della sua sapienza alchemica, di cui ovviamente avevo capito poco o nulla, per mancanza di strumenti, rimanendo però folgorato dalla figura, di cui poi mi è capitato spesso di scrivere, negli anni, facendo domande a qualcuno che lo aveva conosciuto. A rileggerla oggi la sua opera è uno straordinario filtro di diverse tensioni, tra il capitale Elementi di critica omosessuale (1977, da Einaudi, con il forte sostegno di Giulio Bollati, di Cesare Cases e dello stesso Einaudi) e il contrastato, decadentissimo, notevole romanzo Il risveglio dei Faraoni, pronto in bozze alla sua morte per suicidio nel 1983 e poi ritirato prima della stampa per intervento della famiglia, e uscito nel 1994 per la passione di un gruppo di amici (tra cui Lia Cigarini, Corrado Levi e Umberto Pasti), ma poi ritirato dal commercio e diventato ormai una rarità bibliografica.

 

L’epopea di perdita e ritrovamento di sé, nel filtro del magico potere degli escrementi, è elemento centrale di ogni sua ricercata alchimia dell’identità. Al momento del suicidio, a trentuno anni, quella narrazione magmatica, che sarebbe finalmente il momento di ripubblicare e di spiegare nel contesto dell’esistenza del suo autore, riassumeva anni frenetici di adesioni e fughe, vissuti molto spesso a contatto con i movimenti omosessuali a Londra e a Parigi, ma anche frequentando il marxismo e le pratiche di autocoscienza sempre in atto nella vivace Libreria delle Donne di Via Dogana. Le sue performance spesso estreme (inclusi i famosi atti e detti coprofagi che lo avevano reso celebre o famigerato sulla stampa scandalistica), le sue riflessioni che tendevano a scardinare ogni concetto di appartenenza, lo rendevano il capostipite di ogni movimento queer a venire. Talvolta, dati i tempi diversi e la difficoltà di definizione di un’epoca che appena scopriva da noi il gender, era quasi più estremo nell’acutezza del pensiero di Paul (già Beatriz) Preciado, che oggi nel suo acutissimo lavoro esprime il rifiuto del presente a ogni norma di “genere” e allo svelamento delle micidiali farmacopolitiche di controllo (di cui dà conto nel suo notevolissimo Testo tossico, uscito fortunatamente anche in Italia da Fandango nel 2015, pp. 430, € 22). 

 

 

In tacchi a spillo e boa di struzzo alle riunioni di Autonomia Operaia , finché non lo cacciavano fuori, o intento a scippare in “vesti di pastorella” il microfono al paternalistico Dario Fo, all’affollatissimo raduno bolognese contro la repressione del 1977, Mieli era già la diva alternativa eppure autentica del rutilante spettacolo collettivo La traviata Norma; ovvero: vaffanculo… ebbene sì, in cui il travestimento era la regola. Il nostro peraltro amava che si rimarcasse la sua indubbia somiglianza con Marella Agnelli, resa celebre dalle foto di Richard Avedon con il nome di “collo di cigno”. Il lavoro del 1976 si incentrava sull’idea, semplice e molto efficace, di un mondo di drag che si presentava a uno spettacolo eterosessuale underground, facendo scattare uno straniamento brechtiano condito da non poca ironia. Di quella produzione rimane un libro, con belle fotografie di Guisa Sambonet, edito non per caso da L’Erba Voglio di Lea Melandri e Elvio Fachinelli, che già aveva magistralmente commentato le fotografie dei travestiti genovesi di Lisetta Carmi, dolente e mirabile sequenza di teatrini domestici tra Madonne dei sette dolori e parrucche elaboratissime come le acconciature coeve di Milva quando cantava il bolero Quattro vestiti . Quel testo si trova ora nel bel volume Al cuore delle cose. Scritti politici, pubblicato nei mesi scorsi da DeriveApprodi. 

 

Di Mario Mieli Youtube propone alcuni suoi momenti, tra cui un' intervista con la RAI nel programma “Come mai” del 1977, in cui con gonna e trucco confuta l’accusa di “Panorama” che lo stigmatizza come “starlette del porno” e dichiara che la società può salvarsi solo attraverso le donne (“portavoci del futuro”) al momento dell’uscita di Elementi di critica omosessuale, ma anche negli scatenati interventi al Parco Lambro, di fronte a un pubblico ostile, mentre urla con uno stranito Ivan Cattaneo (per cui aveva scritto il testo della notevole Darling) “el pueblo unido è meglio travestido” o “lotta dura contronatura”, allo sconcertato pubblico del raduno rock giovanile. La sintesi del suo pensiero, in quel momento, è chiara: “non era più il momento di battere, ma di combattere”. Ora Silvia De Laude, già curatrice con Walter Siti dei Meridiani Pasolini, pubblica da Clichy, a quattordici anni di distanza dall’uscita presso Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale, ormai introvabile, nel momento in cui non esiste alcun libro in commercio delle sue opere, E adesso (pp. 160, € 7), un acuto e utilissimo profilo biografico e critico di Mieli, raccontandolo a trecentosessanta gradi, tra arte e politica, teatro, performance, camp e provocazione. L’autrice mette da parte gli aspetti dello “scandalo” Mieli per raccontarlo come “giovane favoloso”, quasi una reincarnazione moderna e travestita di Leopardi, presentando le tappe di un' identità che sfida sempre in primo luogo se stessa e la propria rappresentazione. La parte finale del volume è dedicata a un florilegio di scritti diversi dello scrittore, dai libri, ma anche con frammenti folgoranti da interventi su dimenticate riviste del movimento omosessuale, su volantini, o nelle cartoline a Umbertine (ossia Umberto Pasti), in cui si trovano parole di grande tensione lirica.

 

La parte politica è in primo piano: Mieli spara a zero contro la “educastrazione” degli psicoterapeuti, dice che ucciderebbe con le proprie mani i medici che, come in un' orrorifica variante di Arancia meccanica, si dedicano alla micidiale aversion therapy, che è intesa a “curare” l’omosessualità, presentata come una patologia, con la violenza dell’elettrochock. È lucidissimo nel suo contestare il sistema politico: quando il FUORI che ha contribuito a fondare si associa con il Partito Radicale, fugge subito, fondando i COM, Comitati Omosessuali Milanesi, di cui disegna il futuro al di fuori di una struttura di partito. La parola “omosessuale” è già un limite, dato dal tempo dell’elaborazione della sua scrittura. Mieli ha un pensiero più oltranzista e modernissimo: “l’eros libero sarà transessuale” e dietro a questa dichiarazione c’è una figura mitica, usata come talismano e slogan, l’ermafrodito, magia della congiunzione dei sessi, in chiave di rebis, essere doppio e perfetto. L’alchimia, nella rilettura di Silvia De Laude, trova il riconoscimento di una azione-chiave nella costellazione degli interessi di Mieli: l’autrice sottolinea la relazione intellettuale con il massone e esoterista romano Francesco Siniscalchi, che gli indirizzò una lettera riservata in merito al commento di un passo di Paracelso. Emerge, assai marcato, nel lavoro, il legame con l’Egitto simbolico che costituisce il centro de Il risveglio dei Faraoni.

 

La sua famiglia industriale era infatti giunta a Como da Alessandria d’Egitto, che aveva prestato a Milano anche la voce radicale di Demetrio Stratos. Se il grande cantore delle diplofonie si era nutrito degli infiniti melismi di Umm Kalthum, Mieli sembrava ricamare sul repertorio delle mummie del Fayyum, immagini realistiche, e simboliche a un tempo, di vite interrotte nel fiore degli anni, consegnate alla Storia nei ritratti che ornavano le sepolture. Egli stesso sembrava in certe immagini un personaggio evocato da Kavafis, sul filo del tempo, tra passato e futuro. Quello che più colpisce, rileggendo un’opera inseguita da un’esistenza frenetica, tra l’attivismo politico e i viaggi, le letture, i miti (e una profonda risonanza con Ziggy Stardust, messia lebbroso e profeta della crisi finale della civiltà tra glitter e lustrini, memorabilmente inventato da David Bowie), le crisi tossiche, le depressioni e le ascesi d’amore. Basta seguire i numerosissimi interventi su dimenticati quanto vitalissimi fogli di stampa, dai titoli memorabili: I vespasiani degli omosessuali, o Dalle cantine froce, elaborato insieme a Corrado Levi, in chiave di libro d’artista. L’itinerario di Mario Mieli quando scelse di porre fine alla sua esistenza, mettendo la testa nel forno, si riassunse nel raro film televisivo Una favola spinta, diretto da Guido Tosi e prodotto da Rai3 Lombardia, in epoca di clamoroso pluralismo, nel 1984, riproposto opportunamente per la prima volta dal Festival Mix di Milano nel 2013. Nel film (interpretato da Raffaella Azim e da un sorprendente Aldo Mondino, insieme a due giovanissimi Claudio Bisio e Paolo Rossi e a Daniela Piperno), frammenti de Il risveglio dei faraoni, lampi di antico Egitto su sfondi meneghini, iniezioni massicce di camp, tra tacchi a spillo e paillettes: insomma una vera e propria saga alla ricerca di sé e della propria luminosa perdita. Dal 1983 il circolo Mario Mieli di Roma ricorda il nome di questa identità multiforme, sospesa tra la provocazione estrema e il più straziato lirismo, tra il camp più perfetto di colui che amava essere definito “uccello del paradiso” e il desiderio di una mistica metamorfosi. Oggi, al di là del mito, è il momento di ritornare all’opera. E adessoè un ottimo punto di partenza.

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Tra arte e politica, performance, camp e omosessualità

Prenderli al volo prima che precipitino

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Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c'è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull'orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo… io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”. È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l'acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l'unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).

 

Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s'intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.

Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. 

Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l'opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo – nel tempo, col suo trasferimento a Londra – la formazione psicoanalitica. È un'epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.

 

 

La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell'ultimo libro Se il sole esplode. L'enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo. 

Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l'essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po' schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient'altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.

 

 

 

Autore prolifico – le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone – è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.

Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l'idea di psichiatria democratica. Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali. Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell'idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione. C'è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile. 

 

 

Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l'inizio del millennio e che – finalmente! –

stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull'evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.

I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas – in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone – sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano. 

Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.

Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell'oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica. 

 

Che cos'è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l'inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l'inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po' come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi. 

Il termine coppia freudiana evoca l'analisi reciproca di Ferenczi. L'opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l'analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione. 

Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi. 

 

 

 

Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.

Vorrei infine sottolineare l'uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”. 

Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull'epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa – sto persino cercando di scriverci sopra un libro – e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall'assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l'Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all'insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell'East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell'Europa contemporanea. 

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L'opera di Cristopher Bollas

Pregiudizio

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Storie 

 

(a)

Quattro aperitivi analcolici, aveva ordinato al cameriere quello di loro che sembrava più a suo agio degli altri. Certo, era l’unico che aveva il cellulare alla cintura, i blue jeans e la camicia a scacchi colorata. Anche altri due di loro si muovevano con un certo agio, come chi ormai conosce i posti e ha imparato alcune abitudini di base. Era il quarto che si misurava evidentemente con quel mondo per la prima volta. Statuario, col suo fez col pon pon, si guardava intorno alla ricerca di segni accessibili e si muoveva con una certa pesantezza nel suo vestito lungo, sotto il quale spuntavano dei corti pantaloni e sandali di cuoio consunto. Gli altri tre no: avevano scarpe da ginnastica di quelle che non cambiano mai colore anche quando sono vecchie, e esibivano una certa confidenza col luogo. La piazza era quella di una città del nord est, medievale e curata da attenti restauri, nell’atmosfera di un sabato pomeriggio dei primi di novembre. Seduti al tavolo del bar avevano intavolato da subito una di quelle fitte conversazioni fatte di parole incatenate le une alle altre, interrotte solo da fragorose risate, che portano nei nostri pomeriggi perbene pezzi di mondi diversi e lontani.

 

Il cameriere aveva depositato sul tavolo prima di tutto la ciotola con le noccioline americane con un cucchiaio infilato al centro e solo dopo i quattro bicchieri ripieni a metà di un liquido rosso. Il parvenu, l’ultimo arrivato, quello con il fez, aveva subito allungato la mano, e preso il cucchiaio lo aveva riempito di noccioline e stava per portarlo alla bocca. Non aveva fatto in tempo ad avvicinare il cucchiaio alla bocca che il cameriere, giratosi di scatto, gli aveva intimato con un eloquente gesto della mano, di non fare così, invitandolo a riporre le noccioline e mostrandogli come si deve mangiarle. Aveva preso il cucchiaio e mimando il gesto di depositare nell’incavo della mano un po’ di noccioline riponendo poi il cucchiaio, simulava l’atto di mangiare le noccioline una alla volta, dicendo al parvenu:" vedi, si fa così". Fu a quel punto che il parvenu piazzò il suo colpo di teatro. “Ma come!, disse ai compagni, nel suo francese maghrebino, “sono venuti da noi che mangiavamo con le mani e ci hanno detto che eravamo incivili e non appartenenti alla specie umana per i nostri costumi selvaggi; ora ci dicono che dobbiamo tornare a mangiare con le mani, facendo ancora una volta quello che vogliono loro!”

 

(b)

Una sensazione vaga di essere osservato l’aveva avuta, come quando uno sfondo preme sulla figura pur rimanendo sfondo. Del resto la sua attenzione era protesa a leggere dal cartellone bianco l’ora d’arrivo del treno alla stazione di Lecco. Gli sembrava di essere in ritardo per andare incontro all’amico che arrivava da Milano. Purtroppo le domande di fine seminario non finivano più e poi, si sa, c’è sempre quell’ultimo partecipante che ha bisogno di un chiarimento riservato e non rinviabile sulla soglia della porta dell’aula. Dopo la doccia si era cambiato del vestito di lavoro indossando una tuta che era risultata più larga del solito. Negli ultimi tempi era dimagrito. La cosa gli aveva procurato un certo piacere. L’elastico dei pantaloni della tuta non gli stringeva più i fianchi, anzi il corpo ci giocava dentro e le linee affusolate gli avevano procurato un certo compiacimento. Di corsa fino alla stazione dove aveva dovuto affrontare il solito problema del parcheggio, si era rassegnato a lasciare l’automobile fuori posto con le luci lampeggianti. Era entrato in stazione dallo spazio laterale facendo gli scalini di corsa a due a due. Finito direttamente sul primo binario non aveva visto alcun treno e si era perciò orientato a cercare il cartellone degli arrivi. Era esposto sul muro dell’edificio della stazione che dava sul primo binario, a lato di una panchina di pietra, come accade nelle stazioni di provincia che ostentano ancora un certo tocco di liberty. Proprio su quella panchina erano sedute due donne, una giovane e una anziana che per lui erano null’altro che sagome di sfondo, concentrato com’era a capire dove fosse il treno del suo amico. Fu dalla donna giovane che venne la voce sibilante, quasi un urlo, nel momento in cui, sporgendosi per leggere l’ora d’arrivo del treno, si era sistemato i pantaloni della tuta, scesi leggermente sulla vita. In un italiano approssimativo ma chiarissimo, con un forte accento slavo, la giovane donna gli urlava che i suoi genitali lui li mostra a sua sorella, che non ci provi con lei, che non si permetta. A nulla era valso il suo tentativo di spiegare come stavano le cose, di dire che aveva semplicemente sistemato i pantaloni larghi.

 

Anzi, era stato peggio. La signora aveva urlato ancora di più brandendo due sacchetti di plastica pieni di roba e supportata dalla signora anziana che era con lei. Tanto era bastato perché in un attimo si formasse un capannello di persone accorse a commentare il fatto, e sentiva alle sue spalle la gente dire che al giorno d’oggi non ci si può fidare più di nessuno; guarda un po’, sembrava una persona per bene; e poi in piena situazione pubblica; qualcuno alludeva alla possibilità di chiamare la polizia e la signora urlava sempre più. Prima ancora di pensarci cambiò tono e urlando a sua volta, con la massima autorità di cui era capace disse: adesso basta! Non l’ho neppure vista e non ho fatto né farei niente che la riguardi, perciò la smetta! Non fu la giovane signora a cambiare atteggiamento ma le persone presenti. I loro commenti cambiarono di tono e qualcuno cominciò a dire che questi immigrati dovrebbero starsene a casa loro; che è inaudito che uno a casa propria non possa mettersi comodo e fare quello che vuole; che se loro vengono da mondi e abitudini barbare non è colpa nostra, e avanti di questo passo. Da potenziale stupratore si ritrovò paladino della guerra agli immigrati e dell’autenticità etnica. In entrambi i casi si sentiva stretto in una tenaglia. Per fortuna arrivò il treno, le signore si precipitarono a prenderlo, le persone del capannello si dileguarono e il suo amico apparve tra la folla del sabato sera, sul primo binario della stazione di Lecco.

 

Ridurre la varietà del mondo e le sue differenze a una forma sola: questo è quanto fa il pregiudizio quando si fossilizza in stereotipia. La più grave delle conseguenze, dentro l’illusione di sicurezza che ne deriva, è la negazione delle capacità creative. Il mind wandering si atrofizza e non vaghiamo più. La bellezza della plurale varietà del mondo, la sua vaghezza, appunto, si mortifica in una sola forma, sacrificando sull’altare della rassicurazione la molteplicità delle vie possibili. Del pregiudizio si sono dette tante cose, ma la sua capacità, nelle versione della stereotipia, di attaccare e neutralizzare la capacità creativa, è forse uno degli aspetti più caratterizzanti. Se creare è il modo naturale di funzionamento della mente, c’è da chiedersi come è possibile che quel modo naturale finisca per essere neutralizzato, messo almeno in parte a tacere, negato. Noi disponiamo, per via evolutiva, di una disposizione a scomporci, mettendo in discussione un ordine costituito, e a ricomporci, generando nuovi mondi e nuove prospettive. La creatività è un aspetto costitutivo dell'identità e della soggettivazione, che prende vita quando la mente riesce a fare proprie le percezioni e le sensazioni corporee e si completa con la creazione di quel magnifico ponte, per comunicare con se stessi e con gli altri individui, che è l'oggetto artistico. Così si esprime sulla creatività Stefano Calamandrei, in L’identità creativa. Psicoanalisi e neuroscienze del pensiero simbolico e metaforico, edito da Franco Angeli nel 2016. 

 

 

 

Basta osservare una bambina che gioca per comprendere che nella creatività, così come in quasi tutta la nostra esperienza, si realizza ancora una volta il primato dell’azione. Avevamo a lungo pensato che quella bambina componesse e scomponesse i suoi giocattoli o altri oggetti, li montasse e li smontasse a partire da “teorie mentali” o “immagini mentali” che applicava, trasferendole, alla realtà degli oggetti. Verifichiamo oggi che sono gli atti motori sostenuti dal sistema motorio che presidiano alle espressioni generative con cui il bambino smonta e ricompone in atti continuativi e interminabili gli oggetti del mondo, dando vita allo stesso tempo all’invenzione di animali fantastici, che pur non esistendo nella realtà, esistono per quella bambina e quel bambino. L’adulto non è da meno, se si ascolta, e se non censura la propria capacità generativa consegnandosi alla razionalità illusoria o al pregiudizio che diventa stereotipia. Tutto ciò pone una domanda: se la creatività è la principale attività della mente umana, come può accadere che si rinunci ad essa o se ne neghi la funzione e l’azione fino a non vedere di non vedere? Sì, perché il pregiudizio, quando si fossilizza in stereotipia è una forma di autoaccecamento; un sacrificio della creatività sull’altare della rassicurazione. Se creare è una disposizione naturale della mente umana, una capacità di scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente, il pregiudizio che diventa stereotipia opera una specie di glaciazione di questa disposizione in nome di una rassicurazione nei confronti della paura di cambiare idea su qualcuno, su qualcosa o su un fenomeno del mondo.

 

È stato il premio Nobel Gerald M. Edelman a identificare il cervello umano come un “generatore di diversità”. Nelle dinamiche circolari corpo-cervello-mente-relazioni-contesto, quella capacità generativa, a un certo punto, pare essere investita per ostacolare o negare l’insorgere di differenze e per trattare le diversità come un pericolo. Mentre in molti casi il filtro degli stimoli esterni avviene con significativi investimenti di creatività da parte del sistema sensoriale, e si producono ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto, nella situazione di pregiudizio stereotipante la mente è come se si privasse di vagare e si agganciasse a un solo appiglio, sempre quello, dismettendo la sua attenzione fluttuante. Si congela la capacità di finzione e l’esplorazione dell’ambiente di vita si affida a una sola prevalenza tra le vie per interagire con il mondo. La nostra mente, infatti, esplora l’ambiente, che comprende anche gli altri, e si accoppia con esso, provando paura per evitare pericoli; categorizzando le differenze del mondo; sentendo desideri; arrabbiandosi per rimuovere ostacoli; prendersi cura di se stessi e degli altri; giocare; immaginare.

 

A un certo punto, col presentarsi del pregiudizio e con la sua trasformazione in stereotipia, l' elevata varietà di queste dinamiche sembra ridursi a una, prevalentemente alla paura, che spesso si combina con l’aggressività e la rabbia. Quando la creatività si dissecca e implode, accade in buona misura perché non riusciamo a cambiare idea, a rimuovere un ostacolo affettivo e cognitivo che ci impedisce di vedere il valore di una differenza, o non ce la facciamo a sentire prossimo chi tale è. Se la creatività è figlia di una capacità umana specie specifica, essa dipende spesso anche da risposte all’angoscia. Possono esservi paure angoscianti che ne neutralizzano l’espressione a tutto vantaggio dell’affermazione di stereotipi e pregiudizi. Sia la stereotipia che il pregiudizio non tollerano il vuoto della ricerca e del dubbio, e così le differenze non fanno sentire vivi, non diventano forme vitali, ma sono vissute come minacce. Così come nell’atto creativo, che avviene nel mondo interno e cerca riconoscimento nel mondo intorno a noi, lo sguardo dell’altro è decisivo, nel pregiudizio stereotipato lo sguardo dell’altro non conta; anzi l’indifferenza e la saturazione del proprio sguardo, congelato nella certezza rassicurante, impediscono di considerare quello sguardo fino a negarlo, ad escluderlo, ad appartarlo.

 

La perdita è netta, se è vero come è vero che solo nello sguardo dell’altro ci riconosciamo, a partire dallo sguardo materno. La creatività è sempre caratterizzata da un difficile accordo tra mente e mondo: in quegli scarti si aprono problemi e disagi da elaborare, ma anche spazi generativi. Del resto il disagio è proprio relativo a quella particolare situazione in cui non si è perfettamente a posto. L’accordo tra mente e mondo sarà anche faticoso, ma è portatore di quella particolare tensione che può dare vita a quello che prima non c’era. Nel pregiudizio la mente si arrende alla realtà così come si ritiene senza dubbio che sia, patendone l’imposizione in cambio di una rassicurazione acritica e vissuta come definitiva. Definitiva fino alla sua naturalizzazione, alla sua normalizzazione naturale. Come scrive Ta-Nehisi Coates, in Tra me e il mondo, Codice edizioni, Torino 2016: “Gli americani credono nella realtà della ‘razza’ come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale” (p. 15).

 

La lingua è rivelatrice del processo di fissazione e naturalizzazione che la stereotipia pregiudiziale produce. Anche se è proprio la lingua a spostare l’attenzione dalla dura concretezza degli effetti del pregiudizio stereotipato verso una lettura che sembrerebbe indicare che quegli effetti potrebbero fermarsi ad aspetti di superficie. Non è così. Il pregiudizio attacca i corpi e genera molteplici forme di esclusione e distruzione. Scrive ancora Ta-Nehisi Coates: “La nostra stessa terminologia, relazioni di razza, divario tra razze, giustizia razziale, profili razziali, privilegio bianco, persino supremazia bianca, serve a offuscare il fatto che il razzismo è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti” (p. 19). Rivolgendosi al figlio a cui indirizza la narrazione del libro, l’autore gli dice: “Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi della regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo” (p.19). E approfondisce il proprio sentimento di vittima di pregiudizio stereotipato, affermando: “Ora ti dico che il problema di come si debba vivere dentro un corpo nero, all’interno di una nazione perduta nel Sogno è il dilemma della mia vita” (p. 21). La nazione del Sogno sono naturalmente gli Stati Uniti. Il pregiudizio stereotipico non solo nega, ma anche nasconde, cela, elude. Il volto pubblico e rassicurante degli Stati Uniti d’America, così sovente squarciato da eventi violenti e distruttivi prodotti dal pregiudizio verso i neri, si cela, infatti, sotto una falsa moralità. “Avevo il presentimento che la scuola ci stesse nascondendo qualcosa, drogandoci con una falsa moralità così da impedirci di vedere, di chiedere: perché per noi, e solo per noi, l’altra faccia del libero arbitrio, dello spirito libero, si traduce in un assalto contro i nostri corpi?”, così aggiunge Ta-Nehisi Coates (p. 39). La domanda inquietante apre alla necessità di un’analisi che sia capace di cogliere la complessità del pregiudizio, oltre le spiegazioni semplicistiche.

 

Da quando il fenomeno è stato studiato con una certa attenzione è stato possibile riconoscere l’importanza di evidenziarne la dimensione relazionale e intersoggettiva. Per un comportamento che denigra l’altro (eterodenigrazione), a cui corrisponde di solito un’autoesaltazione, sembra esservi dall’altra parte una posizione corrispondente di autodenigrazione e di eteroesaltazione. Come sempre non vi è vittima senza carnefice e non vi è carnefice senza vittima. Per comprendere questa dinamica di glaciazione delle differenze e di negazione della discontinuità creativa è necessario non perdere di vista la distribuzione delle responsabilità. Dalla costruzione di uno stigma fino alla violenza fisica sui corpi, non è possibile non considerare, per quanto possa essere difficile farlo, il comportamento delle vittime. Vale anche per la persecuzione degli ebrei e per i comportamenti collusivi che, perlomeno all’inizio, generarono una capacità di reazione tiepida. La nostra disposizione a restare sudditi, come dice Spinoza, non va mai trascurata. Ciò detto, è importante, inoltre, vedere nel pregiudizio anche una dinamica che, prima che diventi stereotipia, è abbastanza diffusa, poiché ogni giudizio è di solito preceduto da una valutazione preliminare, provvisoria e parziale che lo anticipa. Comunque si consideri, incluse queste dinamiche che lo caratterizzano, il pregiudizio che diventa stereotipo può essere riconosciuto come una delle cause principali della negazione della capacità creativa umana, e in questo sta la sua problematicità; da questo derivano le sue conseguenze più gravi. 

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Trump. Voto contro

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Lo storico politico Allan Lichtman ha previsto il vincitore di tutte le elezioni presidenziali americane dal 1984 fino a oggi. Aveva previsto anche la vittoria di Trump. Non si basa affatto su sondaggi, a cui non crede, bensì su tredici “chiavi”. Parte dal presupposto che le elezioni siano un referendum sul partito che governa e quindi non conta granché chi siano i candidati. Se contro Clinton al posto di Trump ci fosse stato un altro candidato repubblicano, avrebbe vinto lo stesso. Se Lichtman ha ragione – e le sue previsioni finora gli danno ragione – la vittoria di Trump appare meno significativa di quanto non sembri.

 

Gran parte dell’elettorato non vota pro, vota contro. Vota “No”. (Anche in Italia. Sono convinto che la maggioranza delle persone che voteranno “No” al referendum del 4 dicembre voteranno in realtà contro Renzi.) Gran parte del voto per Trump era un voto contro Clinton, e più in profondità voto contro Obama. Trump ha vinto non perché abbia conquistato voti, ma piuttosto perché Clinton ne ha persi. Il grafico qui sotto la dice lunga. Mostra che Trump ha vinto con 59 milioni di voti, meno di quelli presi dai repubblicani sconfitti alle precedenti elezioni.

 

 

Morale: gran parte degli elettori non si sono sentiti rappresentati né da Clinton né da Trump. Quest’ultimo ha vinto perché ha conquistato gli stati che facevano la differenza.

Questo non toglie che Trump abbia vinto grazie al voto dei bianchi, soprattutto di quelli maschi, dei credenti eccetto gli ebrei, delle persone con bassi titoli di studio, di chi non vive nelle grandi città, dai 45 anni in su, e con un reddito annuale sopra i 50.000 dollari. A parte il reddito, è la tipologia di elettorato che ha votato per la Brexit.

 

Purtuttavia, dopo la Brexit a giugno e l’elezione di Donald Trump a novembre, possiamo dire che il 2016 sarà ricordato come un anno storico, quasi come il 1989. Solo che mentre nel 1989 l’evento maggiore fu il crollo del muro di Berlino, il 2016 sarà l’anno della costruzione dei muri, reali o virtuali. Il muro immateriale che la Gran Bretagna sta costruendo tra sé e l’Europa, il muro che Trump minaccia di costruire tra USA e Messico. Sono eventi particolarmente importanti perché Stati Uniti e Gran Bretagna fino a ora sono stati paesi-guida dell’evoluzione politica, culturale ed etica del mondo occidentale. Due paesi che imitiamo da tempo. Per cui è prevedibile che avremo molti altri Trump in Europa (ne abbiamo già, in verità) così come avremo altre Exit dall’Europa – vedo già profilarsi la Nederexit, la Polexit, l’Unghexit, e , perché no?, l’Italexit.

Scimmiottiamo feste, musica e letteratura americane – da qualche anno celebriamo anche Halloween. Così scimmiotteremo il Brexit e il trumpismo.

 

Oggi si discute molto se Trump sia una replica americana di Berlusconi o meno. Molti mettono in rilievo le differenze secondo loro fondamentali tra i due; ad esempio, Berlusconi formò un partito tutto suo mentre Trump non aveva partito e si è impadronito, per dir così, del partito repubblicano. Ma tutti questi acuti distinguo non ci fanno vedere l’omologia fondamentale tra l’italiano e l’americano: in entrambi i casi si tratta di imprenditori avventurieri, esperti del mondo dello spettacolo, che irrompono come outsiders nella politica del loro paese, cambiano il linguaggio della politica involgarendolo, e conquistano l’ammirazione e la fiducia di masse per lo più incolte e frustrate. Entrambi hanno persino in comune un’inquietante attrazione per Putin. Per questa ragione Berlusconi è un modello. Vedremo dove spunterà il prossimo.

Da un secolo a questa parte l’Italia è un ricco laboratorio del Male politico. L’Italia, come nella moda e nel design, tende a fare scuola. Un secolo fa inventammo il fascismo, formula che poi ebbe tanto successo in altri paesi come ben sappiamo. Dal 1946 al 1992 abbiamo inventato il modello del partito inamovibile: con varie alleanze, la DC ha governato ininterrottamente per 45 anni. E infine abbiamo inventato Berlusconi, che finalmente ha trovato un suo emulo, e nel paese più importante.

 

Le vittorie di Brexit e Trump non sono avvenute solo nelle due democrazie più longeve e solide dell’Occidente, ma in due paesi niente affatto in crisi, anzi abbastanza floridi dal punto di vista economico. Non è come agli inizi degli anni 80. Allora Thatcher subentrò sullo sfondo di un declino economico britannico che durava da tempo; e Reagan vinse contro Carter dopo l’umiliazione inflitta dalla rivoluzione iraniana e per la crisi economica. Invece l’economia americana è in costante crescita, oggi al 2,9% (quasi il doppio della crescita tedesca) e la disoccupazione non va oltre il 4,9%, un dato vicino al tasso di disoccupazione minima, direi fisiologica. Obama ha permesso a circa 20 milioni di persone di accedere alle cure mediche gratuite. Quanto alla Gran Bretagna, essa ha avuto la crescita economica più alta tra i paesi G7, e la disoccupazione è rimasta al 4,9%. Le scelte rabbiose per la Brexit e Trump sono quindi figlie non della crisi, ma della prosperità.

 

Perciò non capisco quando si dice che le proposte, anche se grossolane, di Trump attraggono perché i liberals non danno risposte soddisfacenti ai problemi. Ma a quali problemi? Non è perché le cose reali andassero male in America che hanno votato Trump, sono piuttosto certe cose simboliche ad andare male, come vedremo.

 

Trump ha vinto contro l’élite politica ed economica, ma non perché questa élite stesse portando il paese alla malora. Piuttosto, c’è una rivolta contro le élite in quanto élites. Quando si dice che il voto per Trump è stato contro l’establishment, per establishment si intende di fatto le élites, una oligarchia (e come ha ricordato Eugenio Scalfari a Zagrebelsky, non è pensabile una democrazia senza oligarchie). Non solo contro quelle politiche, ma anche contro quelle giornalistiche, culturali, intellettuali. Trump ha avuto contro tutta l’industria di punta americana: amazon, Hollywood, Uber, Silicon Valley… Quasi tutti i giornali americani si erano schierati contro Trump. I giornali hanno allora perso contatto con i loro lettori? Certo, nella misura in cui i giornalisti di solito sono dei laureati, e in qualche modo fanno parte di una élite.

 

Il concetto di establishment è abbastanza vago per servire da contenitore di tutti i deliri invidiosi. Oggi da noi è di moda dire “poteri forti”, distinguendoli da non meglio precisati poteri deboli. Un tempo si diceva “la borghesia”, “la società capitalista”, poi negli anni ’60 e ’70 si diceva “il potere”, oggi si dice “poteri forti”. In ogni caso, si intendono le élite che hanno potere.

Tutti dicono che Hillary ha vinto i tre dibattiti pubblici con Trump. Ma ha vinto secondo chi? Secondo quella élite colta che pensa come Hillary e non come Trump. Si dice che molti invece fossero irritati dal fatto che nei dibattiti Clinton fosse la più brava, che citasse dati e cifre con precisione e competenza. Troppo brava, troppo colta. Si odia l’élite intellettuale, non gli arricchiti. I ricchi non sono percepiti come élite nemica.

 

È ormai rituale dire che la sinistra non ascolta più la gente comune. La metafora più abusata è quella del tram: bisogna andare nei tram o bus delle periferie, e ascoltare quel che dice “il popolo”. Anche dopo le elezioni per sindaco di Roma e Torino, si disse che Giachetti e Fassino avrebbero perso perché non avevano preso i tram che vanno in periferia. Sarà anche così. Ma il punto è che anche dopo aver ascoltato quel che la gente dice nel tram o altrove, non è possibile per uno della sinistra democratica, o semplicemente per uno con un po’ di intelligenza, farsi portavoce “di quel che dice la gente”. Perché la gente dice spesso cose mostruose o irrazionali. Posso dirlo perché io prendo i tram, ascolto le chiacchiere al bar, al ristorante, parlo con i taxisti… So quindi quel che la gente dice. Prima di tutto, dice una lunga serie di sciocchezze. Molti che hanno votato Trump pensano che la disoccupazione negli USA sia al 15% (mentre è solo al 4,9%), che Obama è mussulmano e che non è nato negli Stati Uniti. Le smentite puntuali non servono: quando si vuol credere assolutamente a qualche cosa, non c’è controprova fattuale che tenga. Se un democratico in Germania all’inizio degli anni ‘30 avesse preso molti tram, si sarebbe accorto dell’ondata antisemita che stava travolgendo i tedeschi. E che portò nel 1933 al trionfo elettorale di Hitler. Ma cosa avrebbe dovuto fare, competere con il partito nazional-socialista sul suo stesso terreno e denunciare gli ebrei come un pericolo? Certo all’epoca molti denunciarono l’antisemitismo, come oggi si è denunciato Trump. Ma la denuncia non basta, soprattutto quando si basa su dati inoppugnabili.

Ascoltare quel che dice la gente è fondamentale, ma rincorrere il consenso spesso è semplicemente cinico.

 

Si è affermata questa teoria: che il voto per Trump, come quello per la Brexit, è voto di protesta delle vittime della globalizzazione. Che il voto per Trump è quello dei più poveri. Ma i dati con confermano questa tesi: risulta che coloro che guadagnano meno di 30.000 euro (la fascia più povera) hanno in maggioranza votato per Clinton. Bisognerebbe dimostrare chi sono davvero i danneggiati dalla globalizzazione, e se questi hanno votato per Trump. Altrimenti siamo nel cliché.

 

Si ripete che il voto per Trump è risultato delle delocalizzazioni, che hanno portato alla chiusura di industrie e a licenziamenti. Ma non ci credo. Il fatto che la disoccupazione sia bassa mostra che questi disoccupati hanno trovato il lavoro. E bisognerebbe dimostrare – piuttosto che darlo per scontato – che il voto determinante per Trump è venuto da quelli che hanno visto diminuire comunque il loro reddito. Aspetto analisi più approfondite.

 

Io credo che il voto per Trump sia sì un voto anti-globalizzazione – “America First”– ma non per le ricadute economiche della globalizzazione. Esprime un rigetto molto più simbolico dell’altro – sia esso immigrato, minoranza etnica, altra religione, ecc. Credo che il voto per Trump – come per Grillo, Le Pen, Farage, ecc. – sia un voto essenzialmente anti-cosmopolitico, cioè in fondo anti-cultura. I “forgotten men” (significativo: non women) di cui Trump vorrebbe essere portavoce non sono sempre i più poveri, ma per lo più anziani e credenti che si trovano in un mondo che capiscono sempre meno, che ridicolizza le loro certezze, un mondo dove i gays si sposano, le donne diventano cancelliere, i neri presidenti, gli ispanici leader, si mangia giapponese e cinese…

 

Anni fa incontrai in un ristorante una coppia torinese venuta in vacanza a Roma. Lui era un sindacalista della FIAT, parlandogli mi resi conto che era una persona solida, di sinistra, non parlava a vanvera. Quando gli chiesi che cosa lo avesse colpito di Roma, mi disse con tono molto irritato che a Roma si parla troppo inglese, e altre lingue straniere. Affermò che in un paio di posti – un negozio, un ristorante – gli addetti parlavano solo inglese, non parlavano italiano. Non era riuscito a farsi ascoltare. Cercai di fargli capire l’improbabilità che impiegati italiani al centro di Roma non parlassero italiano! Ma ormai il “fattoide” si era formato. Da notare che questa vivace reazione xenofoba non veniva da un leghista, ma da un sindacalista di sinistra. Lo irritava il fatto che molte persone a Roma parlassero inglese, mentre lui non lo parlava, perché questo nutriva il suo sentimento di esclusione. Come ha detto Ezio Mauro, la questione non sono più le diseguaglianze (come continua a pensare molta sinistra) ma l’esclusione (E. Mauro, “Democrazia”, La Repubblica, 10-XI-16, p. III).

 

Il voto per Trump di quelli che chiamo “identitari incazzati” esprime insomma un profondo senso di frustrazione dato che la globalizzazione in qualche modo li emargina. Culturalmente, ancor prima che finanziariamente. Trump ha trovato le parole – ovvero i capri espiatori – per convincere questi frustrati, ai quali noi consiglieremmo piuttosto uno psicoanalista.

 

In tutto il mondo si è discussa un’intervista del famoso filosofo marxista Slavoj Žižek in cui dichiarava che, se fosse americano, avrebbe votato per Trump. Da quel che ho capito, è perché Hillary Clinton rappresenta l’establishment, e gode del favore del capitalismo americano. Invece Trump, sfidando anche il linguaggio e i rituali dell’establishment, lancia una sfida che potrebbe essere salutare per la sinistra. È la riedizione della politica del “tanto peggio, tanto meglio”. Essa mi pare documentare – al di là della persona di Žižek, che indulge alle provocazioni – lo stato confusionale in cui il pensiero marxista versa di questi tempi. La confusione è connessa al fatto che oggi sempre più il voto operaio e dei ceti medio-bassi va agli identitari, come Trump. Socialdemocrazie e laburismi oggi invece godono sempre più della fiducia dei classici poteri capitalisti; non a caso Wall Street aveva puntato su Clinton. Questo processo di convergenza tra mondo dell’impresa e sinistra avviene in quasi tutti gli altri paesi; lo si è ben visto in occasione del voto sulla Brexit. Ma questo processo non porta a premiare per contraccolpo partiti e leader dell’estrema sinistra rimasta fedele all’anti-capitalismo. Non sappiamo come sarebbe andata se fosse stato il socialista Bernie Sanders a sfidare Trump; ma chi ha votato Trump non avrebbe votato nemmeno per Sanders.

 

Questa mutazione culturale, per cui le classi più deboli alla bandiera di più eguaglianza preferiscono quella dell’identità – con tutto quello che questa bandiera implica: xenofobia, muri, protezionismo – sconquassa i parametri del pensiero marxista. La contrapposizione principale oggi non è tra più eguaglianza (sinistra) e più individualismo (destra). Prova ne sia che Trump ha promesso una misura tipica della sinistra: impegnare lo stato in grandi lavori pubblici di miglioramento delle infrastrutture. Più o meno è quel che propongono da noi Vendola e Cofferati. La contrapposizione oggi più pertinente è tra da una parte l’apertura cosmopolitica al mondo (che il capitalismo non meno della sinistra predicano) e dall’altra la chiusura identitaria nel proprio focolare nazionale o regionale.

Si dice che Trump presidente farà ben poco di quel che ha promesso per vincere le elezioni, cosa che mi auguro. Ma possiamo immaginare quel che farà o cercherà di fare i prossimi anni.

 

Probabilmente farà una stretta alleanza con la Russia per eliminare DAESH in cambio di una legittimazione del dittatore Bashar Al Assad, il quale potrà così, con l’appoggio russo, liquidare manu militari ogni forma di opposizione in Siria. Tutta l’area sarà a dominazione sciita, dall’Iran al Libano, passando per Iraq e Siria. La relazione speciale con Putin schiaccerà tra i due l’Europa, tanto più che Trump punta all’eliminazione della NATO. L’Europa dovrà riarmarsi per la sua difesa, contando sempre meno sull’alleato americano. Per i giovani europei si aprono buone prospettive di carriera militare.

 

L’entusiasmo con cui Erdogan ha accolto l’elezione di Trump può portare all’autorizzazione americana a perseguitare i curdi, che pure hanno svolto una funzione così fondamentale contro DAESH.

 

In Europa, l’America si stringerà sempre più a una Gran Bretagna conservatrice e insulare, ritirando quell’appoggio all’Unione Europea che non era mai mancato, da parte americana, sin dal suo costituirsi. La pacificazione con Cuba sarà messa in questione, ed è probabile che si torni alla guerra fredda tra i due paesi; il che assicurerà lunga vita ancora al castrismo. Il processo di riconciliazione con l’Iran, iniziato da Obama, sarà rovesciato. L’Iran tornerà a essere Stato canaglia, rafforzando quindi al suo interno le forze conservatrici e integraliste; e la tentazione di costruire la bomba atomica.

Dato l’appiattimento di Trump sulle posizioni di Netanyahu, il conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi potrà rifiorire senza remore. E tanti islamici potranno sentirsi legittimati a odiare ancor più l’America. Dobbiamo ricordare che il pro-israelismo di molti presidenti USA non è frutto di una logica geopolitica, ma è un fatto squisitamente elettorale. Molti protestanti americani, in particolare evangelici, credono fermamente alle parole della Bibbia in cui si dice che l’avvento di Cristo alla fine dei tempi avverrà solo quando gli ebrei domineranno tutto il Medio Oriente. Anche se questi protestanti non sono particolarmente simpatetici con gli ebrei, spingere Israele ad espandersi è uno dei loro dogmi fondamentali. Un presidente che voglia il consenso del fondamentalismo cristiano deve mostrare di appoggiare Israele costi quel che costi; anche se in questa elezione oltre il 70% degli ebrei ha votato democrat.

La fine di qualsiasi preoccupazione ambientalista riporterà in auge le industrie inquinanti, come quella del carbone, e gli altri paesi – Cina in testa – dovranno adeguarsi per poter competere. Aumenterà l’inquinamento e il surriscaldamento del pianeta.

 

Ma Trump non è semplicemente un presidente conservatore. Da decenni, il programma conservatore è chiaro: libero mercato e libero scambio, meno tasse per i ricchi, meno welfare. Ma Trump rappresenta – come Le Pen, Grillo, Salvini, Farage, ecc. – qualcosa di diverso. È stato eletto da bianchi di bassa istruzione. Il suo elettorato era in parte quello classico dei democratici, che non si sentono più rappresentati dai democratici. Per questa ragione al posto del libero scambio propone il protezionismo. Da qui la rottura tra Trump e il mondo degli affari; cosa che deve averlo reso simpatico a Žižek. Tutti quelli che chiamo “identitari” – Fronte Nazionale in Francia, Lega Nord in Italia, IKIPP in Inghilterra, ecc. – sono protezionisti. Il protezionismo è non solo una misura economica, ma una figura direi metafisica: nell’impedire l’entrata sia alle merci straniere che agli immigrati, si articola il sogno della propria nazione come Fortezza chiusa. Se Trump facesse quello che ha detto, la prima vittima sarebbe l’Europa, continente esportatore negli USA.

Per concludere, devo dire che a questo punto non è così male essere anziano.

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Per l’edizione Bookcity 2016 Doppiozero organizza, presso il Teatro Franco Parenti Digital Studio, Tre lezioni sulle tenebre:

 

Nella mente di Andres Breivik

Pietro Barbetta

18 novembre 2016, ore 17.30

 

- Mi considerate tutti un mostro, non è vero?

- La consideriamo un essere umano.

- Mi giustizierete. Me e tutta la mia famiglia.

- Siamo pronti a proteggere la sua famiglia, se fosse necessario. Per noi una vita è una vita. Lei sarà trattato esattamente come chiunque altro.

 

Queste risposte sono l'offesa più grave che Breivik può avere ricevuto. Una lezione di giustizia, uno schiaffo, addosso alla convinzione di essere contemporaneamente superiore e inferiore. No, sei uno di noi.

 

Dopo Bataclan

Marco Belpoliti

19 novembre 2016, ore 17.30

 

Un anno fa la strage del Bataclan. Dei giovani che sparano sui loro coetanei in una sala musicale parigina facendo morti e feriti. Perché? Possiamo metterci nella loro testa ? Cercare di capire cosa li ha spinti a questa violenza assurda e totale? Ipotesi di una empatia al negativo nella mente dei kamikaze islamici tra imperativi religiosi e identità fluttuanti.

 

 

Un nuovo tipo di paura, la vittimizzazione secondaria

Ugo Morelli

20 novembre 2016, ore 17.30

 

Chi è lontano da un evento distruttivo sembrava immune dalle sue conseguenze non solo fisiche ma anche psichiche. Il pianeta che diviene un villaggio globale anche per effetto della rete informativa cosiddetta in tempo reale estende non solo il concetto ma anche l'esperienza interiore di "vittima". Ognuno è raggiunto dalla paura in diverse forme e profondità e questo induce a considerare gli effetti di una vittimizzazione che possiamo chiamare secondaria, sia a livello individuale che collettivo, sia nelle relazioni di corto raggio che nei destini della democrazia .

 

 

Tutti gli incontri organizzati da doppiozero presso:

 

Teatro Franco Parenti Digital Studio

Via Pierlombardo 14

Milano

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Tre lezioni sulle tenebre

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In Episodio II – L'attacco dei cloni (2002), secondo capitolo della trilogia-prequel di Guerre Stellari, George Lucas ci mostra come il giovane jedi Anakin Skywalker sia diventato l'arcicattivo Darth Vader. La spiegazione sa di freudismo d'accatto: da quando gli è morta la mamma, il promettente cavaliere ha cominciato a diventare un adolescente problematico in guerra col mondo, e da lì non si è mai più rimesso.

 

Non c'è bisogno di mobilitare i fasti della Hollywood classica per ricordare che dallo pseudo-Freud di paccottiglia possono nascere fior di meraviglie cinematografiche. La carriera di Bellocchio è lì per dimostrarlo, come del resto quella del suo “vicino di casa” Bernardo Bertolucci.  Non sarà un sottovalutatissimo capolavoro assoluto come Sangue del mio sangue– probabilmente il film più bello e importante mai realizzato sull'Italia post-1989 (o, a seconda dei gusti, post-1992) – eppure Fai bei sogni (2016) conferma l'abilità di Bellocchio di partire da premesse francamente sconfortanti per trasfigurarle in qualcosa di molto, molto prezioso, a cui vale la pena avvicinarsi con attenzione.

 

Marco Bellocchio. 

 

A tutt'oggi, due sono i cardini principali del cinema di Bellocchio. Uno, fin dai suoi esordi, è la convinzione che la figura della Madre informi gran parte dell'inconscio collettivo italiano, qualunque cosa esso sia. L'altro, aggiuntosi per la verità solo negli ultimi vent'anni, dopo la controversa parentesi umana e cinematografica fortemente influenzata dallo psicanalista Massimo Fagioli, consiste nell'ipotesi che da qualche decennio in qua l'Italia abbia smesso di vivere (e cioè di partecipare alla Storia) per rifugiarsi nel mondo “laterale” dell'immagine mediatica. Buongiorno, notte (2003), ad esempio, metteva in scena l'omicidio di Aldo Moro come momento chiave in cui l'Italia voltò le spalle all'ancora vitale subbuglio sociale degli anni '70 per rinchiudersi dentro a uno schermo televisivo. Vincere (2009) mostrava un Mussolini che scelse di sparire, letteralmente, dalla Storia non appena rinunciò alle utopie socialiste, per confinarsi invece nelle immagini dei cinegiornali, a propria volta scimmiottate da una nazione intera (che nel film viene rappresentata metonimicamente dal figlio pazzo che il dittatore disconobbe).

 

Nessuna di queste premesse è granché originale, e anzi sono entrambe piuttosto stucchevoli. Il miracolo del cinema di Bellocchio sta appunto nel riuscire a combinarle e articolarle insieme in modo che, sullo schermo, perdano per strada la loro rispettiva improbabilità, prendano vita e comincino a camminare con le proprie gambe in maniera estremamente convincente.

Possiamo solo immaginare l'«Eureka!» del regista nell'imbattersi nel romanzo autobiografico di Massimo Gramellini da cui Fai bei sogniè stato tratto. In esso, uno dei massimi rappresentanti (insieme al sodale Fabio Fazio) della melassa politicamente corretta che oggi, a tramonto del berlusconismo ormai consumato, è la peggiore, più in voga e più pericolosa delle ideologie, confessa che c'è un filo diretto tra la perdita della madre ad appena nove anni e il successivo “rifugio” nel giornalismo. Insomma: un po' come nel caso di Anakin Skywalker, è stato quell'evento traumatico a farlo passare al Lato Oscuro.

 

 

D'altro canto, le differenze non possono non saltare agli occhi. Darth Vader è un pressoché onnipotente genio del male larger than life, e allo stesso tempo è uno zombi strappato alla bell'e meglio dalla morte. Il protagonista di Fai bei sogni, invece, a dispetto dell'effettivo potere mediatico di cui gode oggigiorno, è solo uno zombi. Per questo Bellocchio sceglie Valerio Mastandrea, che con quella sua aria bonariamente spenta e mezza addormentata è con ogni evidenza l'attore più “zombesco” attivo in Italia da un bel po' di tempo a questa parte. Poco male se, in questo modo, una vicenda inchiodata all'assai preciso contesto geografico torinese (dalla finestra di casa Gramellini si vede lo stadio Comunale) viene contaminata dall'interprete che più “romanesco” non si può: ciò che è e rimane fondamentale è che il protagonista sia uno zombi.

 

A ben guardare, tuttavia, è il film stesso nel suo complesso ad essere uno zombi. Lo si capisce meglio se lo paragoniamo al resto della filmografia di Bellocchio, e soprattutto allo stile che la caratterizza. Quando si pensa al cinema del maestro piacentino, la prima cosa che viene in mente è un eccesso espressivo che rimane incollato alle immagini, spesso non senza una qualche teatralità. L'incedere nervoso di Castellitto di spalle nei corridoi in penombra de L'ora di religione; una fiaccolata fuori fuoco in profondità di campo che lentamente, avvicinandosi all'obbiettivo, acquisisce visibilità ne Il principe di Homburg; le danze intorno ai falò de La visione del sabba... Insomma: Bellocchio cerca ad ogni piè sospinto una palpabile instabilità più o meno sottile, ma sempre potenzialmente esplosiva. Ed essendo i cascami freudiani mai troppo lontani nel suo cinema, verrebbe da dire che la dimensione visiva dei suoi film fa di tutto per materializzare una qualche energia repressa che preme per riguadagnare la superficie. In Fai bei sogni, è l'esatto contrario. L'eccesso, qui, lascia il posto al difetto. Intendiamoci: non si tratta affatto del troppo liscio “grado zero della messinscena” delle fiction o dei film di Marco Tullio Giordana. Si tratta invece di una regia e di un'atmosfera stranamente ma sistematicamente devitalizzate. Al posto del “di più” espressivo costantemente ricercato da Bellocchio, non uno zero, ma un sottozero. È in fondo sempre lo stesso cinema, sempre lo stesso stile, però con il segno “–” al posto del “+”, davanti a una cifra che rimane comunque molto alta.

 

 

Per la verità, non è l'intero film ad essere così sinistramente disforico. Fai bei sogni comincia anzi sotto il segno dell'euforia: i primi minuti indugiano su una sorta di idilliaca e perfetta simbiosi fusionale tra madre e figlio dentro le quattro mura di un appartamento piccolo borghese. Poi, l'inversione a “U” a seguito della morte della madre. Il piccolo Massimo tenta di reagire rifugiandosi non già in Darth Vader, che allora ancora non esisteva, ma in una figura prelevata da quel medesimo calderone di cultura popolare da cui Lucas stesso attingerà a piene mani per tratteggiare il suo villain: Belfagor. Costretto ad abbandonarlo per far fronte agli imperativi della crescita, il protagonista si volge allora già in tenerissima età al giornalismo sportivo. E vedendolo esagitarsi e dare in escandescenze davanti a un finto microfono mentre si esibisce in un'improvvisata telecronaca calcistica, capiamo già che il bambino scivola subito verso il più tipico degli investimenti malinconici: prende un feticcio (il giornalismo), e lo carica della vita che il suo oggetto amato non ha più. Alimentando quell'assenza di vita che è la “mediasfera” nella quale Massimo passa in pochi anni da comprimario a protagonista, la madre continua a vivere in lui. 

 

Da lì in poi, il film si trascinerà con l'ondivaga abulia del malinconico tra passato (la vita di Massimo, dall'infanzia fino ai giorni nostri) e presente (un Massimo di mezza età che visita l'appartamento dei genitori) – nonché, letteralmente, tra un'epifania e l'altra. Che sia un prete, che sia un miliardario rovinato da tangentopoli, o meglio ancora che sia un abbastanza spensierato bambino jugoslavo alle prese con un videogioco nei primi anni Novanta, piazzato da un fotografo di fianco a una donna morta nel conflitto per aggiungere giusto un po' di sensazionalismo gratuito, tutto, in qualche modo, parla del trauma di Massimo. La verità su se stesso, insomma, è davanti ai suoi occhi lungo tutto il film, ma la riconoscerà solo quando, con geniale ironia, sarà proprio un pezzo di giornale a rivelargliela. Da esso emergerà, infatti, che la madre ha scelto volontariamente di morire anziché di poterlo crescere, e che dunque non l'ha mai veramente amato; Massimo dunque scopre di aver scelto, lungo tutta una vita, di non vivere, in modo da tenere in vita il fantasma completamente immaginario e privo di fondamento di un amore materno tanto inglobante e assoluto quanto, in realtà, inesistente.

 

 

È qui che la diagnosi psicanalitica e quella sociologica si saldano insieme, ed è una diagnosi a cui il cinema di Bellocchio ci ha già da tempo abituato. Secondo essa, l'immaginario collettivo italiano sarebbe incapace di liberarsi della dimensione del Mito, proprio perché quest'ultima viene vampirizzata dalla alternativa secca e “materna” dell'“io ti faccio e io ti disfo”, e cioè tra un appiccicoso “tutto pieno” emozionale e la negazione più totale; innanzi ad essa, l'autorità paterna (quella della Legge e del Linguaggio) non può nulla. Non è un caso se Massimo e il padre si ritrovano all'anniversario della strage di Superga, perché Superga è forse l'epitome perfetta di quello che è il Mito secondo Bellocchio: celebrazione della coincidenza micidiale tra la morte e l'immaginario. Il Grande Torino è grande perché sono tutti morti. È probabilmente questo che pensava Orazio Smamma, il cineasta “pupiavatiano” che ne Il regista di matrimoni (2006) simulava la propria dipartita solo per vincere un David postumo, sentenziando: «In Italia comandano i morti». La mediasfera in cui tutti ci tuffiamo quotidianamente, insomma, è costante celebrazione dell'immaginario in quanto assente, in quanto relegato a una pienezza mitica che possiamo continuare a presumere tale solo nella misura in cui essa sta “là” dove non stiamo noi. In questo senso, l'intera carriera di Massimo (cominciata non a caso con l'avvento della Seconda Repubblica), esaudirà il desiderio del tycoon che si suicida appena raggiunto da Mani Pulite, subito dopo una sua intervista: «Sarebbe bello che lei fosse il ghost writer della mia autobiografia». 

 

La Seconda Repubblica, compimento definitivo della società italiana in quanto spettacolo, non è altro che l'infinito funerale in cui la Prima viene messa sì a distanza, ma su un piedistallo rigorosamente irraggiungibile. (Questo punto, aveva provato ad articolarlo anche Daniele Ciprì, qui direttore della fotografia, nel suo sottovalutato esordio registico È stato il figlio). E se a rimanere schiacciato in questa tremenda tenaglia ideologica risulta soprattutto il Racconto (emanazione dell'autorità paterna), è anche il Sogno a trovarsi con le mani legate, proprio perché esso è un tentativo di ripetere il trauma attraverso la mediazione di un seppur distorto racconto. L'augurio «fai bei sogni» che la madre rivolge a Massimo prima di uccidersi, si rivelerà solo il beffardo sigillo all'impossibilità di sognare, o di redimere in sogno la propria non-vita. C'è infatti una sola parentesi onirica in Fai bei sogni, quella del ricevimento nella villa sontuosa e isolata, strettamente collegata al personaggio della dottoressa di cui Massimo si innamora, e che sembrerebbe per un po' una “seconda madre” che possa aiutarlo a risolvere il trauma ripetendolo. Speranza che si rivelerà vana.

 

 

Altrettanto vana è l'illusione che serva a qualcosa “comprendere” (e dunque “raccontare”) la fondamentale inconsistenza del proprio trauma. Il fatale ritaglio di giornale su cui scopre che la sua in realtà è una falsa perdita, Massimo lo incontra proprio nel punto appena precedente la parte finale, quello che nei film viene tipicamente riservato alle risoluzioni decisive. Peccato però che questa rivelazione non cambi nulla, e che la quieta disperazione del film prosegua assolutamente imperturbata fino ai titoli di coda. E mentre avviene, non assistiamo a nulla che ricordi anche vagamente il rilascio di pathos che in genere accompagna questi “colpi di scena”: tutto risulta immerso in un'afasica e attonita catatonia. 

 

Una bizzarra struttura narrativa, non c'è che dire. Soprattutto alla luce dell'ultima scena, che ci riporta con un imprevedibile flashback ai giorni dell'idillio infantile: giocando a nascondino con la madre, il piccolo Massimo si nasconde, fin troppo efficacemente, dentro a uno scatolone. Fine. Mossa enigmatica, che però finalmente chiarisce il modo giusto di guardare Fai bei sogni. Considerarlo soprattutto un racconto (dimensione di cui il film attesta il discredito) sarebbe un controsenso. Per strano che possa sembrare, Fai bei sogni è invece, sostanzialmente, uno zoom in avanti. Parte da un'atmosfera, ovvero dalla depressione collettiva di questi anni, depressione che oltre che materiale è indubbiamente anche morale e spirituale. Si avvicina ad essa sempre di più, quasi fino a metterla sotto la lente di un microscopio, e scopre che ogni istante che compone questa triste non-vita è in realtà una scelta del soggetto, la scelta di ogni momento di ritrarsi, e di rinunciare alla vita per tenere in vita il fantasma di un'illusoria, inesistente pienezza originaria. Nei primissimi minuti, lo spettatore, testimone di un perfetto idillio domestico madre-figlio, viene risucchiato nell'illusione di questa pienezza, ma solo affinché il resto del film la destituisca di fondamento. Né per il protagonista né per lo spettatore si tratta di “comprendere” questa dinamica, ma di sbattere la faccia contro la libera scelta, tanto deliberata quanto segreta e inconfessata, che operiamo senza rendercene conto in ogni momento in cui ci rifugiamo in questa vita grama perennemente schermata dalle mediazioni.

 

Lo stesso Massimo infatti non ha alcun bisogno di rendersi conto di quanto inconsistente sia il suo trauma (perché nulla, in fondo, è stato perso) per serbare, di questa inconsistenza, un'intima familiarità. Giovane redattore de La Stampa, messo davanti alla richiesta di rispondere a un lettore aspirante matricida egli scribacchia in pochi minuti una vuota articolessa su quanto sia preziosa la mamma – testo che lui stesso confermerà essere composto allo 0% di sentimento, e al 100% di retorica. La sua risposta, tutta di superficie, riceve un'accoglienza trionfale, e Massimo viene travolto dal successo professionale suo malgrado. È importante che Bellocchio sottolinei come non ci sia la minima malafede personale in tutto questo: il punto è, piuttosto, che l'immaginario “malato” del nostro paese consista in questa superficie liscia investita di valore proprio perché separata da una materia che ci piace immaginare bruciante solo perché, appunto, separata. 

 

È la stessa dinamica che informa il famigerato “politicamente corretto”. I conflitti sono confinati altrove, fuori dal radar, e non è loro minimamente concesso di intaccare la superficie liscia della rappresentazione. Parafrasando il titolo di un vecchio film di Bellocchio, potremmo concludere avanzando l'ipotesi che non ci vorrà un genio del male per sbattere, ogni giorno, un Buongiorno in prima pagina, ma ciò non rende la cosa meno mostruosa.

 

[Immagine 6]

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Bellocchio. Fai bei sogni
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